Dall’inferno del peggior record della lega, al purgatorio del Play-In, e infine al paradiso del quarto anello in sette anni: i tre pilastri del viaggio degli Warriors.

FOTO: NBA.com

Vedendo Klay Thompson uscire zoppicando da Gara 6 delle Finals 2019, in molti hanno pensato che l’era dei Golden State Warriors fosse ormai ai titoli di coda. Avevano motivi per crederlo, e per due anni i fatti gli hanno dato ragione. Al terzo, però, gli Warriors hanno rimesso insieme i pezzi e sono tornati al titolo, il quarto dell’era Steve Kerr.

Un viaggio lungo tre anni, partito dalla quinta apparizione consecutiva alle Finals, passato per una stagione da 15 vittorie e un’altra nella mediocrità di un’uscita al Play-In, e terminato con la conquista dell’anello di qualche giorno fa.

Una vera e propria rinascita dalle ceneri, che ha decine di ragioni. Proviamo a individuare le tre principali.


1 – Steph&Dray, il vero battito della dinastia

Pur non sottostimando affatto l’enorme contributo di Thompson, soprattutto nei primi titoli ma anche in quest’ultimo, in cui ha trovato un modo per essere determinante anche dovendo fare a meno della brillantezza fisica degli anni d’oro, gli ultimi due anni hanno definitivamente coronato il duo composto da Stephen Curry e Draymond Green come il vero artefice dei successi di Golden State.

Una coppia iper-affiatata, iper-compatibile e iper-complementare. D’altronde, si tratta dell’unione tra uno dei migliori attaccanti e uno dei migliori difensori della storia, entrambi cervelli cestistici eccezionali.

I dati di questi Playoffs spiegano alla perfezione tutto questo. Con entrambi in campo, gli Warriors hanno battuto gli avversari di 8.0 punti su 100 possessi (90esimo percentile); senza Curry sul parquet, l’attacco segna 110.8 punti su 100 possessi (39esimo percentile), mentre senza Green la difesa subisce 117.0 punti su 100 possessi (28esimo percentile).

E, anche nella partita decisiva per le sorti della stagione, Steph e Draymond hanno messo in mostra un vero e proprio capolavoro collettivo, un clinic offensivo e difensivo grazie al quale si sono assicurati il Larry O’Brien Trophy.

2 – La grandezza di Steve Kerr

Considerando che la valutazione dei giocatori è molto più facile, questo titolo sancisce soprattutto la consacrazione di Steve Kerr, qualora ce ne fosse bisogno, e il suo ingresso nel pantheon dei migliori allenatori della storia dell’NBA.

Molti dei giocatori con cui aveva costruito inizialmente il sistema di gioco sono fisiologicamente andati persi negli anni, e nel corso delle ultime due stagioni Kerr ha dovuto faticosamente fare in modo che tutti i nuovi elementi introiettassero le sue idee e i suoi principi.

Chi si ricorda ad esempio i primi mesi della stagione 2020/21? Invece di inseguire a tutti i costi vittorie in Regular Season, in quel frangente la priorità di Kerr era far giocare al nuovo roster che aveva tra le mani la sua pallacanestro. Nel breve termine, ciò ha portato a diverse sconfitte e prestazioni offensive da dimenticare; nel lungo termine, un lavoro di questo tipo paga, e paga nello sviluppo di Andrew Wiggins, autore di un finale di stagione scoppiettante.

Oltre a questo, ha rasentato la perfezione negli aggiustamenti a serie in corso, dando il meglio di sé nel coordinare la difesa contro Luka Doncic prima e i Boston Celtics poi. E, alla fine dei conti, gli Warriors hanno vinto il titolo soprattutto grazie al modo in cui hanno difeso.

Un sistema di gioco efficiente, la capacità di fare i corretti aggiustamenti e infine la gestione del gruppo. Tre caratteristiche che completano l’identikit di un allenatore leggendario, che in futuro verrà ricordato di pari passo con i suoi giocatori più importanti.

3 – Strength in numbers, la nuova generazione di gregari

Il ridondante slogan, che ha avuto origine nel 2016, aveva come maggior espressione la qualità dei comprimari a roster, e l’importanza del loro contributo. Per le caratteristiche stesse del sistema di gioco, basato su movimento di uomini e condivisione del pallone, i cosiddetti role player e subentranti dalla panchina sono più coinvolti e liberi di incidere.

Durante il ciclo che va dal 2015 al 2019, gli Warriors hanno potuto contare sul contributo di profili come Andre Iguodala e Shaun Livingston – e, nel corso del quinquennio in generale, tutti i giocatori passati a roster hanno avuto uno o più momenti di gloria. Persino Marreese Speights era un vero e proprio idolo locale.

Per arrivare a questo titolo, Golden State ha dovuto ricostruire quel modello, in cui i comprimari riescono spesso ad andare oltre i propri limiti, e ha trovato altri protagonisti del suo ridondante slogan.

Anche senza scomodare l’impatto di Andrew Wiggins e Jordan Poole, ci sono altri due giocatori che hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo, dando un contributo che risultava impronosticabile alle porte della stagione: si tratta di Gary Payton II e Kevon Looney.

Il primo, alla sua prima reale chance in NBA a 29 anni, si è dimostrato un difensore eccezionale, e in attacco ha saputo mettere il suo sconfinato atletismo a disposizione degli spazi creati dall’attacco degli Warriors. Partendo dal nulla, ha concluso la stagione giocando 46 minuti nelle ultime due partite delle NBA Finals.

Il secondo, probabilmente approfittando della presenza di Dejan Milojevic nel coaching staff, ha saputo compensare le sue mancanze nell’atletismo e nel range di tiro specializzandosi nell’arte del rimbalzo offensivo. Durante i Playoffs, ha catturato il 14% dei tiri sbagliati dai compagni (95esimo percentile).

Vincere un titolo è molto complicato. Per farlo si devono incastrare determinati pezzi, e tutti i dettagli devono essere a posto. Probabilmente non sarebbe bastata la grandezza di Stephen Curry, Draymond Green e Steve Kerr a segnare la rinascita della squadra e la conquista di un altro anello.

È legittimo affermare che senza i tiri folli di Poole, la difesa di Payton e i rimbalzi di Looney, Golden State non sarebbe arrivata al traguardo finale. Ed è quindi giusto omaggiarli.