Con la conquista del loro primo titolo NBA, i Denver Nuggets hanno dato lustro non solo alla città ma anche all’intera lega.

I Denver Nuggets campioni NBA
FOTO: CNN

Mi è rimasto impresso all’inizio di questa serie come queste siano state definite le Finals con meno appeal degli ultimi anni, da chi poi non si sa (sebbene QUI ci siano un paio di indizi). Sono quelle opinioni che ti passano davanti quando apri il feed di Twitter e si allargano, trovano consenso e si ingigantiscono, infarcendosi lungo la strada di statistiche, dati, citazioni da fonti (presunte) autorevoli che giustifichino queste affermazioni.

Non so quanti poi le abbiano effettivamente trovate noiose, magari in tanti. Un esito scontato? Può essere, ma personalmente questa visione di noia non mi trova d’accordo. Lungi da me dal voler imporre un pensiero, ma credo che ci metteremo un po’ a capire a cosa abbiamo assistito e magari mi viene da scrivere tutto questo sull’onda del romanticismo che mi suscitano immagini come quella che vedete in copertina.

Di foto scattate per celebrare un campionato se ne sono viste tante, tantissime, tutte belle a loro modo, ma quando guardo questa non riesco a fare a meno di pensare ad una foto di famiglia: Bruce Brown che fa le boccacce nelle retrovie, Jokic con la piccola Ognjena sulle spalle, Murray sorridente ai limiti dell’esausto, Christian Braun il cugino sempre imbronciato, Malone il papà un po’ imbarazzato.


Alla fine la sensazione che dà è quella di freschezza, di un finale di stagione cucito a pennello per quanto del tutto inaspettato. Perché, checché ne dicano i dietrologi, un epilogo del genere non se lo aspettava nessuno, forse solo i Denver Nuggets. E la NBA non può che esserne felice.

Scontro fra (non) Titani

Ad inizio anno i bookmakers non prendono quasi in considerazione una seria candidatura di Denver o Miami come potenziali vincitrici, semplicemente non sembrano avere quello che ci vuole. Gli Heat sono eterni incompiuti, tosti sicuramente, ma non abbastanza da essere visti come pericolosi; Denver non parliamone neanche, considerata come la classica squadra da stagione regolare che diventa fuoco di paglia ai Playoffs. E badate bene, i fatti fino ad oggi hanno effettivamente detto questo.

Ma allora perché sprecarsi a giocare delle partite se l’esito è così scontato? Sembra una domanda stupida, provocatoria e anche banale se volete. Ma non lo è, perché quello che vuole più di tutto un tifoso alla fine è essere meravigliato, alle volte smentito.

Non mi interessa minimamente quale sia stato lo share di queste Finals, non so quanto abbia ricavato la NBA dalle trasmissioni (spoiler: cifre da record). Avevo pronosticato tutt’altri Playoffs, sia ad inizio anno che ad inizio post season: non ho azzeccato nulla, neanche per sbaglio. E sono contento, perché ho finalmente guardato delle serie non sapendo quello che sarebbe successo. Anche ieri notte, in Gara 5, quando il finale sembrava deciso, per un attimo ho creduto che gli Heat potessero farcela.

Quelle due squadre non sarebbero neanche dovute essere lì eppure c’erano, ci hanno divisi, ci hanno uniti, ci hanno fatto tifare per l’una o per l’altra, sentirci vicini ad un giocatore e al suo diretto avversario. Ci hanno anche schifato, perché no, perché sicuramente non tutti si sono sentiti così. E poi diciamocelo, al duecentesimo tiro sbagliato di Michael Porter Jr. chi è che non ha lasciato andare un verso misto a disgusto e rassegnazione?

Avete visto “Ted Lasso”? Se non lo avete fatto guardatelo (zero spoiler, giuro): c’è un dettaglio che mi ha fatto pensare a quella serie, una parola che viene ripetuta spesso da chi si gioca un campionato ma è particolarmente adatta a chi quel campionato non dovrebbe vederlo neanche col binocolo. In teoria almeno. Una parola che si può accostare ad entrambe le squadre per il percorso che hanno fatto.

Cosa c’entra tutto questo coi benefici per l’NBA? Ci arrivo, ci arrivo. Ma prima…

I Miami Heat

Parto dagli sconfitti, i Miami Heat. La “Heat Culture”, fatta di tenacia e spirito di squadra, sembrava essersi smarrita quest’anno, tanto che per accedere ai Playoffs i ragazzi di Spoelstra sono dovuti passare dagli spareggi e non ce l’hanno neanche fatta al primo colpo. Arrivati però come ottavo seed, la musica è cambiata.

Chiedetelo a Giannis, arrivato alla fine di Gara 5 a riflettere sul significato di fallimento. I Bucks erano dati tra i favoriti, di sicuro nella serie almeno, essendo forti del miglior record della lega, eppure sono stati spazzati via senza neanche avere diritto di replica. Giusto una vittoria, per non sporcare ulteriormente quella che è stata a tutti gli effetti un’umiliazione. E proprio questa umiliazione mi porta a farmi un’altra domanda: perché siamo così felici di vedere una sfavorita sovvertire il pronostico e quando continua a farlo arriviamo a darlo per scontato al punto da esserne annoiati?

Gli Heat non l’hanno avuta facile per niente, solo contro New York non è sembrato in dubbio il loro passaggio. Arrivati però alle Finals dopo un altro upset pazzesco contro Boston abbiamo smesso di trovare il loro exploit interessante, ma perché? Perché non sono i Lakers o gli Warriors? Perché non c’è un blasone storico? Di storia ce n’è eccome, è recente, ma c’è. Spoelstra non è arrivato lì per caso, Pat Riley non ha costruito alla cieca, la narrativa dei sette undrafted nel roster non è solo per le prime pagine.

C’è un’idea, un progetto, c’è sempre stato. Solo che se non coinvolge nomi particolarmente interessanti, caldi o controversi, semplicemente ci passa di mente. Ma loro si sono giocati una finale e hanno dato prova una volta di più di quanto possa essere fondamentale una gestione oculata a partire dal front office fino ad arrivare alla panchina. E questo dovrebbe insegnare qualcosa all’NBA.

I Denver Nuggets

“Sì sì, bello il primo posto, vediamo appena beccano Golden State o i Lakers”, altro esempio di frase che ha intasato le bacheche dei social. E sia chiaro, non è un giudizio verso nessuno, sfido chiunque a non essere quantomeno scettico dopo anni in cui il ritornello è stato sempre lo stesso.

Dire che Denver fosse favorita è mentire a sé stessi, ci hanno creduto in pochi all’inizio. Ma faccio un paio di nomi in questo caso.

Ci ha creduto la famiglia Kroenke, proprietari della franchigia ma anche dei Rams in NFL e degli Avalanche in NHL. Da oggi sono gli unici ad aver vinto il campionato in tre sport differenti. I primi a fare il triplete, per dirla in termini calcistici. Ci hanno creduto davvero nel momento in cui si sono trovati ad un bivio, avendo la possibilità di firmare stelle privandosi però dell’ossatura della squadra, o quando avrebbero potuto tagliare o scambiare Murray dopo l’infortunio.

Ci ha creduto la squadra intera anche grazie a Mike Malone, allenatore troppo spesso etichettato come ancorato al “palla a Jokic e vediamo cosa succede”. Partiamo da un presupposto: se voi aveste uno come Nikola Jokic in squadra, cosa fareste? Gli dareste la palla in mano e vedreste cosa succede. Non sarà il tattico per antonomasia, ma va reso credito a Malone di non aver mollato un secondo con questa squadra e di averli motivati fino alla fine.

Anche qui, come per gli Heat, l’intera NBA dovrebbe prendere a modello il progetto. E di questo progetto, sarò ripetitivo, è emblematica la gestione di Jamal Murray: in lacrime al suo coach aveva chiesto se sarebbe stato scambiato di lì a poco dopo essersi rotto il crociato. La risposta:

Ricordo che ero nel bus con lui, aveva gli occhi lucidi e quella era la sua preoccupazione. “Ti riprenderai da tutto questo, vedrai. E non solo ti riprenderai, ma tornerai anche più forte di prima”, gli ho detto. L’ho abbracciato e ho ribadito: “Assolutamente no, sei con noi, ti vogliamo bene e ti aiuteremo a ritornare, e tu sarai un giocatore migliore per tutto questo”.

Ieri sera il nativo di Kitchener ha ringraziato lui e i Kroenke, sempre in lacrime, per non averlo abbandonato, per non aver smesso di credere in lui. Quel tipo di affetto e dedizione non la compri con un contratto multimilionario.

Cosa può imparare l’NBA

L’ho detto fin dall’inizio, vedo prevalentemente l’aspetto romantico, ma anche questo può insegnare qualcosa che valga la pena di essere messo in pratica. L’NBA è un business e su questo non ci piove, nessuno si aspetta che cambi, ma questo non significa che non possa migliorare la mentalità.

Quante firme di giocatori abbiamo visto, completamente a caso, senza un’idea, senza un pensiero a lungo termine, nel tentativo di mettere una pezza su evidenti problemi di mala gestione sia in campo che fuori. Nella migliore delle ipotesi riesci a strappare qualche soddisfazione ai Playoffs, magari passando il primo turno; nella peggiore, butti alle ortiche le sorti della franchigia per gli anni successivi e poi vedi che divertimento a dover ricominciare da zero senza un progetto.

I miei complimenti non sono applicabili solo a Denver o a Miami, Sacramento ne è stato un altro esempio clamoroso quest’anno. Sono state fatte delle scelte come franchigia, come roster e queste scelte hanno ripagato, ci vorrà altro tempo per scoprire quanto, ma intanto il risultato sembra già vedersi.

Denver e Miami hanno fatto lo stesso, solo più in grande e con risultati decisamente migliori. Ha pagato la fedeltà, l’affetto, il senso del gruppo, l’amicizia, l’attaccamento alla maglia che sembra una cosa così lontana al giorno d’oggi. Tempo al tempo, vedremo quante altre franchigie decideranno di seguire il loro esempio invece di buttarsi sempre in scelte scellerate che vincono primi posti solo nelle headlines dei giornali o delle testate online.

E intanto noi romantici possiamo gongolare, godendoci un po’ tutte quelle storie di redenzione, di successi inaspettati, di partite emozionanti per chi sa trovare l’emozione oltre alla statistica.

Questi Playoffs ci hanno insegnato tanto, sta a noi decidere cosa.