O, se preferite, una cris-Hali-de.

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Anoica, succinta ed evoica. A seconda dello stadio della metamorfosi, queste sono le tre tipologie di crisalidi osservabili in natura e studiate dalla zoologia. Che sia protetta o meno dall’involucro, la farfalla è ancora lontana da librarsi in volo e mostrare al resto del creato la bellezza dei colori variopinti. Ma è questo il momento decisivo per intuire la gamma che il lepidottero presenterà in futuro: non più uovo né bruco, non ancora adulta, la crisalide affascina per tutto quello che fa vedere, tutto quello che tiene nascosto e tutto quello che lascia all’immaginazione. La crisalide permette di fantasticare, estremizzando pregi e difetti di ciò che fa solo intravedere. Concede il beneficio e il privilegio di ipotizzare gli scenari più disparati. È l’ultimo istante in cui le idee rimangono pure, intatte, prima che la realtà concreta, per quanto razionalmente perfetta e compiuta, prenda il sopravvento.

Perdonateci il preambolo, ma nessuna metafora spiega meglio la sensazione che si vive godendo dei picchi e dei precipizi degli Indiana Pacers.

Senza 3 membri dello starting five e 6 indisponibili totali riesci a violare il Chase Center di San Francisco, avendo la meglio della versione casalinga degli Warriors e costringendoli al 29,5% dalla lunga, dato in piena controtendenza per la Golden State di questo inizio di Regular Season. Passano 6 giorni e perdi in casa contro Brooklyn. Niente di trascendentale: quelli sono i Nets, secondi a nessuno in quanto a star power.


Peccato che Vaughn abbia rinunciato a (se lo si legge tutto di seguito, senza pause tra un cognome e l’altro, fa ancora più impressione) Durant, Irving, Simmons, O’Neale, Warren, Curry, Harris e Claxton. Peccato che Brooklyn abbia beneficiato di 15 tiri in più di te, raccogliendo 29 rimbalzi offensivi a fronte dei tuoi 23 difensivi. 6 giorni. Non uno di più, non uno di meno. Coincidenze? A occhi ingenui e poco avvezzi ai protagonisti di questa storia, gli eventi potrebbero sembrare casuali, randomici. Ma il soggetto sono gli Indiana Pacers 2022/2023: andando al di là delle presentazioni formali e approfondendo un minimo la loro conoscenza, nulla può più sorprendere.

82 punti, con un attacco fagocitato dal sistema difensivo di Spoelstra, e 47 in un quarto contro gli Warriors due sere dopo. Qualora non vi siate ancora imbattuti in loro (e vi capiamo, in fondo sono solo i Pacers), il consiglio è quello di farlo al più presto. Con la mente libera e priva di attese: come la famosa scatola di cioccolatini, da questa Indiana puoi aspettarti tutto e il suo contrario. Le montagne russe non piacciono a tutti, ma la scarica di adrenalina vale la pena di superare il timore iniziale. Fidatevi.

Da quando Paul George from Fresno State è stato scelto alla #10 nel Draft 2010, praticamente tutte le versioni di Indiana sono state, sulla carta, più forti di quella di quest’anno. Nessuna, però, è stata così bella, divertente come questa. Se gli anni precedenti a rubare l’occhio erano le follie di Lance Stephenson o la connection Sabonis-McDermott, per la prima volta si ha il piacere di vedere tutta la squadra giocare. Ci si diverte. La filosofia a-tankante di Herb Simon, Kevin Pritchard e Chad Buchanan non dovrebbe favorirlo, considerando a maggior ragione la cultura Hoosier e il curriculum di coach Carlisle. Eppure, dal febbraio scorso e ancor più in questo primo quarto di stagione, la coerenza del background Pacers sta collimando con la freschezza e la frizzantezza del gioco espresso. Gioventù a braccetto con referti rosa, molti più del preventivato. Cosa volere di più da una franchigia in retooling (no, rebuilding non è contemplato nel vocabolario del Basketball State…)?

Pietre di scarto

Non tutto il materiale a disposizione in partenza sarà impiegato nella costruzione dell’edificio, gli operai edili lo sanno benissimo. Anche quei pezzi che, in un primo momento, sembravano essere utili alla causa, col procedere dei lavori si rivelano superflui, eccessivi, gravosi. Prefigurare lo sviluppo dei Pacers nel medio termine non può prescindere dalla presenza di veterani a roster: anche a costo di sprecare slot, garantendo contratti a elementi da chilometraggio infinito e usura in fieri, ogni contender che si rispetti possiede, tra le mura dello spogliatoio piuttosto che sui 28 metri del parquet, uomini dalla carta d’identità non più verdissima ma con minuti e chilometraggio che fungano da insegnamento.

Non saranno TJ McConnell, Daniel Theis e James Johnson (o quel residuato bellico che ci spacciano col suo nome e cognome), per ragioni meramente d’età che non per caratteristiche disfunzionali. E poi, diciamolo chiaramente: se Indiana vorrà davvero ambire a qualcosa, un posto per Lance Stephenson dovrà esserci, prima o poi.

Un altro discorso riguarda chi, invece, non ha mostrato di essere competente in ambito NBA. Se sul two way Trevelin Merleto Queen, a parte il nome clamorosamente bello, le speranze riposte erano pressoché nulle, su Terry Taylor e Goga Bitadze qualche fiches era stata puntata. Entrambi i profili hanno la taglia e lo skillset adatto a fare buchi e onde in Europa: l’augurio è che raggiungano il Vecchio Continente il più presto possibile, evitando di trascinare una situazione infruttuosa per entrambe le parti.

Durezza del materiale

Quale miglior annata di questa, nella quale i risultati stanno sorprendendo in positivo e la pressione esterna è ai minimi storici, per permettersi di sperimentare a cuor leggero? Se ti chiami Rick Carlisle, la cosa non dovrebbe appartenere al DNA. Eppure, come troppo spesso si sottolinea, l’allergia dell’ex coach dei Mavs all’impiego e allo sviluppo di rookie e giovani è stata spesso dovuta alle risorse a disposizioni. Tornando a Indiana, Carlisle ha avuto la prima opportunità in carriera, non avendo un roster che ambisse ai Playoffs, di investire e insegnare pallacanestro. A Dallas non li faceva mai giocare? Probabilmente perché non ne ha mai avuti all’altezza.

Nel roster attuale si possono individuare 4 elementi sotto la lente d’ingrandimento, evitando qui di considerare due profili ingiudicabili. Posto che il rookie più anziano della classe Draft 2021, Chris Duarte, si sia garantito almeno un altro contratto grazie a una prima annata targata “Un decennio di rotazione NBA”, quest’anno si è visto pochissimo a causa di una distorsione alla caviglia sinistra, ancor meno si può dire di Kendall Brown. Firmato con un two way contract, la #48 dell’ultimo Draft è stato più in G League che in NBA, dove – più che mostrare di disporre di un jet pack incorporato tra le scapole – non ha avuto ancora spazio. E, purtroppo, ancora per molto non ne avrà: la frattura alla tibia lo costringerà a uno stop non indifferente. Per uno dal suo atletismo, la speranza è che la riabilitazione non infici troppo l’esplosività delle leve.

Dal 37,3% da 3 dello scorso anno al 28,1%, mantenendo inalterato il volume. Non un bel segnale per la permanenza nel progetto di Jalen Smith. La #10 scelta del 2020 gode della massima fiducia dello staff tecnico: la volontà di rifirmarlo in estate e la dichiarata intenzione di assicurargli lo spot di 4 titolare era corroborata dal finale di 2022. L’inizio di regular, tuttavia, ha mostrato più ombre che luci: troppo leggero per essere speso contro i centri, dal baricentro troppo alto per sostenere una massiccia dose di switching, la sostenibilità del 2000 da Maryland passa dalla capacità di produrre in attacco.

Se a rimbalzo offensivo Smith ci va spesso e volentieri (1.8 a partita), al momento l’occhialuto non si sta rivelando una minaccia sugli scarichi, faticando ad allargare il campo per le scorribande dei vari handler. Nelle ultime uscite è addirittura partito dalla panca: se la scelta poteva essere dettata da un complicato accoppiamento col quintetto degli Heat, il preferirgli Nesmith contro GSW è suonata come una dichiarazione d’intenti. Due indizi non fanno una prova: Jalen Smith è effettivamente colpevole?

Il principale competitor di Smith per un posto nel futuro a Indianapolis è, per richieste contrattuali e sovrapponibilità tattica, Oshae Brissett. L’undrafted canadese, rientrato nella Lega dalla porta di servizio dopo un triennio a Syracuse, ha banalmente le gambe troppo lunghe per il basket del 2023. Come pensare allora a una firma in estate? Altrettanto banalmente, Oshae è grosso. Benvoluto da tutti nell’ambiente, Brissett sta tenendo ottimi numeri dall’arco (36.5% su quasi 3 tentativi per partita) e, nonostante alcune notti sia destinato a 48’ di panca, quando viene chiamato in causa risponde costantemente presente all’appello: +37,6 di differenziale On/Off nella lineup in cui è maggiormente impiegato non è un dato casuale. Minimo spazio, ottima resa, diverse urla sopite nelle camere buie dei nottambuli come noi per una sua stoppata o penetrazione incosciente: forse non finirà mai (?) una partita Playoffs in campo, ma un corpaccione da buttare nella mischia e dall’effort garantito fa sempre comodo.

Non facciamoci ingannare dalle fredde statistiche. Uno potrebbe leggere 8.2 rubate e 6.3 stoppate per partita (#5 e #2 in NBA) e illudersi che quella di Indiana sia un’ottima difesa. Uno potrebbe leggere 113.3 di Defensive Rating (#18 nella lega) e illudersi che quella di Indiana sia una pessima difesa. In medio stat veritas, probabilmente. Quello che è certo, al di là dei dati, è che ai Pacers manchi quel difensore che, nei momenti decisivi, venga schierato esclusivamente per occuparsi della star avversaria.

Se questa è nel ruolo di 4/5, il discorso è rimandato tra qualche paragrafo. Se invece si affronta un Middleton, un Tatum o un Booker, l’indiziato numero 1 dovrebbe essere Aaron Nesmith. Dovrebbe, appunto. Il ventitreenne da Vanderbilt rappresenta il prototipo del puro 3&D. Al momento, purtroppo, la realtà lo sta dipingendo come l’asset negativo della già malinconica trade Brogdon. L’ex Celtics è la sottomarca del discount di quello che era dipinto al college: in difesa non si sta rivelando un fattore (on/off difensivo di +3.9 punti per 100 possessi, 24esimo percentile), e dall’altra parte il 36,3% dai 7,25 mt non è sufficiente a compensare. A preoccupare più di tutto è che Nesmith rispecchia esattamente il profilo indicato: se continuerà a non mostrare segnali di crescita, almeno Pritchard saprà come supplire.

Attualmente negli Austin Spurs, Kenneth Faried gasava assai. Raramente si ricorda uno che, al pari di Manimal, riuscisse a saltare così tanto, così tante volte, in così poco tempo. Se si è appassionati di grilli impazziti che esaltino per la vibratilità trasmessa e che provochino irritazione per l’eccessiva foga, Isaiah Jackson è quello che fa per voi. Come per il quasi omologo di Memphis, il prodotto di Kentucky pare essere animato da una tarantola incosciente che, duranti minuscoli blackout nelle trasmissioni neurali, consigli all’organismo di fare, nel dubbio, la cosa che sa fare meglio. Saltare, saltare, saltare

Vedere il numero di falli parametrato sui 36 minuti fa spavento. Parametrato, sì. Perché Jackson ne commetterebbe 6 molto prima. In un contesto competitivo il minutaggio non si scosterebbe dai 16.1 attuali, ma la disciplina è ancora tutta da assimilare. È già capitato in alcune gare del 2022 che Carlisle non lo considerasse minimamente nella rotazione, costringendolo a diversi DNPCD.

Rispetto ai nomi precedenti, d’altro canto, l’upside di Isaiah è ben maggiore: in attesa dell’atterraggio dell’astronave Wembanyama vi sfidiamo a trovare un migliore stoppatore sulle triple avversarie. In un roster dove tutti i lunghi sono assai spendibili in aiuto, Jackson è l’unico in possesso di una mobilità laterale sufficiente a sostenere due, tre, quattro scivolamenti contro le guardie avversarie. E, visto che anche l’occhio vuole la sua parte, i tifosi Pacers stanno finalmente godendo anche di qualche alley oop, forse per la prima volta nella storia. Cortesia, ovviamente, di Isaiah Jackson.

AAA guarnizioni vendesi

Ce la stanno mettendo tutta. A parole e coi fatti. Cos’altro devono fare Myles Turner e Buddy Hield per essere impacchettati verso la California o qualsiasi altro lido che non sia la contea di Marion? Per contratto, ambizioni e fit, i due sarebbero le ciliegine sulla torta. Essendo che però Futurama è solo una sitcom animata e non siano documentati reali casi di sonno criogenico che congeli esseri umani e li faccia risvegliare a distanza di anni con le intatte proprietà fisiche, ecco che Turner e Hield non sono funzionali ai Pacers di oggi. Non stiamo parlando di due star, chiaro, ma in un roster dalle gerarchie ben definite, dove sono altri i cardini e i perni, loro possono essere le finiture migliori.

Se si prende il Myles Turner appena uscito da Texas e quello del 2022 non si noterebbero troppe differenze: un grandissimo rim protector alla Timelord, costantemente in aiuto e coinvolto in un ossessivo preswitching per evitare diretti matchup coi pari ruolo (Embiid, Jokic, Davis, Giannis: quel famoso 4/5 di cui sopra…) o con esterni più rapidi, un onestissimo tiratore sugli scarichi con morbido tocco (attorno all’80% ai liberi in carriera, 43.8% da tre su 4 tentativi a gara in questa regular), arguably il peggior rimbalzista dell’NBA per dimensioni, bloccante al più risibile.

Non esattamente il prototipo del lungo di talento che un sistema come quello di Indiana necessiterebbe, ma un gregario notevole se inserito in un ecosistema che gli richieda compiti e minuti più qualitativi.

“L’ideale tiratore di volume in un sistema drive and kick”. Un soprannome troppo lungo, dite? E dire che tra Buddy e Hield suonerebbe bene. Se fino all’arrivo a Indianapolis il bahamense era considerato un tank commander sulla scia dei vari Terrence Ross, Emmanuel Mudiay e Alec Burks, Hield sta mostrando di essere qualcosa di più. La parabola di redenzione di Hield, se mai si compirà, non sarà certo nell’Hoosier State. Il se, tuttavia, è d’obbligo: 6 anni di NBA senza un’apparizione ai Playoffs è una striscia da record, chissà che non ci tenga di più a questo primato che a tentare di vincere l’Anello…

Fondamenta

Chiudiamo gli occhi e immaginiamo gara 5 delle Eastern Conference Finals del 2026. Da una parte la vostra squadra del cuore, dall’altra gli Indiana Pacers. Gara punto a punto, si arriva nel clutch. Per i Pacers ci sono Tyrese Haliburton, Bennedict Mathurin, Andrew Nembhard e altri due. Utopia o distopia? Volendo essere ottimisti, già oggi Indiana possiede le pietre d’angolo del proprio futuro, uno che verrà rifirmato al massimo salariale in estate e gli altri due appena scelti al Draft.

Era da George McCloud che Indiana non sceglieva tra le prime 9 scelte di un Draft. Era il 1989, e la #7 da Florida State passò da Pesaro prima di ritornare negli USA e partecipare anche a un Three Point Contest all’All Star Game 1996. Bennedict Mathurin, permettetecelo, andrà meglio di così. La sesta scelta ha mostrato flash straordinari, nel più puro senso di “fuori dall’ordinario”. Più che i 17.8 punti e il 35,9% da 3, influenzati dall’alta marea e dalle risacche tipiche dell’impatto con la National Basketball Association (viaggio in trasferta a Ovest appena concluso per ulteriori informazioni), sono i 5.7 viaggi in lunetta di media a far stropicciare gli occhi. Cifre da veterano, non da una shooting guard con due anni da esperienza in Division I e poco altro.

Le dichiarazioni della pre-season lo avevano fatto passare per uno spaccone arrogante: come si permette di dire di essere al livello del solo LeBron? Che mancasse l’autostima e la fiducia nei propri mezzi era fuor di dubbio, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il parquet. Bene: Mathurin doesn’t give a f*ck. Perdonate il francesismo, ma l’impressione è che il primo prodotto della NBA Academy di Città del Messico (bellissima storia, qualora foste interessati) non abbia paura di niente e nessuno.

Come il calabrone, Ben non avrebbe status, stazza e curriculum per pensare di viaggiare verso e sopra il ferro con tanta sfrontatezza. Eppure, lo fa, eccome se lo fa. Un tocco sul floater che gli garantirà milioni di dollari nel prossimo decennio almeno (7/14 nei floating jump shot, 16/34 in quelli dal palleggio), un pacchetto di soluzioni al ferro già estremamente variegato, la sensazione che ogni volta che stacchi da terra nessun corpo o braccio possa frapporsi e modificare la traiettoria prevista. Come se fosse protetto da una bolla o un’aurea, il suo finishing al ferro sia on che off ball è già da élite NBA (con efficienza propria di un rookie e un volume molto elevato).

Aree di miglioramento? Ce ne sono: una tunnel vision da limitare, una difesa POA e dal lato debole a giorni alterni, la capacità di saper aspettare il momento in cui azzannare la partita senza dover tentare di attentare alla giugulare costi quel che costi. Padre Tempo farà il suo corso ma, se siamo davanti a un credibile candidato al 6th Man of the Year Award, l’orizzonte è limpido.

“Lo avremmo scelto anche alla 20 o alla 25. E ogni giorno abbasso quel numero”. Non è così un azzardo affermare che, dopo Luka Doncic e Mathurbo, il terzo rookie più pronto che Carlisle abbia mai avuto tra le mani sia Andrew Nembhard. In seguito al limitato utilizzo delle prime uscite, il fratellone di Ryan è salito alla ribalta in occasione delle uniche vittorie del road trip a cavallo tra novembre e dicembre.

Se il game winner in faccia a LBJ ha fatto il giro dei social, a impressionare addetti ai lavori e non sono stati i 31 calati al Chase Center. A far colpo (oltre all’essere scelto nello stesso Draft dalla stessa franchigia con un altro canadese con esperienza collegiale pluriennale, fun fact) è stato il fatto che non abbia fatto nulla di particolarmente impressionante. Non è stata una serata in cui, come si dice in gergo, ha visto la Madonna. Difensore primario su Curry, tra le mani l’intero load offensivo data l’assenza del play titolare, la scelta #31 non ha sbagliato una singola scelta in tutti e 41 i minuti sul parquet. Il consiglio spassionato è quello di recuperare l’intera partita: in ogni azione, offensiva e difensiva, c’è l’influenza non banale di Nembhard. La vittoria con GSW è il perfetto compendio di tutte le infinite piccole cose tramite le quali il prodotto di Gonzaga contribuisce alla quadratura del cerchio dei quintetti.

Un giocatore magari meno appariscente, allergico a statline notevoli, presente e futuro feticcio dei “capiscers” del Gioco, tremendamente utile se si vuole costruire un contesto sano. Non si flirta col club dei 50/40/90 (attualmente 47.4/40.4/86.7) per caso. Di ambienti permeati da culture vincenti, tra Montverde Academy, Florida e Gonzaga, ne ha già frequentati molti, elemento non secondario nella creazione di una mentalità positiva. Qualche chicca: attrazione magnetica per gli sfondamenti avversari; la perturbazione dell’equilibrio del bloccante in difesa di situazioni di pick&roll; una wingspan di 6’6’’ non trascurabile lontano dalla palla; il continuo movimento della testa per scannerizzare ogni porzione di campo; la disponibilità alla nobile e trascurata arte del tagliafuori. Prima dell’inizio della stagione diceva di ispirarsi a Tyus Jones: 4 anni in meno e 3 cm in più aprono scenari ancora migliori.

Si scrive Tyrese Haliburton, si legge All Star Game 2023. E, a meno di infortuni, non si prendono in considerazioni alternative. Per le logiche NBA potrà solamente entrare nella discussione per il MIP: le cifre non sono poi così diverse da quelle dello scorso anno. Da quando Indiana è stata omaggiata dai Kings della loro unica scelta illuminata dell’ultima decade, Tyrese si è mantenuto su livelli celestiali nell’immediato. Le percentuali sono molto simili, in fondo. Cosa è cambiato? Solo i punti e gli assist, da 17.5 e 9.6 a 19.8 e 10.6. Mica pizza e fichi. Cosa non è cambiato? La leadership cestistica ed emotiva dell’intero universo Pacers; il tentativo di creare sinergie tra compagni, staff e Gainbridge Fieldhouse; l’essere il miglior passatore umano (su LeBron Raymone James Sr si nutre qualche dubbio di robotica origine) per qualità, quantità, tecnica e letture.

Haliburton è al terzo anno nella lega e, inevitabilmente, ha aree del gioco quantomeno da sgrezzare: la predisposizione alla rubata è ancora troppo accentuata e, per quanto le cifre possano suggerire il contrario, la fiducia nel tiro da fuori è ballerina. Non sono il 40.2% da 3 su 7.2 tentativi per game a dirlo: lo sono alcune esitazioni nei momenti caldi della gara, nei quali il suo essere pass first lo limita nel prendere rapide decisioni. Vero che la lunghezza delle braccia compensa un’esplosività nel primo passo non esorbitante, ma solo il 12.8% dei punti deriva dai tiri liberi. Troppo poco per essere un’arma offensiva tout court: la presenza di difensori alla Vanderbilt, alla McDaniels o alla Barnes, in grado di passare dietro ai blocchi sulla palla e garantire contemporaneamente una separazione minima per non permettere una sicura linea di penetrazione, in un contesto Playoffs spuntano come funghi.

Eppure, ogni volta che lo si vede condurre la transizione, lo stupore non smette di sorprendere: Tyrese è forte, per davvero. Come spiegare altrimenti una gara da 0/9 al tiro e +8 di Plus/Minus in una sconfitta di 5? C’è chi lo ha paragonato a Nash, chi a Chris Paul, chi a Jason Kidd. Le comparison sono un bell’esercizio di stile e le affidiamo alla paramnesia e agli psicologi. Consentitecelo, però. Oltre a essere una fonte retorica alla quale abbeverarsi (quHali altri titoli è in grado di Halimentare un play dalle visioni gHalieiane come Tyrese per i redattori dei giornHali?), è il volto di Tyrese ad abbacinare. Quel sorriso, quel maledetto sorriso, ricorda quello di un #32 gialloviola.

A differenza della maggioranza dei lemmi italiani, crisalide deriva dal greco. Più precisamente da χρυσαλλίς, derivato di χρυσός. “Oro”. L’involucro dorato che protegge, custodisce e consolida. The Hoosier State lo sa meglio di tutti: Blue collar, Gold swagger. And better.