Il 23 Aprile 2022, nel pieno della prima settimana di post-season, LeBron James twittava: “Non mancherò mai più i Playoffs nella mia carriera”, una sorta di promessa fatta alla propria fanbase e a sé stesso di mettere il massimo dell’effort nella la stagione successiva.
Dopo un’annata che aveva visto infatti i giallo-viola smantellare tutto il core che li aveva portati al titolo 2020 e a una stagione 2021 tutto sommato positiva, per arrivare alla tanto agognata terza “stella”, i Los Angeles Lakers stavano infatti guardando i Playoffs comodamente dal divano di casa, dopo dei mesi finali a dir poco atroci dal punto di vista cestistico.
Fast forward a poco più 12 mesi dopo e lo stesso giocatore, dopo aver (come di consueto, se si ha familiarità con il personaggio) cancellato il tweet incriminato quando anche questa qualificazione sembrava irrimediabilmente compromessa, conclude la propria stagione piazzando 40 punti, 10 rimbalzi e 9 assist nell’ultima partita della serie con la quale i Denver Nuggets spazzano via, con pieno merito, proprio i suoi Lakers.
Non credo sia stato il canto del cigno del più grande di sempre: LeBron James sarà in campo, nonostante le dichiarazioni degli ultimi giorni, per la sua 21esima, e probabilmente anche per la 22esima, stagione NBA, molto probabilmente con una squadra meglio assortita fin dall’inizio, e dunque con concrete possibilità di giocarsi almeno un’altra seria chance di titolo.
Per i panegirici ci sarà quindi tempo. Andiamo piuttosto ad analizzare quale sia stato l’impatto sul campo del LeBron James giocatore nei Playoffs 2023, e come si possano valutare le sue prestazioni sia al netto dell’età, che in termini assoluti.
L’antefatto
Non si può però iniziare senza fare una doverosa premessa, ovvero contestualizzare le condizione fisiche nelle quali si troverà James ai Playoffs, e per farlo dobbiamo tornare a quanto avvenuto il 26 febbraio. Dopo due mesi assolutamente straordinari, perlomeno a livello offensivo, LeBron si lesiona infatti il tendine del piede destro in una fondamentale partita contro i Dallas Mavericks, che concluderà sì trascinando i Lakers alla vittoria, andando però probabilmente a peggiorare lo stato di salute proprio del piede, che lo costringerà a rimanere fuori per quasi tutto il mese di marzo.
I tempi di recupero per un infortunio del genere sono molto variabili, ciò che è certo è che un trentottenne non dovrebbe mai essere in grado di assorbirlo ed essere su un parquet NBA in meno di quattro settimane. Eppure, dopo aver, a suo dire, consultato il “LeBron James degli infortuni al piede”, eccolo lì, sul campo, proprio nelle ultime partite decisive per definire la griglia Playoffs/Play-in ad Ovest.
Le speculazioni su quali cure abbia adottato si sono sprecate, ma è molto probabile che i personaggi di riferimento siano gli stessi medici tedeschi che avevano rimesso in piedi Kobe Bryant nella stagione 2012/2013, e che, a livello personale, la scelta di James sia stata quella di non operarsi; o, meglio, rinviare un’operazione che sarebbe stata necessaria in offseason, proprio per poterci essere quando aveva promesso.
Nonostante le parole dello stesso James (“non avevano mai visto nessuno guarire così velocemente”), è stato evidente però sul campo il calo fisico del quale ha risentito anche solo rispetto ai mesi di gennaio e febbraio (conclusi in sostanza a 30 e 8 di media), e questo trend si è visto ancor più estremizzato ovviamente nei Playoffs, nei quali in alcune situazioni il suo non essere al 100% è stato un fattore palese in molte delle scelte operate dai coaching staff avversari.
Le difficoltà
Inutile nascondersi dietro a un dito: è abbastanza evidente, anche a un occhio meno esperto che, dal punto di vista meramente individuale questa sia indubbiamente la peggior run Playoffs fra le 16 disputate da LeBron in carriera. Lo dicono i numeri e lo conferma l’eye test, in modo abbastanza lampante.
A livello offensivo le cifre sono circa in ogni frangente al minimo, o quasi: 23.3 Punti su 75 possessi ed efficienza leggermente positiva, 8.0 di Box Creation e 5.2 di BPM, gestendo un load del 42% sono cifre straordinarie (per intenderci: tutte intorno al 90esimo percentile), se confrontate con il resto della lega, ma ampiamente al di sotto degli standard a cui James ci ha abituato nel corso degli anni.
A livello tecnico è molto facile individuare nella differenza di atletismo la motivazione principale di questo drastico calo. LeBron non è più un giocatore in grado battere l’uomo con continuata dal palleggio, soprattutto nelle situazioni da handler sul pick&roll, dove è passato dall’essere nettamente il miglior mega-creator di tutti i tempi, in grado di gestire il ritmo della partita e adattarlo perfettamente al proprio, a produrre cifre veramente misere: 0.75 PPP in 65 situazioni del genere nel corso dei Playoffs.
Quello che poi è davvero mancato è stato il tiro da fuori: il 25% con il quale ha convertito tutti i tentativi che non fossero dagli angoli è infatti il secondo peggior dato in carriera, dietro solo al 2015, stagione nella quale fu falcidiato dai dolori alla schiena. A partire dal 2017, e ancor di più dall’arrivo a LA, James ha infatti con sempre maggior costanza elevato il numero di tentativi da oltre l’arco, mantenendo le percentuali stabili, cosa che prima di quest’anno gli ha permesso di sopperire in molti casi alla mancanza di gambe, un’arma alternativa la cui carenza si è fatta sentire in molte circostanze.
Ma se in una metacampo, seppur in versione ridimensionata, stiamo parlando comunque di un giocatore di assoluta élite, nell’altra le problematiche sono state molto più vistose, e sicuramente più costanti e condizionanti a livello sistemico per la squadra. James ha mostrato di non essere più in grado di tenere sulla maggior parte degli esterni di livello Playoffs, anche quelli non esattamente noti per le loro doti di creation, esponendo molto spesso la difesa a rotazioni di emergenza fortunatamente gestite molto spesso in modo ottimale, grazie anche e soprattutto alla presenza di Anthony Davis.
L’adattamento
La nuova conformazione assunta dai Lakers post-deadline ha permesso però a James di adattare il suo gioco ed esplorare una serie di situazioni che prima, per volontà sua, o contingenza, non gli era permesso ricercare con continuità. Se infatti va riconosciuta una cosa a James in questi Playoffs è l’essersi saputo adattare alle nuove necessità della squadra in relazione alle sue condizioni fisiche. Ha accettato di essere il “secondo violino” di Davis e assumere un ruolo più defilato quando necessario, e, nel complesso, anche l’approccio mentale nella maggior parte dei casi è stato quello corretto.
Ovviamente non sono mancate le classiche situazioni in cui è parso disinteressato alla partita o al contesto che lo circondava, così come altre nelle quali per minuti interi ha giocato in modo estremamente passivo, ma tutto questo, per quanto presente, è apparso molto più contenuto che in passato.
Ha più volte delegato consapevolmente responsabilità a due giocatori come Reaves e Schröder, i quali, per quanto discontinui, rappresentavano la miglior alternativa possibile – vista la condizione di Russell – e anche quella che più gli permetteva di giocare situazioni da rollante e/o tagliante dal lato debole, specie nelle lineup con uno solo fra Davis e Vanderbilt in campo. Un trend che lo ha portato, addirittura, nelle serie contro Denver, a giocare minuti da unico lungo, scelta dall’indubbio impatto offensivo (come già visto nella stagione 2022) ma che difensivamente espone qualche lacuna, nonostante l’ottimo lavoro svolto su Jokic in Gara 4 delle Western Conference Finals.
Riconoscere di non avere più 48 minuti “da LeBron James” è un merito di cui gli va dato atto, e anche un’ammissione fisiologica visto il chilometraggio – il fatto che, ad esempio, quasi il 17.5% dei suoi possessi li abbia spesi in spot-up è una prova evidente. Chiaramente vedere il GOAT ridotto a supercharged role player per larghi tratti ha più volte stranito, ma è quanto di più ci si potesse aspettare in determinati frangenti di alcune partite, nei quali lui ha cercato a più riprese di riposarsi pur rimanendo sul terreno.
Selezionare gli spot è stato dunque il mantra seguito da James, a livello offensivo, e un altro buon esempio può essere rappresentato dall’uso fatto dei post-up, ridotti percentualmente (forse anche troppo) rispetto al prime della carriera, ma estremamente efficaci sia nella creazione di buoni tiri per sé, che per gli altri.
Anche a livello difensivo il leitmotiv è rimasto lo stesso. Se infatti c’è stato un calo in determinate caratteristiche, è comunque indubbio come il suo IQ sia ancora in grado di indirizzare una gara in modo determinante. La sua presenza come playmaker difensivo è insostituibile e, nonostante le molte carenze a livello individuale, la qualità media dei tiri avversari è sempre e costantemente scesa nei momenti con lui in campo (frequenza di tiri open presi dalle squadre avversarie dagli angoli o al ferro sono indicatori abbastanza chiari).
I Lakers da febbraio in poi sono stati nettamente la miglior difesa della lega secondo la maggior parte dei parametri esistenti, e una della caratteristiche principali del loro sistema è stata quella di riuscire a forzare un gran numero di live ball turnover, generati proprio dalle capacità di lettura sul lato debole dello stesso James e di Vanderbilt in roaming, così come dalla rim protection di Davis.
Questo tipo di giocate, dette “disruptive plays”, oltre ovviamente a spezzare in modo netto il ritmo alla squadra avversaria, hanno anche molto spesso il pregio di lanciare direttamente la transizione, primaria o secondaria che sia, situazione di gioco nella quale, non da oggi, LeBron James dà il meglio di sé.
Le gemme
Da una run fatta di alti e bassi, di gestione del proprio fisico e delle energie si possono comunque estrarre delle perle, singole prestazioni, o singoli momenti, che rimarranno comunque scolpiti nella storia dei Playoffs e della sua carriera, in cui LeBron si è dimostrato capace sempre e comunque di lasciare il proprio personalissimo marchio.
Da quest’anno sono sicuramente 3 i momenti, le istantanee che bisogna trarre per raccontare i Playoffs di LeBron James, uno per ogni turno affrontato.
Il primo è rappresentato dagli ultimi minuti di Gara 4 contro i Grizzlies: sopra 2-1, LeBron sbaglia tutto quello che si può sbagliare per 3 quarti, giocando una pallacanestro leziosa e svogliata a voler essere generosi. Poi, dalla punta, attacca dritto per dritto Tillman e va ad appoggiare al tabellone il canestro della parità ad un decimo dal termine. Nel supplementare ancora due volte al ferro, la seconda a meno di un minuto dal termine, in isolamento su Brooks (con cui lo scontro verbale, unilaterale a dire il vero, era iniziato già da tempo): and-1 e ruggito della Crypto Arena.
La seconda, forse la più impattante dal punto di vista emotivo, è la Gara 6 contro gli Warriors. In quello che, a conti fatti, è sostanzialmente un elimination game (perché tornare alla Oracle dopo essere stati sopra 3-1 sarebbe stato psicologicamente devastante), James gioca quasi in modo sovrannaturale. Non sono tanto i 30-9-9 ad impressionare, ma il controllo mentale esercitato sulla partita, il non sbagliare praticamente mai una scelta, l’effort difensivo profuso nel momento del rientro Warriors, semplicemente magistrale.
La terza è esattamente quella da cui abbiamo iniziato, l’ultima partita della stagione. 31 punti nel solo primo tempo (record in carriera ai Playoffs) per mandare il messaggio a compagni ed avversari: “non siamo finiti”, e poi, nonostante la stanchezza che monta, sfiorare una tripla-doppia da 40 punti nel più classico dei losing effort. La perfetta rappresentazione di una delle tante facce di quello che è, e rimane, il più grande Playoffs performer di tutti i tempi, capace ancora oggi di essere, in una singola partita, il miglior giocatore su qualsiasi parquet del mondo.