Purtroppo ieri, domenica 26 gennaio 2020, devo aggiungere un’ultima data alla tua incredibile carriera: la data in cui sei scomparso troppo prematuramente, insieme a tua figlia.
La notizia della tua morte mi ha devastato, perché tu per me sei stato un modello, un’ispirazione, l’incarnazione dello spirito agonistico. Tifo Lakers dai primi anni duemila, quando insieme a Shaquille O’Neal dominavi, ma non è lì che mi sono follemente innamorato di te e del tuo gioco. Perché quei Lakers erano davvero troppo forti e l’ombra di Shaq in qualche modo ti ostacolava ancora.
È dalla stagione 2005/06 che hai dimostrato di essere uno dei migliori che abbia mai calcato un parquet e da lì non ho mai più smesso di seguirti e di idolatrarti. Mi ricordo ancora quella mattina del 23 gennaio 2006 quando, prima di andare a scuola, ho controllato come sempre i risultati e leggendo lo score… ho visto 81. Non ci potevo credere. Ho pensato: “81 punti in una partita?! Non può essere vero”. Dopo aver visto il video ero semplicemente allucinato. Incredulo.
Quello stesso anno ricordo l’entusiasmo per il 3-1 in post-season contro Phoenix, quando praticamente da solo stavi vincendo una serie di Playoffs contro una delle migliori squadre della Lega. Naturalmente, ricordo molto bene anche la delusione di quella sconfitta, ma col senno di poi poco importa, perché in quell’anno hai capito che nulla ti avrebbe fermato.
Ricordo il terrore nel mio cuore quando si era ipotizzata una trade che ti avrebbe portato a Chicago e la gioia di quando poi, alla fine, era arrivato Pau Gasol. Per fortuna. E che sollievo. In men che non si dica i Lakers erano tornati alle Finals e l’eccitazione per la sfida contro gli acerrimi rivali di sempre non era contenibile.
Sì, la delusione per la sconfitta contro Boston era paragonabile a poche delusioni sportive, ancora una volta come negli anni ’60 e ’70 i Lakers cadevano per mano dei Celtics. Ma ricordo, poi, la gioia dei due anni successivi, in cui hai guidato i Lakers a due titoli consecutivi. Contro Orlando il primo e proprio contro Boston il secondo.
Le NBA Finals del 2010 sono state indubbiamente le migliori per qualunque tifoso giallo-viola cresciuto con te, perché hanno portato con sé, oltre all’anello, la vendetta contro i Celtics e il tuo quinto titolo, quello che ti ha consentito di passare Shaq. Quella serie ha regalato un momento epico, immortalato da Federico Buffa e Flavio Tranquillo come quello in cui tu, Kobe, eri “da solo sull’isola”.
Poi, le illusioni del 2012. Il superteam con Howard e Nash, i tuoi infortuni per cui sei caduto ma sei sempre riuscito a rialzarti, fino ad arrivare alla tua ultima partita – che, ovviamente, non potevo non seguire in diretta. Alle cinque di mattina il boxscore recitava 60 punti, e io ovviamente ero commosso. E ne sono certo: non ero solo. Anzi.
Finalmente, dopo un ritiro da eroe, ecco il momento del meritato riposo, dopo vent’anni in cui hai deliziato milioni di appassionati in tutto il mondo e acceso i cuori dei tifosi giallo-viola che ogni sera accorrevano allo Staples Center per vederti giocare.
Hai letteralmente cresciuto un’intera generazione, che da te ha imparato cosa significa sacrificio oltre ogni limite, cosa vuol dire etica del lavoro. Sei stato un esempio unico di determinazione, per certi versi di ostinazione. Senza accontentarti mai, dimostrando a tutti cosa fosse la “Mamba Mentality“.
Ieri è arrivata come un fulmine a ciel sereno la notizia che nessuno avrebbe mai voluto ricevere. All’inizio ho pensato a una “fake news”, ma con il passare dei minuti quella speranza è svanita sempre di più, fino a che non è stata demolita dalla realtà. A quel punto trattenere le lacrime è stato veramente difficile.
Da eroe sei diventato leggenda. E ieri, da leggenda vivente sei diventato mito.
Grazie di tutto, Kobe, e riposa in pace.