
Il problema principale della NBA odierna non consiste nel sopravvalutato calo dei rating televisivi, nella povertà delle difese in regular season o nell’eccessivo numero di gare. No, è molto più subdolo, e riguarda la copertura mediatica del prodotto NBA stesso. Di recente, nel corso di una puntata di The Young Man and The Three podcast con Tommy Alter (piattaforma lanciata da JJ Redick, adesso impegnato a fare altro), sono stati ospitati Alex Caruso e Jalen Williams degli Oklahoma City Thunder, i quali hanno fornito qualche spunto di riflessione sull’argomento:
“Credo che gran parte di questo problema sia dovuto ai media nazionali. Se devo essere sincero, nemmeno loro guardano le partite. Credo che siano loro a guidare il fenomeno. Qualunque cosa tirano fuori è ciò a cui la gente risponderà. Ovviamente, la narrativa che spingono è quella che verrà seguita dalle persone. Prendiamo ad esempio i falli su Shai Gilgeous-Alexander. Onestamente dovrebbe andare di più sulla linea del tiro libero. È in testa alla NBA per numero di drive, di incursioni al ferro, e noi siamo la squadra con il minor numero di tiri liberi della NBA. Credo che ci siano sei o sette persone davanti a lui che tirano più liberi. Ma siccome ai media non piacciono certi modi in cui subisce il fallo, questa narrativa viene spinta. Basterebbe guardare le partite.”
– Jalen Williams
“Ormai va di moda non guardare pallacanestro. È tutta una questione di intrattenimento, di clip farming, di ricerca di highlights invece della sostanza del gioco. Ci stavo pensando l’altro giorno. C’era ESPN, era uno dei tanti talk show che trasmettono in qualsiasi momento della giornata. Pensavo: ‘Cavolo, mi manca SportsCenter quando c’era il ticker a lato. Quando c’era la partita successiva e c’erano 7-8 minuti di highlights. Poi c’era la pubblicità e finiva con le dieci migliori giocate alla fine dell’ora’.”
– Alex Caruso
I due non sono entrati nel dettaglio, e soprattutto Caruso – da buon “anziano” – quasi sembra far emergere una vena nostalgica, ma questa è solo la punta dell’iceberg di una tendenza più radicata e continuativa. La vera questione è che quelle messe lì non sono voci autorevoli, ma semplici fantocci, spauracchi che fanno il mero interesse dell’azienda per la quale lavorano perché è quello che viene loro richiesto, è un semplice show televisivo dove la pallacanestro passa in secondo piano. Di conseguenza, la copertura richiesta non è tecnica o specifica, ma il più generalista possibile, perché nascosta dietro ornamenti retorici e una comicità banale e pacchiana. Sempre di conseguenza, ci si riduce a parlare sempre degli stessi argomenti tramite slogan, studiando il pubblico e in base alla risposta dello stesso, concentrandosi sulle stesse narrative, sulle stesse squadre, sugli stessi giocatori in maniera monotona, banale e ripetitiva. Nonostante questo, la persona comune si nutre di questo prodotto a bassissima qualità come se fosse il Verbo, inquinando il dibattito cestistico e alimentando a propria volta la disinformazione.
Non si chiede all’operaio/a che lavora otto ore al giorno per tutta la settimana di fare fact checking, di recuperarsi tutte le partite o di navigare su siti e app di statistiche. Quello sarebbe compito di chi guadagna decine, in certi casi centinaia di milioni di dollari, per fare da “opinionista” o “analyst” NBA. Che in realtà finisce col vendere un prodotto di seconda mano spacciandolo per comunicazione. Non è nulla di grave, si parla pur sempre di pallacanestro, ma è una macchina che fattura miliardi prendendo per i fondelli gli stessi clienti ai quali vende e i quali allo stesso tempo o sono ignari della cosa o se la fanno andare bene perché, appunto, è solo pallacanestro – nonostante negli Stati Uniti questi servizi, che siano in tv o in streaming, si paghino anche salatamente. Proprio per questo, le aziende non cambieranno modo di fare informazione, e le ragioni sono molteplici:
1. Argumentum ab auctoritate
In primis, i media generalisti americani fondano qualunque discussione sull’argumentum ab auctoritate, il proporre assurdità spacciate per verità facendole uscire dalla bocca di una figura di spicco, possibilmente un Hall of Famer o una ex superstar della Lega, di modo che il pubblico pensi: “Se lo dicono gli Shaquille O’Neal del caso, deve essere necessariamente corretto”. Lo stesso Shaquille O’Neal che, per esempio, ha tessuto le lodi di Chauncey Billups, allenatore dei Portland Trail Blazers, per elogiare… i Detroit Pistons. Sarà un lapsus derivante da chi gli ha alzato in faccia il titolo 2004, ma questo non rende la cosa meno grave, anzi porta a un secondo punto molto importante.
2. Geografia NBA
“Non guardo Detroit”, ha borbottato tronfio Shaq come se fosse qualcosa di cui vantarsi. E non è un caso. Nonostante per esempio la sede di un gigante come ESPN sia nella ben poco turistica Bristol in Connecticut, la geografia dei media NBA è ben definita, con una forte concentrazione nei pressi di grandi città come soprattutto Los Angeles o New York. Basti leggere, per esempio, la lista delle partite trasmesse in diretta nazionale quest’anno e in cima alla lista si troveranno Lakers, Warriors (big market estremamente redditizio e sempre situato in California), Celtics – campioni NBA – e Knicks. Per quanto adesso, rispetto a decine di anni fa, i mezzi di comunicazione e telecomunicazione permettano di poter seguire da ogni posto del mondo la Lega di pallacanestro americana, i media generalisti continuano ad avere interesse solo per i grandi mercati.
Vendono di più, ci sono fan-base più ampie, quest’anno è andata anche particolarmente bene in termini competitivi dopo il passaggio di Luka Doncic ai Lakers e di Jimmy Butler ai Golden State Warriors, dunque vera e propria manna dal cielo per le aziende che non mirano a fare informazione, ma soldi. E soprattutto che sognano di accentrare il prodotto in quelle poche città, perché ci sarebbero meno costi legati agli spostamenti, meno approfondimenti da fare, meno nomi strani da imparare e via dicendo. Una politica del massimo risultato col minimo sforzo davvero squallida, che però continua a fatturare e a essere incentivata, nonostante figuracce epiche che si sommano all’infinito.
Per citarne alcuni, Nick Wright – opinionista che opera per Fox Sports, fra gli altri – è stato messo alla gogna mediatica (giustamente) nel 2023 per aver fatto semplicemente quello che gli è stato chiesto: parlare bene dei Lakers dopo la sconfitta in Gara 1 contro i Denver Nuggets alle Western Conference Finals. La sua frase è stata: “Se una vittoria può mai sembrare una sconfitta, e viceversa, questo è il caso. I Lakers devono essere fieri, mentre i Nuggets molto preoccupati”. Ovviamente, sweep per Denver, 4-0 secco e tutti a casa.
Una serie, da questo punto di vista, che ha regalato molte soddisfazioni, dal momento che nessuno dei grandi media aveva la più pallida idea di quanto inevitabili fossero quei Nuggets e soprattutto Nikola Jokic, un personaggio “poco vendibile”, molto chiuso e poco incline allo show business. Aspetto fatto notare proprio in quei giorni da Chris Mannix, giornalista per Sports Illustrated e NBC Sports, che ha definito Denver “una squadra non avvincente della quale parlare, della quale scrivere”, che però poco dopo ha vinto il titolo. Ancora una volta, Mannix non fa nulla di troppo diverso dagli interessi propri e delle aziende per le quali lavora, e questo si può fingere di accettarlo, ma semplicemente si genera una crisi tra questo approccio e la realtà dei fatti, una crisi nella comunicazione da parte dei professionisti, i quali non sono più tali perché incapaci di trasmettere un messaggio coerente al pubblico.
3. Hot take
Dietro alla parola “opinionista”, infatti, viene mascherato il fatto che queste persone non siano lì per fornire informazioni, bensì per spararla più grossa degli altri. Il che però riporta al problema dell’autorità e della notorietà di questi personaggi, le parole dei quali sono interpretate come fonti attendibili, rendendo tossico e insostenibile anche il quotidiano dibattito, se non addirittura la comunicazione, fra un semplice utente informato a livello base e uno che ha subito il lavaggio del cervello da nientepopodimeno di Charles Barkley.
Le “hot take”, le opinioni scottanti scagliate da una maschera, diventano la nuova fonte, il nuovo messaggio, la nuova (dis)informazione, e così nascono narrative false portate poi avanti da ciascun utente sui social o su qualunque piattaforma minore, distorcendo la percezione del prodotto NBA. Non esiste più il pensiero critico o la differenziazione, bensì una massa unica che ripete a pappagallo qualche sparata articolata bene su un programma ESPN o diffonde qualche frame slegato dal contesto di gara per sostenere una take – come nel caso di Shai Gilgeous-Alexander.
In maniera subdola, si porta la gran parte dell’utenza a preferire un giocatore a un altro, una tesi a un’altra, semplicemente perché ai media NBA non interessa affatto del contenuto ma della percezione di esso. Più vende, meglio è, dunque si spinge in quella direzione al punto che non esistono più opinioni se non quella forte, anche in casi estremi.
Un’esagerazione di alcune narrative che da poco ha creato un incidente mediatico è quello riguardante Draymond Green e Karl-Anthony Towns (QUI nel dettaglio): il giocatore di Golden State ha inventato, con un intervento sul proprio podcast divenuto virale, che KAT non si fosse presentato alla prima gara fra le due squadre perché intimorito da Jimmy Butler, non sapendo che in realtà fosse assente per un lutto. Quando gli è stato fatto notare, Green non ha chiesto scusa, anzi, ha mantenuto indifferenza, e durante l’incontro successivo fra i due c’è stato forte agonismo e un po’ più di pepe. Ovviamente, però, non è questo il punto del discorso.
Ogni singolo media ha ignorato la questione delle scuse, alcuni non parlandone, altri mentendo sul fatto che Green le avesse poste, concentrandosi sul solito atteggiamento del giocatore di Golden State che non ha fatto altro che alimentare la solita sequenza “logica” favorita dal pubblico generalista: KAT è soft, perché lo ha detto una volta Jimmy Butler e perché Green ha avuto l’ultima parola nell’incontro vinto dagli Warriors. In qualche modo, insomma, a esserne uscito bene è Draymond Green, perché la narrativa da lui spinta è quella forte, perché ha quattro anelli, perché Golden State ha vinto, perché si è congratulato con Towns a fine partita, non importa che non abbia avuto nemmeno l’accortezza di scusarsi in una situazione delicata per l’altro.
Ovviamente, tutto questo non a causa (solo) di Green, che ha una piattaforma rilevante come il suo podcast ma non ai livelli di quelle ESPN/TNT, ma sempre per incapacità o scarso interesse ad alimentare una “contronarrativa” da parte degli opinionisti. Anche perché il modus operandi di Draymond si sposa alla perfezione con quello della TV generalista, che probabilmente diventerà il suo palcoscenico a fine carriera. Proprio l’ala di Golden State lo scorso anno, per esempio, è stato il motivo per cui i Minnesota Timberwolves, dopo la vittoria in Gara 4 contro i Dallas Mavericks alle Western Conference Finals, hanno boicottato l’intervista su TNT, rendendo noto il proprio disappunto per i commenti di Green su Rudy Gobert e lo stesso Karl-Anthony Towns. Commenti ai quali è stato riservato ampio spazio dalla tv nazionale proprio perché Draymond era con le chiappe a casa e gli altri due a giocarsi l’accesso alle NBA Finals, in quel momento. Ma bisogna trovare un modo di generare appeal attorno agli small market.
E questo è solo uno dei tanti casi eclatanti della scarsa simpatia anche da parte di molti giocatori per questo tipo di copertura, tra i quali rientra anche la recente faida fra LeBron James e Stephen A. Smith.
4. minimo sforzo
Questo atteggiamento, lo sfottò e la sparata, è indubbiamente divertente se posta con i tempi comici giusti, ma è ormai divenuto il solo e unico modo di fare dibattito anche fra i grandi media. E lo fanno pure male, copiando semplicemente quello che funziona sui social tramite il loro studio. Questo perché, ancora una volta, possono ottenere il massimo risultato col minimo sforzo.
Se, per esempio, si decidesse di riprendere il discorso di Jalen Williams sui liberi del compagno SGA, una delle controargomentazioni sane potrebbe essere: Shai è 2° in NBA per tiri liberi tentati di media a partita, quindi l’informazione sui liberi di squadra è irrilevante e dire che ha 8/9 giocatori davanti è semplicemente falso. Da qui partirebbe il dibattito sulle incursioni a canestro e via dicendo, in varie forme: sul forum di RealGM o su Reddit ci sarebbero scambi più o meno lunghi e più o meno seri, mentre su X arriverebbe una compilation di video/frame sui quali SGA simula il contatto che andrebbe virale tra risate e/o offese dei fan NBA e/o di OKC. E questo va benissimo, è legittimo, si parla di utenti comuni.
In base alle posizioni della maggioranza, però, i grandi media se ne uscirebbero con slogan, frasi fatte e meme che possano essere condivisi e che non sono altro che copia-incolla poco originali di un dibattito già avviato. L’effetto collaterale è che il nocciolo del discorso viene abbandonato, perché trovare informazioni per aumentarne la qualità richiederebbe tempo e impegno – letteralmente 45 secondi, cronometrati durante la ricerca su NBA.com per i tiri liberi – per i quali evidentemente non c’è budget nell’era dove contano solo gli highlights anche della comunicazione professionistica.
Anche perché, e questo va detto e reiterato, la spazzatura piace, ma soprattutto vende. Non importa quanto squallido o subdolo sia il metodo con il quale operano le grandi aziende di comunicazione, gli utenti sono ovviamente gratificati dal poter dare libero sfogo alle proprie idee e vomitare legittimamente cavolate sui social supportati da voci considerate illegittimamente “autorevoli”. La sola, piccola controindicazione è che loro stessi pagano e arricchiscono figure per un servizio che non riceveranno mai, e non se ne rendono neanche conto.