La storia della prima annata in New England del centro e commentatore recentemente scomparso: un manuale di come ci si integri in un gruppo di lavoro, tra feste, matrimoni, medici e canestri.

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Nella storia NBA, è risaputo, sono diversi i giocatori di altissimo livello che, una volta terminato il proprio prime fisico e tecnico, lasciano la squadra che li ha resi grandi per cercare successo altrove, spesso con un ruolo ridimensionato. Le fortune di questi giramondo di fine carriera sono spesso alterne, per ogni Shaquille O’ Neal ai Miami Heat ne esiste anche uno ai Cleveland Cavaliers, per ogni Gary Payton sempre in Florida si ricorda un The Glove ai Los Angeles Lakers. Tutti questi esempi di superstar convertite a lussuosissimi role player, comunque, hanno delle caratteristiche in comune. Tra queste, molto spesso la distanza rispetto ai compagni più giovani, l’impossibilità di comunicare con compagni di second unit di ben altra generazione e talento, il sostanziale apporto nullo in tutto ciò che riguarda l’extracampo, con un’energia ormai centellinata e rivolta unicamente alla vita post-ritiro e alle ultime questioni di parquet. In questo senso, un’eccezione tra le più evidenti è probabilmente quella di Bill Walton ai Boston Celtics. Un’avventura di due anni che un giocatore affermatissimo, simbolo di una generazione e martoriato da pesanti infortuni ha vissuto con la spensieratezza di un ragazzino, diventando il simbolo di un gruppo che poteva contare con quattro All-Star – peraltro nemmeno dagli ego sottodimensionati – e capace di creare ricordi indelebili con giovani promesse che, ancora oggi nel mondo NBA, non mancano di sottolineare la bontà e la genuinità del centro californiano. A pochi giorni dalla scomparsa di Bill, e dall’inizio di quelle Finali che, a detta di molti, sono la più grande chance dei Celtics ad aggiungere il diciottesimo banner dal 2008, ricordare quei 24, folli mesi, appare quantomai doveroso.

Walton before the C’s, da La Mesa a Boston

Benché lo si dica e lo si scriva, soprattutto in questi giorni di triste ricordo, in maniera continuativa e quasi ossessiva, ritengo anche io giusto ricordare, in apertura di queste poche righe, di come Bill Walton non si possa definire come il vostro comune centro di quartiere. Bill, infatti, va compreso in quanto tutt’uno con l’ambiente politico che lo circonda e di cui è parte. Senza voler essere retorici, ma considerando cosa significhi al giorno d’oggi tale espressione, si potrebbe dire che Walton è stato Storia, non in quanto grande protagonista ma come exemplum biografico perfetto per comprendere una determinata fase delle vicende umane sul pianeta.

Prima di approdare ai Celtics negli anni Ottanta, infatti, Bill Walton è stato una stella liceale della zona di San Diego, protetto nel suo talento dal fratello Bruce, futuro offensive lineman dei Dallas Cowboys ed enforcer della squadra. Dopo i successi scolastici, Bill è stato poi un agitatore californiano degli anni Sessanta, vegetariano, convintamente anti-militarista e anti-interventista per quanto concerne il Vietnam, assiduo frequentatore dei sit-in hippie, rivendicati ancora nelle ultime fasi della sua vita con un commosso orgoglio.


“Sono ancora oggi un hippie e ne sono fiero, perché avevamo ragione. Siamo ancora delle stesse idee.”

Proprio le sue idee gli avevano dato diversi problemi durante le visite ai college del deep South o del Midwest, tanto da convincerlo a rimanere nel proprio stato di casa, la California, e a diventare uno degli ultimi grandi prodotti di coach John Wooden a UCLA, ateneo a pochi chilometri da quella Berkeley che, nella stessa estate del 1970 in cui il centro di La Mesa, San Diego, veniva reclutato, era ormai da un paio d’anni in fiamme capaci di coinvolgere entrambi i blocchi divisi dalla cortina di ferro.

Arrivato al campus, Bill aveva voluto poi a tutti i costi incontrare l’altro grande centro uscito dall’unione del rigorismo woodeniano e dalla contestazione studentesca, Lew Alcindor o, come si sarebbe chiamato un paio di mesi dopo il fatidico incontro, Kareem Abdul-Jabbar. I due, pur avendo posizioni politiche quantomai affini, non potrebbero avere background più diversi: cittadino, o meglio newyorchese, militante e rigido Kareem; sguaiato, periferico e decisamente meno incline a fare della lotta politica una questione di vita o di morte Bill, che riceve dal compagno di ruolo sguardi decisamente poco affettuosi.

“Quando era uno studente Bill è venuto a trovarmi. Era hippie dalla testa ai piedi, con quella sua fascetta per capelli e la totale assenza di mutande… bah.”

– Kareem Abdul-Jabbar

Fugaci incontri con stelle del passato a parte, i tre anni di Walton a Los Angeles sono costellati di gioie e letterali dolori: due titoli NCAA con altrettanti MOP delle Final Four (e soltanto perché, al tempo, i freshmen non potevano giocare nella prima squadra, e quindi non gli era stato possibile competere nella stagione 1970/71), ma anche innumerevoli infortuni al ginocchio, figli di un problema che lo aveva visto andare sotto i ferri per la prima volta nel 1967 e che non gli permetteva di giocare se non in seguito a ore di impacchi di ghiaccio prima e dopo la gara. Oltre ai guai fisici, poi, si devono segnalare gli infiniti litigi col pettinatissimo coach Wooden su qualsivoglia argomento, una splendida e conflittuale base per la creazione di un rapporto che li vedrà telefonarsi per due volte alla settimana fino alla scomparsa del coach. Le contraddizioni, tuttavia, riguardano anche la figura pubblica del centro californiano, idolo dei giovani contestatori ma osteggiato dal presidente Nixon, che spera in una depoliticizzazione degli sportivi, possibili role model per quella classe media conformista cui si era richiamato in campagna elettorale. Uno scontro politico che, forse, ha qualche peso nella convinta rinuncia di Walton alle fallimentari e controverse Olimpiadi di Monaco 1972, sebbene Bill si sia sempre rifugiato in un netto rifiuto di tale visione, adducendo ai dolori alle articolazioni come unica motivazione del proprio diniego.

Passato professionista, aveva continuato a unire attivismo e pallacanestro ritrovandosi a Portland, Oregon, città da sempre tra le più liberal degli Stati Uniti, raggiungendo l’apice nel 1977, quando aveva portato i Portland Trail Blazers al primo – e per ora unico – successo NBA. Dopo altri due anni di altissimo livello, con tanto di MVP portato a casa nel 1978, era poi passato alla sua squadra di casa, i San Diego Clippers. Il suo rientro i California, tuttavia, era stato funestato dal ritorno dei sempiterni problemi alle ginocchia e ai piedi. Nella stagione 1979/1980 erano arrivate soltanto 14 presenze, mentre le due successive erano state saltate interamente. Una lenta ripresa aveva permesso di arrivare a 67 allacciate di scarpe soltanto nell’annata 1984/85, la prima dei Clips in quel di Los Angeles, dove erano stati trasferiti per volere del nuovo proprietario Donald Sterling. Per Bill, tuttavia, il vero cruccio era stato quello di non aver potuto dare il massimo nella sua città natale. Come ricorderà a ESPN nel 2016, infatti, i rapporti con la città degli angeli e con The Donald non furono mai idilliaci.

“Quando fallisci a casa tua è il peggio. Io amo la mia città e spero che il basket NBA possa tornarci. Oggi non c’è a causa mia e del fatto che non sono riuscito ad avere successo lì. È il mio più grande fallimento professionale, non ho svolto al meglio il mio lavoro a casa mia, è una macchia indelebile.”

“Gli assegni rimbalzavano più dei palloni quando è arrivato Donald Sterling. Il basket era orribile, il business immorale, disonesto, corrotto e illegale. A parte queste due cose, tutto bene.”

Nonostante le evidenti difficoltà di questa fase di carriera, San Diego aveva donato a Bill l’amatissimo figlio Luke, con cui avrebbe mantenuto un rapporto quasi simbiotico per tutta la vita, come dimostra, su tutti, il divertente aneddoto per cui, durante una serie di Playoffs chiamasse l’erede ad ogni ora del giorno e della notte fingendo di essere Carmelo Anthony in vena di trash talking.

Nel 1985, comunque, la famiglia e lo stesso Walton sono pronti a un nuovo passaggio di carriera. Le opzioni sul tavolo sono due, e vengono dalle due franchigie più vincenti di quella fase storica, entrambe in gran necessità di un lungo con punti nelle mani in grado di far rifiatare le stelle partite in quintetto: sono i Boston Celtics e i Los Angeles Lakers.

The semi-Decision: Boston above all

Per un giocatore col background è l’età di Bill la scelta più ovvia, nemmeno a dirlo, sarebbe stata rimanere ad LA, raggiungendo peraltro la squadra campione NBA, capace pochi mesi prima di battere proprio Boston in Finale. Il general manager losangelino Jerry West, però, è titubante circa le condizioni di salute di Bill e decide di non inviare offerte ai Clippers prima di aver ricevuto un parere positivo dai medici. Walton, conscio dell’impossibilità di tale avallo, riprende i contatti con Red Auerbach, ai tempi plenipotenziario dei C’s.

“L’ho chiamato e Red mi ha detto: ‘Ci penso io’. Ha iniziato a negoziare per tutta l’estate con Donald Sterling per tutta l’estate, e Sterling l’ha tirata per le lunghe, trattandomi come se fossi ancora il miglior giocatore del mondo.”

Le estenuanti conversazioni, tuttavia, giungono verso la fine dell’offseason a un principio di accordo: in cambio di Bill, Boston invierà in California Cedric Maxwell e la prima scelta del 1986 (che si tramuterà in un altro centro niente male come Arvydas Sabonis). Bill, felicissimo della soluzione, si reca allora alla Sterling Plaza, l’enorme palazzo di LA dove avevano sede gli uffici del proprietario, incontrando qui un ultimo, inaspettato, ostacolo.

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“Arrivo da Donald Sterling e lo trovo seduto sul suo trono dietro a una scrivania dorata. Mi guarda con quel sorrisetto rettiliano da uomo  malvagio e mi dice: ‘Walton, se vuoi che questa cosa si faccia, sappi che io ti devo ancora un sacco di stipendi arretrati, devi lasciare qui ogni centesimo’. Avevo già vinto mille arbitrati riguardo a quel denaro, così l’ho guardato, ho preso la penna e ho firmato con tutta la spacconeria del mondo.”

Chiusa anche la spiacevole relazione con il proprietario, Bill parte con convinzione verso il Massachussetts, da dove lo chiama a gran voce anche Larry Bird, tra i principali fautori dell’operazione. Il primo appuntamento da nuovo giocatore dei Celtics, tuttavia, è abbastanza spiacevole. Come ogni giocatore scambiato, infatti, Bill deve passare le visite mediche. Walton si trova quindi sul lettino di un ospedale della città, decisamente preoccupato di dover tornare indietro a litigare con Sterling per i suoi emolumenti, quando vede entrare nella sala d’attesa a fianco un tarchiato signorotto del New England accompagnato dall’immancabile sigaro.

“Red Auerbach è arrivato all’ospedale mentre i dottori mi stavano guardando i raggi X. Avevo lasciato tutto in California ed ero arrivato a Boston senza la più pallida idea di cosa sarebbe successo. I dottori parlottavano e dicevano: ‘Ora cosa diciamo a Red, non possiamo mica far superare le visite a uno con questa situazione. Guarda i piedi, le ginocchia, la schiena. Non possiamo.’

Red entra di fretta in ospedale, fumando il sigaro dentro, e urla ai medici ‘Che state facendo col mio giocatore?’, loro lo chiamano e gli fanno vedere la situazione, al che lui risponde: ‘Silenzio, qui comando io. Walton, sei in grado di giocare?’. Al che io lo guardo con gli occhi tristi di chi vuole soltanto un’ultima chance per essere parte di qualcosa di speciale, di una squadra, e gli rispondo che credevo di potercela fare. Lui allora fa un passo indietro, un tiro di sigaro, pensando, finché butta fuori il fumo, e ti giuro che sembrava verde, con lepricauni e trifogli che uscivano dalla bocca. Mi guarda e dice: ‘Sta bene, visite passate, andiamo che abbiamo una partita’. E poi abbiamo vinto un titolo, sono l’uomo più fortunato del mondo.”

La stagione: scuse e anelli

L’arrivo di Walton a Boston viene salutato con grande affetto da tutti i membri di quel gruppo già così vincente. Bird, forse con una non troppo velata piaggeria, arriva a dire di essere contento di poter giocare con uno dei migliori compagni della sua carriera, mentre Kevin McHale, mai cerchiobottista nelle dichiarazioni, inizia a dare per scontato il raggiungimento dell’obiettivo-titolo. A colpire i nuovi compagni e coach KC Jones, tuttavia, non è l’indiscusso talento di Bill, ma la sua voglia di mettersi a disposizione per qualunque fosse il ruolo che gli si volesse ritagliare. Da subito, infatti, il nuovo centro accetta di buon grado di uscire dalla panchina, legando fraternamente con compagni di second unit, portati a spasso per la città o ad un infinito numero di concerti dei Grateful Dead, ben preferita di Walton e tappa fissa di tutti i giocatori dei Celtics di quegli anni

“Loro suonavano tutti i weekend e noi andavamo sempre. Ci incontravamo a casa di Larry e rendevamo a noleggio delle limousine per portare tutti al concerto. La prima volta andiamo nel backstage e presento tutti, poi saliamo sul palco e ascoltiamo lo show da una suite creata apposta per noi. Alla fine mi hanno chiesto tutti ‘Possiamo tornare?’

Tra i più colpiti c’è sicuramente Rick Carlisle, forse il miglior amico di Walton all’interno dello spogliatoio e altra riserva fondamentale per i Celtics. La sua passione per la band e per il centro è tale da trovare spazio anche nelle basi del proprio matrimonio, come ha ricordato lo stesso coach degli Indiana Pacers in questi giorni di aneddoti così dolorosi e consolanti al medesimo tempo.

“Avevo bisogno di biglietti e gli ho detto: ‘Senti, devo vedermi con questa ragazza che mi piace molto e vorrei andare allo show dei Dead al Capital Centre, ma sono senza biglietti, mi dai una mano?’, lui mi ha risposto subito: ‘Vai sul retro, chiedi di Dennis McNally, digli che sei Rick Carlisle dei Celtics e andrà tutto bene’. Ero scettico e lei mi aveva detto: ‘Ma non hai biglietti?’. (…) Ho bussato ed è andato tutto bene, ma i nostri pass dicevano Bill e Susie Walton.”

– Rick Carlisle

Il gesto, come ovvio,  cementifica il rapporto tra i due, fortissimo anche durante gli attuali Playoffs, tanto che coach Rick ha ammesso di leggere i consigli dell’amico ai propri giocatori prima delle partite importanti di questa run. Un ennesimo esempio dell’impatto emotivo e personale che Bill ebbe in quella squadra così forte.

A mancare all’appello, tuttavia, è ancora il campo, da sempre grande giudice di queste operazioni di ring chasing. I dubbi principali degli analisti, infatti, riguardano il rendimento di Robert Parish, non abituato ad avere un giocatore di tale talento e peso mediatico alle proprie spalle. Bill, tuttavia, cerca di porre rimedio anche alle insicurezze del compagno, chiarendo fin da subito la sua totale fiducia nei mezzi del centro biancoverde.

“Il carattere di Bill in quella stagione mi ha impressionato. Mi stima al punto da aver voluto sincerarsi che mi sentissi a mio agio con la sua presenza. Per questo motivo ho un rispetto infinito per Bill e ho deciso di farmi introdurre da lui nella Hall of Fame.”

– Robert Parish

“Bill è arrivato da noi senza nessun tipo di richieste. Poteva giocare venticinque minuti e dire a fine partita ‘Questa è la più grande vittoria della mia carriera.’, oppure giocarne due e dire lo stesso.”

– Kevin McHale

La prima gara stagionale, tuttavia, non rispecchia l’ottimo ambiente creatosi dal training camp. Walton gioca una partita sottotono, mettendo a referto più palle perse che punti in 19 minuti di utilizzo. Nello spogliatoio, dopo il match, sente il bisogno di prendere la parola e scusarsi con i compagni. A metà del suo discorso, però, una voce si leva dal fondo della stanza, precisamente da sotto all’armadietto griffato con il numero 33.

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“Diavolo, spero proprio che tu inizi a giocare meglio come dici, perché non ho nessuna voglia di sentire altre ottantun volte questa lagna.”

-Larry Bird

La caustica ironia di Bird toglie molte delle pressioni autoimposte da Walton che, grazie anche al nuovo ruolo, riesce a giocare per la prima volta 80 partite in stagione regolare. La svolta tecnica per i Celtics arriva qualche mese dopo, in una sfida proprio contro i super-rivali dei Los Angeles Lakers giocata il 22 gennaio del 1986.

A fronteggiarsi con Bill in quella partita c’è un altro allievo di coach Wooden, anch’egli a fine carriera. Si tratta di un newyorchese, rigido, con poca simpatia per il vestire di Bill e che lo aveva trattato con evidente sufficienza nel loro incontro di oltre un decennio prima: Kareem Abdul-Jabbar. I due si trovano per la prima volta in campo contemporaneamente alla fine del primo quarto, e Walton, nonostante il proprio limitato utilizzo, oblitera il proprio alter ego fin dal primo possesso.

“Bill è entrato nel primo tempo e ha dominato la partita. Ha stoppato Kareem e gli ha schiacciato in testa, finendo con sette stoppate in sedici minuti.”

– Larry Bird

La gara, vinta 110-95, si trova nel bel mezzo di una streak di 13 vittorie consecutive. Alla fine, Boston chiuderà la stagione con 67 vittorie e 15 sconfitte, quasi tutte in partite inutili lontano dal Garden, dove il record segnerò 40-1, con l’unica sconfitta rimediata a dicembre proprio contro i Portland Trail Blazers, la squadra che aveva reso grande Bill. Walton, in questo ambiente di enorme successo, si era ritagliato un ruolo di primissimo piano, chiudendo la regular season con le medie di 7.6 punti e 6.8 rimbalzi, abbastanza, in un basket di punteggi bassi come quello dell’epoca, per portare a casa il premio di Sesto Uomo dell’Anno. La ricezione del premio è un altro momento classico della carriera di Bill, che dimostra anche in questa occasione il proprio attaccamento ai compagni e alla franchigia capace di dargli un’ultima opportunità

“Non posso descrivere la gioia e l’orgoglio che provo nel ricevere questo premio. Grazie Boston, sei meravigliosa.”

Il contributo nei primi tre turni di Playoffs si alza sensibilmente e permette a Boston di vincere agilmente contro Chicago (il cui numero 23 era travestito da Dio, se ricordate), Atlanta e Milwaukee. L’ultimo atto, tuttavia, vede i Celtics di fronte a una delle grandi favorite per la vittoria finale, gli Houston Rockets, capaci anche loro di creare una personalissima versione delle Twin Towers mettendo insieme i due lunghi dell’università locale, Hakeem Olajuwon e Ralph Sampson. Proprio quest’ultimo sarà, durante Gara 5 della serie, giocata sul risultato di 3-1, l’ago della bilancia della contesa. Stremato da quattro gare di assoluto bullismo fisico da parte dei C’s, infatti, Sampson – nonostante il risultato già indirizzato a favore dei suoi – inizia una rissa contro il piccolo Jerry Sichting, da cui lo separano almeno 30 tra centimetri e chili.

Nonostante l’assenza di sanzioni disciplinari, il gesto è vittima delle ironie bostoniane con Bird che arriva a dire, con un tatto decisamente più dell’epoca che attuale, che Ralph è riuscito a fare “una cosa di cui sarebbe capace anche la mia fidanzata”. La vittoria in Gara 6, quindi, appare facile, con Walton che chiude la sua stagione con una gara da 10 punti e 8 rimbalzi. Giocherà ancora un anno, martoriato, questa volta sì, da nuovi infortuni, perdendo le successive Finali contro i Lakers. La sua prima stagione, tuttavia, è un manuale di come si debba comportare un veterano catapultato in un nuovo ambiente, e, a pochi giorni dalla sua scomparsa e dall’inizio di una serie finale che vede i suoi Celtics come netti favoriti, era impossibile non ricordarlo.