Ripercorriamo le tappe che hanno visto nascere la favola moderna di Spike Lee, tra difficoltà nella scelta del protagonista Jesus Shuttlesworth e dubbi sulle fonti d’ispirazione della vicenda.

“Best basketball movie ever made”.
L’umiltà non è mai stato un tratto distintivo di Spike Lee, ma questa volta, forse, non è andato troppo lontano dalla verità. Questo timidissimo commento al proprio lavoro arriva la sera del 14 gennaio 2014, quando il regista newyorkese è seduto a bordo campo del Barclays Center di Brooklyn per godersi un match tra i Nets e i Miami Heat. È una serata speciale, in cui la Lega concede ai giocatori delle due squadre di scegliere un soprannome da apporre alle maglie, al posto del regolare cognome. Tra i più fantasiosi – Cole Train per Norris Cole, B-Easy per Michael Beasley, Tokomotiv per Shengeila – e gli scontati – King James per LeBron, Truth per Pierce, Big Ticket per Garnett -, sulle spalle di Ray Allen campeggia J. Shuttlesworth, in onore del ruolo da lui interpretato nel film di Spike, He Got Game.
I due si abbracciano, scambiano qualche battuta in ricordo di quei mesi dell’estate 1997 in cui hanno lavorato a un film epocale, per quanto non abbia avuto un travolgente successo di pubblico – tanto da non riuscire a rientrare delle spese di produzione. Sicuramente si tratta di una pellicola con tanti limiti, tra cui forse l’eccessiva lunghezza, l’uso di alcuni meccanismi narrativi triti e ritriti e qualche imprecisione.
Tutto verissimo. Ma per chi ama davvero la pallacanestro, è difficile non amare He Got Game.
“Vivo nella speranza che un giorno Spike riesca a trascendere la sua rabbia, il suo egotismo, le sue paranoie e realizzi un film organico”.
David Edelstein, critico cinematografico
In realtà, sono proprio la rabbia e le paranoie del giovane Spike, cresciuto nella difficile Brooklyn degli anni 60/70, che lo hanno reso il regista di successo che è diventato, dando prova lungo tutta la sua carriera di poter affrontare diversi registri, diverse tematiche, sempre con un tocco personale; che può piacere o meno, ma del quale non si può negare l’originalità e la spinta innovativa.
He Got Game è un film pieno, chiassoso, estremamente anni ’90, che rappresenta un perfetto spaccato dell’era in cui è uscito. Oltre ad essere la definitiva testimonianza dell’amore del regista verso la pallacanestro. Un amore puro che è costretto a scontrarsi con la cinica realtà del business, anche nelle vicende del film.
Qualche anno prima, nel meraviglioso documentario Hoop Dreams, in cui il regista Steve James segue le vicende di due adolescenti che inseguono il sogno di una carriera nel basket, Spike compare a un camp organizzato da Nike, dove parla ai ragazzi in modo molto diretto:
“Dovete capire che a nessuno importa davvero di voi. Siete giovani maschi neri, per la società americana dovreste essere spacciatori, delinquenti. La sola ragione per cui siete qui è che potete far vincere le loro squadre. E dalle vittorie arrivano i soldi, che sono l’unica cosa che contano”.
La polemica sullo sfruttamento degli atleti afroamericani nella società è solo uno dei temi del film, che tratta anche di famiglia, di perdono, di fede, il tutto parallelamente al sogno di Jesus Shuttlesworth di farcela attraverso la pallacanestro.
Spike decide di imbarcarsi nella realizzazione del film dopo una conversazione con sua moglie. Non viene da un momento fortunatissimo: dopo un folgorante inizio di carriera, con grandi successi di pubblico e critica, gli ultimi lavori (Crooklyn, Clockers, Girl 6) sono stati dei discreti flop al botteghino. Una sera, la signora Tonya lo sfida: è dai tempi di Jungle Fever che suo marito non scrive una sceneggiatura originale da solo, è tempo di riprovarci. Viene da sé che per imbarcarsi in un progetto così personale il basket, sua atavica passione, sia un tema perfetto. La vicenda alla quale Lee arriva è piuttosto semplice.
Jesus Shuttlesworth, di Coney Island, è il giocatore liceale più forte degli Stati Uniti: tutti ne parlano, tutti i college lo vogliono e gli agenti lo inseguono per trascinarlo direttamente in NBA, bypassando l’università. Tutti attorno a lui – compresi parenti, amici e fidanzata – gli fanno pressioni per una scelta o per l’altra, il professionismo o il college, e se college dev’essere, quale.
Tra loro, anche il padre Jake – che sta scontando una pena per l’omicidio involontario della madre, avvenuto durante un litigio domestico – lo avvicina grazie a un permesso speciale della prigione. L’obiettivo: convincere il figlio a scegliere un determinato ateneo, guarda caso l’alma mater del Governatore dello stato, che in caso di dichiarazione d’impegno di Jesus potrebbe concedere la grazia a Jake. Il film si sviluppa tra i dubbi di Jesus e il tentativo di Jake, nelle poche ore di libertà concessegli, di ristabilire col giovane figlio un rapporto compromesso dalla tragedia familiare avvenuta.
Se alle parole “Coney Island” e “liceale più forte degli Stati Uniti” vi è venuto in mente un giocatore preciso, non siete i soli.
“Mi sembra piuttosto evidente a chi Spike si sia ispirato per la storia del film…”
Stephon Marbury non ha mai nascosto un po’ di fastidio per il fatto che Lee non abbia mai riconosciuto un legame tra la sua storia personale e la trama del film.
“So che Stephon pensa ancora che sia la sua storia, ma non lo è. Un sacco di grandi giocatori sono usciti da Coney Island, ma a prescindere dal luogo è una vicenda universale, simile a quella di moltissimi ragazzi”.
Anni dopo, un certo Maurice Ballard ha rivendicato la stessa paternità delle vicende del film, dichiarando che la sua vita era stata la principale fonte d’ispirazione per Spike. Ballard è arrivato a sostenere di essere stato approcciato da Earl Smith, un collaboratore di Lee, che gli avrebbe promesso un pagamento e un degno riconoscimento, aggiungendo di aver visitato il set del film regolarmente e che “tutta la troupe sapeva benissimo che la storia del film era ispirata a me”.
Smith e Lee hanno sempre negato un accordo del genere, adducendo di non avere la minima idea di chi fosse questa persona. Ballard, figlio di un noto criminale, morto in carcere nel 2009, ha annunciato che sarebbe ancora disposto a far causa alla 40 Acres and a Mule, casa di produzione di Spike, qualora trovasse un avvocato disposto a prendere in mano il suo caso. Ad oggi, questo non è mai avvenuto.
Ispirata da Marbury, Ballard o chiunque altro, la sceneggiatura è pronta e ora si tratta solo di trovare il giusto cast per rappresentarla. Una cosa è certa: per il ruolo di Jesus Shuttlesworth, Spike non vuole un attore, ma un giocatore di basket che sia in grado di recitare.
“Per scegliere i candidati ai provini per Jesus, ho setacciato i roster di tutte le squadre NBA, cercando qualcuno che potesse sembrare ancora un liceale: se c’è una cosa che non mi è mai piaciuta di molti film sullo sport è vedere attori professionisti interpretare atleti”.
Con il basket, più che altri sport, è davvero difficile far credere a un pubblico che sei un giocatore se non ha mai realmente giocato: è più semplice assumere un acting coach per un giocatore che un allenatore per un attore.
Nel caso di Denzel Washington, il primo a leggere il copione, si ha una win-win situation: oltre che essere uno degli attori più apprezzati di Hollywood, è stato un discreto giocatore in gioventù, allenato nientemeno che da PJ Carlesimo presso l’università di Fordham, verso la fine degli anni ’70.
La ricerca del giusto Jesus è sicuramente più complicata.
La lista di giocatori contattati da Spike per fare i provini è lunghissima, perché oltre al ruolo di protagonista sono necessari moltissimi ruoli secondari, tra compagni di squadra e avversari di Shuttlesworth. Tra loro, vengono scelti Walter McCarty, Travis Best, John Wallace e Rick Fox, nell’epico ruolo di Cicerone durante una peccaminosa visita di reclutamento di Jesus a un college.
“Era la mia stagione da rookie, ai Knicks. Ogni volta che passavo davanti a Spike gli ripetevo scherzando – Fammi fare un film! – Non pensavo che un giorno l’avrei fatto davvero. Ok, non sono il protagonista, ma far parte comunque del progetto è stato fantastico”.
Walter McCarty
La costante presenza di Spike a bordo campo durante le partite dei Knicks l’ha reso popolare agli occhi della maggior parte degli addetti ai lavori, quindi anche per i piccoli cameo il regista è ben coperto: tra Shaq, Pippen, Jordan, Rick Pitino e Dick Vitale tutti sono lieti di dedicare un minuto del loro tempo al progetto, interpretando se stessi, parlando brevemente del sicuro avvenire di Jesus Shuttlesworth.
A MJ, con cui Spike ha condiviso pubblicità entrate nella leggenda, è concesso l’onore di declamare le parole che daranno il titolo alla pellicola.
I finalisti per la parte di Jesus sono un discreto nugolo di talenti: Marbury, Garnett, McGrady, Kobe Bryant, Ray Allen, Iverson.
TMac, allora 18enne, il più giovane giocatore della NBA, è il primo ad essere escluso dopo i provini, ritenuto troppo timido e schivo, non pronto per fare da protagonista in un film così importante.
Marbury e Garnett, poco più che ventenni, sembrerebbero perfetti per la parte: sono entrambi espansivi, hanno vissuto sulla propria pelle l’esperienza di dover scegliere tra college e professionismo e sono abituati ad essere sotto costante attenzione mediatica fin dai tempi del liceo. Condividono lo stesso agente, Eric Fleisher, che pare abbia preteso da Spike Lee la garanzia che entrambi ottenessero una parte importante, prima ancora di vederli all’opera in un provino.
“Andiamo! Non sono un GM, questa non è l’NBA, è un film. Non posso garantire a nessuno un contratto al buio…”
Spike, ovviamente, non accetta queste condizioni. Lasciando deluso soprattutto Starbury.
“Non mi sembrava necessario fare il provino per un film che parlava di me…”
Escluso anche The Answer, dopo un provino molto deludente dove è apparso svogliato e con la testa altrove, restano Ray e Kobe.I due vengono approcciati direttamente sul campo da Spike durante due trasferte dei Bucks e dei Lakers rispettivamente al Madison Square Garden.
L’approccio con Ray avviene al suono della sirena di una gara del 4 marzo 1997. Spike si avvicina all’allora rookie – scambiato la sera del Draft proprio con Marbury…
“Voglio girare un film quest’estate. Mi piacerebbe farti fare un provino”.
Poco più di un mese dopo, quando i Bucks sono ufficialmente fuori dai Playoffs, Ray chiama Spike e si mostra disponibile.
“Mi disse – Voglio che provi per il ruolo di protagonista, se non dovessi essere adatto potrebbe esserci comunque un’altra parte nel film – Gli dissi che mi sarebbe piaciuto molto provare e accettai”.
Al primo incontro, Ray ha subito un test importante: deve provare una scena intima con l’attrice Salli Richardson, che a sua volta prova per la parte della fidanzata di Jesus, Lala Bonilla, ruolo che verrà affidato in seguito a una giovanissima Rosario Dawson.
“Ho cercato di essere il più credibile possibile, ma non ero sicuro di essere all’altezza. Poi però mi hanno chiamato una seconda e una terza volta, finché ho provato le battute con Denzel Washington. All’inizio, ovviamente, ero in soggezione: Denzel è una leggenda. Poi però abbiamo cominciato a provare e piano piano si è creata una bella chimica tra noi”.
Sembra fatta. Nel giugno del ’97 Associated Press rilascia la notizia secondo cui Spike Lee avrebbe scelto Ray Allen come protagonista del suo prossimo film, le cui riprese sarebbero iniziate di lì a poco. Ma qualche giorno dopo un articolo di Variety sembra sostenere un’altra teoria.
“Kobe Bryant potrebbe provare con la recitazione. Spike Lee lo tiene sott’occhio per essere il coprotagonista al fianco di Denzel Washington per la sua nuova pellicola, He Got Game”.
Il Mamba sembra davvero essere il favorito nella corsa al ruolo.Prima dei Playoffs ’97…È la sua stagione da rookie, i Lakers sono al secondo turno contro gli Utah Jazz di Stockton e Malone. In gara 5, con i mormoni in vantaggio 3 a 1, Kobe fornisce una pessima prestazione: tra ultimo quarto e tempo supplementare, lascia andare quattro airball consecutivi, che lo segnano indelebilmente.
I giallo-viola perdono partita e serie e Bryant, furioso con se stesso, decide di autoescludersi dal film per lavorare maggiormente sul suo gioco.
“Mi avrebbe tolto troppo tempo, io volevo continuare a giocare, allenarmi, non riuscivo a pensare all’idea di stare lontano dai campi per così tanto tempo. Sentivo molta pressione su di me, per il fatto che venissi direttamente dal liceo, avevo bisogno di tutte le risorse di energia possibili per prepararmi al meglio per la stagione successiva”.
La parte, dunque, è ufficialmente di Ray Allen, che può iniziare la preparazione vera e propria: otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana per otto settimane consecutive al fianco di Susan Batson, fedele collaboratrice di Spike Lee, un’acting coach che nel processo diventa quasi una terapeuta.
“La pressione da gestire era davvero molta, Spike ha scommesso su di me e di fatto il film ruota tutto attorno al personaggio di Jesus: se non fossi andato bene, anche il film sarebbe crollato di conseguenza”.
Le riprese, effettuate tra luglio e settembre 1997, scorrono lisce come l’olio e un anno dopo il film viene presentato in anteprima al Festival di Venezia del 1998.
He Got Game è una favola moderna che, nonostante siano passati più di vent’anni dalla sua uscita nelle sale, mantiene ancora la sua carica emotiva e la pregnanza sociale.
La sapienza di Spike è stata quella di mantenere un equilibrio perfetto tra momenti lirici altissimi – come la meravigliosa sequenza iniziale o quella finale – parti di duro realismo – come gli scontri tra padre e figlio, verbali e sul campo – e momenti più leggeri, in cui si lascia andare a una satira del mondo dello sport professionistico americano.
I dubbi e i tormenti del giovane Jesus sono ancora all’ordine del giorno nella realtà d’oltreoceano, e potrebbero tornare nuovamente d’attualità se l’NBA, come sembra, dovesse annullare la one-and-done rule, abbassando nuovamente il limite di età per dichiararsi eleggibili al Draft.
Che piaccia oppure no, He Got Game è indubbiamente un degno tributo al lato romantico della pallacanestro, quello fatto di poesia in movimento, di gesti puri, di atletismo palpitante, oltre a fornire una rappresentazione esagerata ma onesta del suo lato “industriale”, dell’oscuro che gli ruota attorno, dei soldi e degl’interessi che ne corrompono l’innocenza.