Robert Pelinka, 54 anni, avvocato di Chicago, è uno degli uomini più influenti del mondo NBA; prima storico agente di Kobe Bryant, poi General Manager e Vice-President of Basketball Operations dei Los Angeles Lakers. Da dirigente dei gialloviola, nel corso degli anni, si è sempre dimostrato una figura controversa, in uno stato di equilibrio sottilissimo, oscillando costantemente tra fallimento e successo.

Quando tutto ebbe inizio

8 marzo 2017. I Los Angeles Lakers, guidati da 4 anni da Jeanie Buss e in piena crisi di risultati (mancano l’appuntamento con la post-season dalla stagione 2012-13) comunicano le firme di Robert Pelinka, in qualità di GM, e di Magic Johnson come Vicepresidente delle Operazioni di Basket. I due sostituiscono i licenziati Mitch Kupchak e Jim Buss, completando una vera e propria rivoluzione dirigenziale che punta a far tornare i gialloviola nell’olimpo del basket NBA. Il nuovo board avrà il compito di ricostruire un roster reduce da una stagione da 26 vittorie e 56 sconfitte, con tanti giovani promettenti ma al momento nel bel mezzo di un caos che pare impossibile da risolvere nel breve (“Roma non è stata costruita in un giorno”, dicevano). In 7 stagioni, i Lakers di Pelinka sono passati da vincere l’anello nel 2020 a non partecipare più volte ai playoff. La domanda da porsi è la seguente: come e quanto l’operato del GM ha influito sui risultati della squadra?

Draft: gioventù bruciata

Dal 2017 ad oggi, il rapporto che i Lakers hanno avuto con le scelte al draft è stato piuttosto altalenante e nessuno dei giocatori scelti negli anni è oggi una colonna portante della squadra. I vari giocatori draftati dai gialloviola si possono tranquillamente suddividere in asset per AD, giocatori sviluppati ma non abbastanza e quindi scambiati e dimenticati.


Nella prima categoria rientrano chiaramente Lonzo Ball, Josh Hart, Mo Wagner e Isaac Bonga, oltre a Brandon Ingram, seconda scelta del draft 2016; nella seconda, Kyle Kuzma, passato da pedina importante del titolo 2020 a giocatore non all’altezza per vincere subito e quindi scambiato nella trade per Westbrook, e Talen Horton Tucker, inizialmente sorprendente, rinnovato a cifre folli (preferito a Caruso!) e poi ceduto per disperazione ai Jazz in cambio di Beverley; infine, nel terzo gruppo troviamo Svjatoslav Mychajljuk, Thomas Bryant e Jalen Hood Schifino.

A proposito di quest’ultimo; mentre ai tifosi Lakers sanguinano ancora gli occhi pensando che dopo di lui è stato scelto Jaime Jaquez Jr, pochi giorni fa Pelinka ha deciso di non esercitare la team option presente nel suo contratto, rendendolo Unrestricted Free Agent nel 2025. Una tragedia nella tragedia. Resta invece ancora tutta da valutare la questione relativa a Max Christie, Dalton Knecht e Bronny James; se il primo quest’anno dovrà dimostrare di valere il rinnovo recentemente firmato, gli altri due necessitano del tempo necessario per svilupparsi e dimostrare di essere giocatori da NBA.

Nel corso degli anni, le pick al draft e i giovani scelti dai Lakers di Pelinka sono sempre stati visti, presto o tardi, come trade asset per acquisire una superstar per poter raggiungere il più velocemente possibile l’obiettivo di riportare i gialloviola sul tetto del mondo, senza mai costruire un qualcosa di pensato (Non è un Paese per giovani); se questo ha portato bene per quanto riguarda l’arrivo di AD e l’anello del 2020, lo stesso non si può dire della trade Westbrook e la pessima stagione 2021-22 che ne consegue.

Quantomeno, non tutta la gestione dei giovani si è rivelata fallimentare; nel corso degli anni due giocatori in particolare, Alex Caruso e Austin Reaves, sono riusciti a passare da undrafted a colonne portanti del roster e del quintetto gialloviola; Morandi cantava “Uno su mille ce la fa”, qui addirittura in 2.

Trade: non puoi comprare una casa che non è in vendita

9 febbraio 2024, conferenza stampa post trade deadline. Robert Pelinka si presenta ai microfoni scuro in volto; per più di due mesi ha inseguito invano Dejounte Murray, giocatore che riteneva ideale per far fare ai Lakers lo step necessario per diventare contender e che invece è rimasto ad Atlanta. Per giustificare la scelta di non fare alcuna trade e di restare fermi, pronuncia queste parole: “Non puoi comprare una casa che non è in vendita”.

L’immobilismo dei gialloviola non è qualcosa di nuovo, specialmente nel passato recente: negli ultimi 5 anni sono la franchigia ad aver concluso meno trade (solamente 10) e, tolta quella per Davis che ha portato immediatamente all’anello, nessuna è stata un totale successo per i losangelini.

Ma procediamo con ordine: notte del draft 2017, Pelinka piazza Mozgov e D’Angelo Russell ai Nets in cambio di Brook Lopez e dei diritti su Kyle Kuzma. Lo scambio di per sé non è malvagio, se non fosse che a fine anno, dopo una stagione deludente per i Lakers, il contratto di Lopez non viene rinnovato e il giocatore si accasa a Milwaukee. Ciò che accade è surreale, sia perché Pelinka lo aveva definito “importante” per il futuro gialloviola sia perché Brook ammette che ai Lakers sarebbe rimasto anche con un’offerta economicamente minore rispetto alle altre. Un altro episodio quantomeno grottesco riguarda la gestione di Ivica Zubac; relegato a giocatore non all’altezza e frettolosamente scambiato per Mike Muscala, oggi fa le fortune dei Clippers dei quali è il centro titolare.

Se la trade per Davis è inattaccabile da un punto di vista tecnico, altrettanto non si può dire per il timing: Pelinka lo ha cercato per mesi, senza riuscire a chiudere l’affare alla deadline 2019 (causando il malcontento di Lebron James), sprecando di fatto la stagione 18-19 terminata anch’essa con l’esclusione dai playoff e portando il lungo a L.A. solo nel giugno di quell’anno.

Nell’off-season 2020 Pelinka deve puntellare il roster che ha appena vinto il titolo, situazione opposta rispetto a quella di pochi mesi prima; da Oklahoma arriva Dennis Schroder, in cambio di Danny Green e della pick 28, Jaden McDaniels, evidentemente non reputato all’altezza per i Lakers; mentre Schroder sarà un fiasco che durerà appena una stagione, McDaniels si afferma ai Timberwolves ed è oggi uno dei difensori più forti della Lega (capisci il valore delle cose solo quando le perdi).

Ma il più grande peccato che Robert Pelinka compie da GM dei Lakers, quello le cui conseguenze ancora oggi si ripercuotono sui gialloviola, avviene durante il draft 2021; alla disperata ricerca di una terza stella, dopo aver quasi chiuso per Buddy Hield, scambia tutti gli asset che ha (Harrell, KCP, Kuzma, pick 22 del 2021) in cambio del giocatore meno adatto e congeniale al resto del roster, con un contratto pesantissimo e che naviga verso la fine del suo prime: Russell Westbrook.

L’epilogo di questa triste storia lo conosciamo tutti. Nemmeno la deadline 2023, dove finalmente Pelinka, dopo mesi di trattative infruttuose con i Pacers per Hield e Turner, riesce a impacchettare Mr Triple Double in una trade a 3 per Vanderbilt, DLO e Beasley, può cancellare l’orrore compiuto dal front office dei Lakers, che ha fatto perdere loro tempo, asset e risorse. La deadline 2023 non si chiude così; Mo Bamba arriva da Orlando per Beverley mentre Thomas Bryant viene ceduto a Denver. Il primo si farà male, non verrà quasi mai utilizzato da Ham e verrà tagliato a fine anno, il secondo, seppur giocando pochissimo, vincerà l’anello con i Nuggets. Sono scelte, nel bene e nel male.

Da quando è GM, l’unica trade che può dirsi vinta è quella per AD, mentre praticamente tutte le altre si sono rivelate completamente fallimentari, come quella per Westbrook, irrilevanti (Beverley da Utah) oppure “senza un seguito”, come quella per Brook Lopez, sedotto con uno scambio e abbandonato in free agency. Addirittura, riesce a risultare ancora più fallimentare l’immobilismo verificatosi nell’estate 2023 e alla deadline 2024; anche il non-scegliere si rivela la scelta sbagliata.

Free agency: restare aggressivi

Il motto che contraddistingue Robert Pelinka durante la free agency da qualche anno a questa parte è sempre lo stesso: “restiamo aggressivi”. Parole che il GM ripete continuamente, quando intervistato, prima di ogni sessione estiva di mercato libero e che i tifosi gialloviola non hanno mai compreso fino in fondo.

Eppure, per un momento, la piazza losangelina si era innamorata del suo GM. Durante la free agency 2018, Rob aveva piazzato il colpo con la C maiuscola, assicurandosi il miglior free agent in circolazione: Lebron James. La firma del Prescelto ha inevitabilmente influenzato, sia a livello tecnico che salariale, l’ingaggio di altri giocatori. Già nelle prime due estati “lebroniane”, il diktat del front office è stato molto preciso: data l’impossibilità di muoversi con firme esose (ci fu un tentativo, nel 2019, fallito con Kawhi Leonard), il roster sarebbe stato composto da giocatori al minimo salariale o poco più, già navigati (non scommesse) e possibilmente funzionali.

Questo ha naturalmente dato origine ad una grossa problematica, relativa alla continuità che la squadra, anche a livello di elementi, non ha mai avuto. Sono pochi, infatti, i giocatori che sono riusciti a firmare un rinnovo pluriennale e sono rimasti per tanto tempo nei Lakers (KCP, Caruso, Kuzma e, in tempi più recenti Reaves e Hachimura). Il caso più eclatante è quello verificatosi con lo smantellamento del roster del titolo 2020: pezzi importantissimi sono stati ceduti o lasciati andare (su tutti, McGee, Howard, Rondo, Bradley e Danny Green) e sostituiti malissimo (“squadra che vince non si cambia”, a meno che non ti chiami Robert Pelinka), con giocatori rivelatisi non all’altezza o non congeniali agli schemi di Vogel (si narra che Harrell stia ancora aspettando di entrare dalla panchina).

Due protagonisti di quella stagione, l’assistant coach Phil Handy e proprio Howard, hanno recentemente dichiarato che fu un errore smantellare quel nucleo e ciò ha compromesso una possibile dinastia Lakers. Ma se pensiamo che nell’off-season 2020 il front office gialloviola abbia dato il peggio di sé, evidentemente non ricordiamo il capolavoro dell’anno seguente: dopo la trade per Westbrook, per riempire gli spot vuoti a roster, vengono firmati 8 veterani al minimo salariale (Ariza, Carmelo Anthony, Ellington, Howard, Rondo, Bradley, Deandre Jordan, Bazemore), oltre a Malik Monk da Charlotte. Fatta eccezione per Monk, che disputerà un’ottima stagione per poi firmare un contratto più redditizio con i Kings l’anno dopo (anche qui, inspiegabile il mancato tentativo di rinnovo usando la MLE da 7.2 milioni), nessuno di quegli 8 giocatori sarà all’altezza e, ancora più incredibile, nessuno di essi troverà più spazio in NBA.

Se cercate sul vocabolario il termine ”disasterclass”, insomma, trovate come esempio la free agency 2021 dei Lakers.

Nel 2023, invece, il front office si muove apparentemente bene; confermati DLO, Hachimura, Reaves e Vanderbilt, lasciati andare Schroder, Mo Bamba e Beasley e firmati Reddish, Prince, Hayes, Vincent e la ciliegina sulla torta Wood. Purtroppo, questo buon lavoro si rivelerà solo apparente: il roster non si dimostrerà mai competitivo, e nonostante la prospettiva di un’altra stagione fallimentare, Pelinka non farà nulla per aggiustare le cose in corsa e rimarrà ingabbiato l’anno seguente a causa dei contratti pluriennali offerti, senza poter firmare giocatori e senza poter fare trade nonostante le 3 (2 + Knecht) scelte al primo giro a disposizione.

Anche sotto questo aspetto, difficile dare una valutazione positiva al GM. Esclusa la firma di Lebron, ha quasi sempre reso più ricchi i giocatori e meno competitiva la squadra.

Coaching staff: coloro che pagano il conto più salato

Quando Pelinka assunse il ruolo di GM dei Lakers, sulla panchina gialloviola sedeva Luke Walton, ex assistente di Steve Kerr a Golden State. Se nelle prime due stagioni (16-17 e 17-18) il lavoro del coach non è mai stato messo in discussione, con l’arrivo di Lebron la pressione è aumentata sensibilmente e la non partecipazione ai playoff 18-19, anche a causa dell’infortunio del Prescelto, non ha lasciato scampo a Walton, licenziato.

Dopo l’accordo saltato clamorosamente con Tyronn Lue, che tra l’altro affermerà in seguito che “I Lakers mi vedevano come l’allenatore di Lebron, mentre io volevo vincere”, il front office vira su Frank Vogel, ex coach dei Pacers, assistito da Jason Kidd. Nonostante lo scetticismo iniziale, in Regular Season i gialloviola terminano al primo posto con un record di 52-19 e ai vincono il titolo nella Bolla di Orlando (16 vittorie e 5 sconfitte ai playoff). La stagione seguente, anche a causa degli infortuni di Lebron e AD, termina al primo turno e per la prima volta vengono mosse critiche al sistema offensivo dei Lakers, ma Vogel è saldo come non mai.

La trade per Westbrook, sempre lei, sarà ciò che farà terminare il rapporto tra il coach e la franchigia; il feeling tra i due è pessimo sin dal training camp e Mr Triple Double fatica ad integrarsi negli schemi, venendo addirittura relegato in panchina in tanti finali di gara. A fine stagione, con il mancato accesso ai playoff e un record di 34-49, Vogel viene licenziato in mondovisione dopo l’ultima gara di RS vinta contro i Nuggets; nonostante Pelinka si assuma ai microfoni le responsabilità per la pessima annata, il rapporto tra il coach e il GM sarà irrimediabilmente compromesso e ancora oggi pessimo.

Per la scelta del nuovo tecnico, i Lakers cercano qualcuno che possa valorizzare Westbrook al fianco di Davis e Lebron; scartati Snyder e Rivers e data l’impossibilità di liberare Nick Nurse dai Raptors, il cerchio di stringe a Darvin Ham, assistente dei Bucks, Kenny Atkinson, assistente dei Warriors e all’ex allenatore di Portland Terry Stotts. La scelta finale ricadrà sul primo, il quale, nonostante tutto l’impegno, non sarà in grado di rendere funzionali i Big Three e per questo costringerà il front office a muoversi alla deadline. Il finale di quella stagione sarà tutto sommato positivo, con un record positivo (43-39) e le finali di conference raggiunte contro ogni aspettativa, eliminando Warriors e Grizzlies.

Tutto quello di buono visto nella prima stagione non viene confermato nella seguente; dopo la vittoria della NBA Cup, i Lakers precipitano in un vortice di caos che si riversa anche in campo, con i quintetti che cambiano continuamente e lo spogliatoio, in particolare DLO e Reaves, che fatica a seguire l’allenatore. Il dissenso della squadra è evidente (spesso, nel post gara, i giocatori rispondono “It’s on coach” riguardo ai dubbi della stampa sull’idea di gioco dei gialloviola). L’annata termina comunque con un buon record (47-35), ma ancora i Nuggets, stavolta al primo turno, castigano i Lakers (4-1) e segnano la fine dell’avventura di coach Ham, licenziato.

Per sostituirlo, come sappiamo, i Lakers ripiegano e scelgono JJ Redick, alla prima esperienza assoluta da allenatore con un quadriennale. La scelta chiaramente fa storcere il naso a molti, poiché è noto che JJ sia molto amico di Lebron e i maligni già lo etichettano come uomo di James.

Anche su questo fronte, ad ogni modo, Pelinka si è rivelato un gran tagliatore di teste (4 allenatori in 7 stagioni), mai in grado di chiudere il coach “preferito” ma sempre ripiegando su una seconda scelta. A onor del vero, le responsabilità sulla pessima gestione della situazione allenatori in casa gialloviola vanno equamente condivise con il resto del board e del front office, colpevole quanto il GM. Con Redick, la squadra è partita un po’ zoppicante (5-4 di record), con nuove idee di gioco ma un roster tremendamente inadeguato per competere.

La mia opinione finale su Pelinka da GM dei Lakers, basandomi sui fatti a disposizione, è evidentemente negativa. In tanti anni, il GM ha sì vinto un titolo e riportato i Lakers sul tetto del mondo, ma ha anche commesso innumerevoli errori che hanno compromesso un futuro ancora più vincente della franchigia. Il rapporto poi con colleghi (Magic Johnson) e allenatori è sempre stato molto complicato e per questo, nonostante sarebbe ingiusto attribuire a lui tutte le responsabilità, è bene che decida di farsi da parte per permettere ai Lakers di iniziare un nuovo corso vincente.