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Questo contenuto è tratto da un articolo di Adam Spinella per The Basketball Writers, tradotto in italiano da Erika Annarumma per Around the Game.


 

Per otto stagioni di fila, dal 2011 al 2018, LeBron James ha portato la sua squadra alle NBA Finals. Il regno del terrore nella Eastern Conference iniziò nella stagione 2010/11, quando LeBron prese la discussa decisione di lasciare Cleveland e firmare con Miami, per poi ritornare ai Cavs dopo quattro anni e due titoli vinti. Il periodo a Cleveland, segnato da quattro scontri consecutivi in finale con i Golden State Warriors, si concluse quando LeBron partì verso l’Ovest per andare nella sua attuale squadra, i Lakers.


Credo che tendiamo a dimenticarci quanto gli Heat fossero dominanti e innovativi in quegli anni. Il fatto che Bosh giocasse come centro e LeBron come ala grande aiutò la squadra e la lega nella transizione verso un gioco small ball e verso il diffuso impiego di “stretch-big”. Pat Riley, formando la squadra dei “Big Three”, portò nuovamente le franchigie a volere nei propri roster dei terzetti di superstar come quello di coach Spoelstra.

Ma cosa dire delle squadre della Eastern Conference che caddero nel dimenticatoio per il passaggio degli Heat? Se non fosse esistita una dinastia-LeBron, alcune di queste sarebbero ora negli annali con apparizioni alle Finals (almeno). Invece, sono come note a piè di pagina in una Conference che viene definita costantemente non all’altezza rispetto alle squadre di King James.

Ad essere dimenticati sono soprattutto i team dei primi anni del decennio, sconfitti dalla superiorità degli Heat. Alcune di quelle squadre rivali sono andate vicine a battere Miami, altre – nonostante altissime aspettative – decisamente meno.

In questo articolo parleremo di quei Chicago Bulls allenati da Tom Thibodeau. Ai seguenti link, invece, gli altri episodi della collana “Oscurati dagli Heatles”:

La formazione

Conosciamo tutti la storia. Una superstar in rampa di lancio vince il titolo di MVP all’età di 22 anni, il giocatore più giovane di sempre a riuscirci. Nelle tre stagioni successive, però, gioca solo 49 partite, subendo gravi infortuni al ginocchio. E così il suo promettente futuro in NBA sembra svanire nel nulla.

La storia è quella di Derrick Rose, l’erede al trono di Micheal Jordan a Chicago. D-Rose aiutò i Bulls a raggiungere livelli che sognavano dalla loro ultima vittoria alle Finals nel 1998. Ma facciamo un passo indietro.

Nel 2010, dopo due stagioni concluse entrambe con 41 vittorie e 41 sconfitte e due apparizioni deludenti ai Playoffs sotto la guida di Vinny Del Negro, ci fu un cambio di allenatore per i Bulls. Il General Manager Gar Forman fece subentrare Tom Thibodeau, il celebre assistant coach dei Boston Celtics, noto per la sua capacità di dare alla squadra una forte identità e solidità difensiva. I dividendi vennero pagati immediatamente: Thibodeau, un Rose da MVP e un grande team difensivo si aggiudicarono il miglior record della lega, 62-20, e la prima testa di serie nella Eastern Conference, nonostante il neo-assemblato trio di superstar a Miami.

Per i Bulls, la migliore occasione per qualificarsi alle Finals arrivò durante la stagione da MVP di Rose, prima che il suo ginocchio cedesse e che le speranze di titolo si frantumassero. La squadra del 2010/11, come anche le seguenti che lottarono per altre quattro apparizioni ai Playoffs e due Eastern Conference Semifinals con Thibodeau alla guida, rimane uno dei più grandi “what if” della storia recente dell’NBA.

Ad affiancare Rose in campo c’era un supporting cast di altissimo livello.

Joakim Noah, un difensore sottovalutato nel contesto storico, era un centro versatile e molto mobile, che sapeva difendere in modo efficace contro attaccanti diversi. Vicino a lui c’era Carlos Boozer, che sapeva segnare dentro e fuori dal pitturato, e garantiva una buona protezione dell’area. Luol Deng, poi, è un altro dei difensori più sottovalutati della sua era, che in quel periodo era nel suo periodo migliore come scorer secondario.

Il resto della rosa era ricca di role player di qualità. Kyle Korver sapeva aprire le difese una tripla dopo l’altra, mentre Keith Bogans e Ronnie Brewer erano due affidabili ali difensive. Taj Gibson dava energia sotto i tabelloni e garantiva il suo contributo in entrambe le metà campo in uscita dalla panchina, mentre Omer Asik e Kurt Thomas erano i punti di riferimento difensivi della second unit. Era davvero un gruppo di ragazzi duri e instancabili lavoratori. Giocare contro di loro era fastidioso per chiunque.

Rose dimostrò tutto il suo talento nel primo turno del 2011 contro dei “rognosi” Pacers, ottava testa di serie della Conference. Trascinò i Bulls a due vittorie nelle prime due partite in casa, segnando 39 e 36 punti. Prestazioni da MVP, solamente alla sua terza stagione da professionista, che spinsero le aspettative su quei Bulls molto in alto.

Rose in Gara 1 fu semplicemente infermabile. Aiutò a completare una rimonta sui Pacers nell’ultimo quarto, con un parziale di 12-1 negli ultimi 2 minuti e 30:

I Pacers difendevano molto bene e in quella serie dimostrarono di essere un’avversaria pericolosa, ma Chicago era troppo profonda, solida e talentuosa per loro. I Bulls chiusero la serie allo United Center in Gara 5.

Ad aspettarli al turno successivo c’erano gli Atlanta Hawks di Joe Johnson, Al Horford, Josh Smith e Marvin Williams, guidati da Larry Drew, al suo primo anno da head coach. E anche se gli Hawks non sono mai riusciti ad avere successo in post-season con questo core, anche loro erano un’avversaria da rispettare. Arrivavano dalla demolizione degli Orlando Magic di Dwight Howard, che erano arrivati alle Eastern Conference Finals nelle due stagioni precedenti.

Quegli Hawks riuscirono a spaventare i Bulls, battendoli in Gara 1 in casa loro, in una partita in cui Chicago è stata a lungo in vantaggio, prima di subire un parziale devastante nell’ultimo quarto. Sull’1-1, la serie si spostò ad Atlanta. E arrivò la risposta di Rose, che realizzò 44 punti (con una caviglia in condizioni precarie) in Gara 3, suo career-high, portando i Bulls avanti nella serie; in Gara 4 arrivarono 34 punti, poi altri 33 due sere dopo.

Un D-Rose immarcabile, la solita difesa granitica e una maggiore profondità (23-2 nell’ultima gara in uscita dalla panchina) permisero a Chicago di chiudere la serie alla sesta partita e raggiungere le alle Eastern Conference Finals. Era arrivato il momento della tanto attesa resa dei conti.

L’apice

Da una parte c’erano i Bulls, prima testa di serie, che nel loro organico avevano il Coach of the Year e l’MVP della stagione, ed erano senza dubbio una delle migliori difese dell’NBA. Dall’altra parte c’erano LeBron James, Dwyane Wade, Chris Bosh e i Miami Heat, che finalmente assomigliavano a un gruppo coeso.

I Bulls si aggiudicarono Gara 1, dominando la partita. Rose sembrava un rebus senza soluzione per Cleveland.

Gara 2, però, non andò come i Bulls speravano, soprattutto nell’ultimo quarto, in cui segnarono solo 10 punti. La serie si spostò sull’1-1 a Miami, con la squadra di Thibodeau che denunciava molti problemi offensivi a metà campo. In Florida, sia in Gara 3 che in Gara 4 i Bulls segnarono meno di 85 punti nei tempi regolamentari.

Sotto solo di due all’inizio dell’ultimo quarto, Chicago crollò e perse di 11 Gara 3. La partita successiva fu invece un testa a testa combattutto per 48 minuti, e si decise nei supplementari. A 30 secondi dalla fine, Rose si trovò nelle mani il potenziale game-winner, ma il suo step-back jumper si fermò sul ferro. Nell’overtime, gli Heat risposero alla grande, mentre l’attacco di Thibs – tra cui anche Rose – faceva una fatica infernale a mandare punti a referto: 16-8 il parziale, e ancora una volta i Bulls uscivano dal campo frustrati per una sconfitta maturata nel finale di partita. L’opportunità di raggiungere le Finals stava scivolando via.

In Gara 5 ci fu un altro ultimo quarto in cui i Bulls sperperarono il vantaggio guadagnato in precedenza. Erano 76-64 con 3:12 minuti da giocare, il loro game-plan difensivo stava funzionando bene, ma tutto si guastò nei minuti finali. Gli Heat alla fine vinsero 83-80, dopo aver infilato un parziale di 19-4 che valse loro il pass per le NBA Finals. In quell’incredibile parziale, James e Wade segnarono insieme 17 punti e tre triple.

E così, la stagione dei sogni della Windy City si concluse. Ma nell’aria c’era ancora grande ottimismo. I Bulls ruotavano attorno a una stella molto giovane, che aveva fatto la sua prima post-season da protagonista (e sotto pressione): quell’anno sarebbe dovuto essere uno step di crescita, in attesa della prossima chance, cui arrivare più preparati.

Le cose, però, andarono diversamente.

Il crollo

La maggior parte delle contender hanno un lento, graduale declino negli anni dopo le loro annate migliori. Capita spesso che i proprietari insistano (testardamente) per continuare a cavalcare il gruppo che ha avuto successo, fino a che non smette di essere competitivo e viene scavalcato da altri team in ascesa.

In qualche modo, i Bulls fecero qualcosa di simile, rimanendo con Deng e Noah per molto tempo. Ogni tifoso di Chicago, però, ricorda il momento esatto in cui le speranze dei Bulls di tornare a vincere un titolo sono andate in frantumi.

Nel primo turno dei Playoffs 2012, quando mancavano due minuti alla fine di Gara 1 e i Bulls erano avanti di 12 punti, Rose si ruppe il legamento crociato anteriore. Un momento drammatico. E imprevedibile… fino a un certo punto, ma non del tutto. L’era di Thibodeau a Chicago, infatti, fu caratterizzata da un utilizzo spropositato dei migliori giocatori in squadra.

Dopo l’eliminazione dai Sixers, i Bulls vinsero 45 partite nella stagione successiva senza Rose, con Luol Deng che giocava una media di 38.7 minuti a partita, il più alto minutaggio della lega quell’anno. Nella stagione successiva, passò il testimone a Jimmy Butler, che registrò il record di minuti totali giocati.

I Bulls si scontrarono nuovamente con gli Heat nel 2013 nelle le Conference Semifinals. Come nel 2011, i Bulls conquistarono Gara 1 (questa volta in trasferta), grazie a un Nate Robinson da 27 punti. Butler giocò tutti e 48 i minuti e la difesa di Chicago riuscì a tenere gli Heat sotto il 40% dal campo.

Dopo la vittoria dell’anno prima, però, la dinastia degli Heat regnava a tutti gli effetti sull’NBA. Chicago, invece, non era una squadra alla loro altezza senza Rose, nonostante la grande stagione di Noah e la crescita di Butler. Miami vinse quattro partite di fila e volò alle Conference Finals senza troppi problemi.

La legacy

L’ascesa e la caduta di Derrick Rose sono i momenti decisivi di questa era, ma nella lega due principi del loro successo sono rimasti (nel bene e nel male) anche a distanza di anni.

Il primo è la difesa Ice di Thibs, il modo con cui i Bulls difendevano i pick&roll laterali. L’obiettivo era forzare tiri contestati da due punti e forzare l’attacco verso la linea di fond: principi che sono stati utilizzati da molti allenatori dopo di lui, ma Thibodeau fu il primo a ricorrere a questo sistema con continuità.

In questo video di Coach Nick (BBALL BREAKDOWN) lo si può vedere spiegato in maniera competente:

Il secondo “marchio di fabbrica” dell’era-Thibodeau a Chicago è stato il categorico rifiuto dell’allenatore di modificare le sue rotazioni e far riposare i suoi giocatori. I suoi starter giocavano quasi 40 minuti a partita, cosa che oggi è molto difficile vedere in NBA, quantomeno fino alle partite decisive nei Playoffs.

Thibodeau si è costruito una (cattiva) fama per come ha gestito, a Chicago e non solo, le rotazioni e il carico fisico dei suoi ragazzi. Incolpare Thibs per l’infortunio di Rose sarebbe sbagliato, anche perché lo stile di gioco della point guard lo esponeva indubbiamente a infortuni traumatici di questo tipo; si può dire, però, che in condizioni di perenne sovraccarico qualsiasi giocatore diventa più vulnerabile.

Quello che attirava molte critiche era la sua ostinazione a non togliere i titolari nei minuti finali delle partite, anche quando la sua squadra aveva un vantaggio apparentemente rassicurante. Una questione di… “paranoia”. Dopo una partita contro gli Hawks nel febbraio 2012, Thibs disse:

“Devi giocare duro anche quando sei in vantaggio. Specialmente con i tiri da tre. Uno come Jannero Pargo, se lo lasci giocare, in un minuto è capace di mettere tre triple. In un minuto puoi vanificare un vantaggio di 10 punti. È assurdo. Ho visto McGrady segnare 13 punti in 35 secondi: è impossibile togliersi dalla testa una cosa del genere. Non puoi mai rilassarti in NBA.”

Nonostante questo, Thibodeau e quei Bulls meritano credito per quello che riuscirono a costruire in campo e nell’organizzazione, anche se non raggiunsero il grande obiettivo. Era una squadra che avrebbe potuto fare paura agli Heatles per molto più tempo di quanto effettivamente non sia accaduto.

Gli altri episodi della collana “Oscurati dagli Heatles”: