Stanno giocando duro per JB… se un gruppo gioca così, solitamente vuol dire che il coach è stato in grado di lasciare un segno nei giocatori e creare un rapporto.”

FOTO: NBA.com

Questo contenuto è tratto da un articolo di Branson Wright per The Undefeated, tradotto in italiano da Alberto Pucci per Around the Game.



Il muro dello spogliatoio dei Cleveland Cavaliers presenta cinque parole-chiave che per coach JB Bickerstaff sono più di uno slogan: Details, Toughness, Together, Compete, One More.

L’allenatore le spiega così:

“È quello per cui viviamo ogni giorno. Si tratta di una combinazione di caratteristiche che riteniamo importanti nella costruzione di una squadra. Ma anche di parole che definiscono la nostra città e la vita al suo interno. Vogliamo guadagnarci il rispetto dei tifosi di Cleveland.”

Slogan o meno, ci sono anche questi cinqui concetti nelle ragioni che hanno portato i Cavaliers ad un record di 19-12 e, momentaneamente, nelle alte sfere della Eastern Conference. I Cavs sembrano essere oggi una squadra d’élite dal punto di vista difensivo e divertente da quello offensivo, con tanti contropiedi e un ottimo movimento di palla.

All’inizio di questa stagione, il gruppo di JB ha vinto cinque partite in fila, con uno scarto medio di 16.8 punti. Scioccante, se si pensa che, nelle tre stagioni che sono seguite all’addio di LeBron James, la franchigia del Lago Erie aveva portato a casa 60W in totale. Ancora più sorprendente, poi, se si pensa a tutti i dubbi che si avevano in offseason sulle aggiunte di Cleveland, tanto al Draft quanto nella Free Agency.

Ad essere messo sotto la lente di ingrandimento era stato anche lo stesso Bickerstaff, un uomo dalla storia decisamente particolare. Figlio di coach Bernie Bickerstaff – capo allenatore e assistente di lunghissimo corso che ha chiuso la propria carriera proprio a Cleveland – John-Blair (JB) si è visto spesso sorpassare da altri candidati durante la propria ricerca di un posto da head coach in NBA. Una situazione che, molto spesso, lo ha portato ad accettare ruoli ad interim in attesa della scelta dell’allenatore definitivo da parte de front office di turno

Oggi, tuttavia, JB si sta facendo decisamente notare, come rilevato anche da Steve Kerr, allenatore dei Warriors:

Stanno giocando duro per JB, e questo è sempre un vero indicatore del lavoro dell’allenatore. Se un gruppo gioca così, solitamente vuol dire che il coach è stato in grado di lasciare un segno nei giocatori e creare un rapporto.”

Anche il fresco campione NBA, Mike Budenholzer, sembra concordare su questa visione:

“Sono una buona squadra. Bickerstaff sta facendo un gran lavoro nell’allenarli.”

Papà Bernie ha incominciato la propria carriera da allenatore nel 1985 a Seattle, dove allenerà un altro futuro head coach dalla storia molto simile a quella del figlio: Nate McMillan.

Nella Emerald City, JB e suo fratello maggiore Bernard sono da subito coinvolti nella gestione della squadra, venendo spesso chiamati a fare i “raccattapalle” durante allenamenti e partite. JB ha ancora oggi ricordi vividi di quei momenti d’infanzia in cui prendeva i rimbalzi di importanti giocatori NBA:

“Per me e mio fratello l’arena era come una seconda casa.”

I Bickerstaff, che passano i loro pomeriggi a fare piccole commissioni per i giocatori del padre, si trovano così da subito inseriti negli ingranaggi della Lega. Una fortuna non indifferente, come ricorda lo stesso allenatore dei Cavs.

“Sono stato fortunato, non ho dovuto cercare all’esterno dei modelli educativi. Mio padre era un allenatore e mia madre un’insegnante. Ammiravo solo loro due crescendo, e ho da sempre avuto l’idea di diventare un professionista e poi un allenatore NBA.”

Un sogno nato forse nel 1987, anno in cui i Sonics di papà Bernie arrivano alle Finali della Western Conference, in seguito perse contro i Lakers dello Showtime. Uno sweep che ha ferito e motivato il piccolo figlio del coach.

“Era troppo per me. Quella squadra era la mia famiglia, e già allora ero consapevole di cosa avrebbe voluto dire arrivare alle Finals per la carriera di papà. Quella sconfitta è stata veramente pesante.”

Bernie, tuttavia, forse grazie all’età, riesce a ricordare quell’esperienza sotto una luce leggermente più positiva:

“Io ricordo solamente di essere stato contento di vedere mio figlio così coinvolto. È vero, ha sofferto per la squadra, ma ha anche imparato il valore della lealtà verso i compagni e colleghi di lavoro.”

Terminato il proprio percorso scolastico, JB ha giocato a livello collegiale per Oregon State e Minnesota. Gli infortuni gli hanno impedito di perseguire il proprio sogno di una carriera da professionista, permettendogli però di partire subito con quella da allenatore.

Dopo tre anni da assistente di Bernie ai Bobcats, Bickerstaff è passato per quattro stagioni ai Minnesota Timberwolves. Nel 2011, infine, si è accordato con gli Houston Rockets, di cui è diventato interim head coach nel 2015, dopo la separazione da Kevin McHale.

Alla fine della stagione, tuttavia, JB – non confermato dalla franchigia del Texas – si è accordato per un posto da associate head coach con i Memphis Grizzlies. Nel 2017, in seguito al licenziamento dell’allora capo allenatore David Fizdale, Bickerstaff è diventato ancora una volta allenatore ad interim.

A differenza di quanto accaduto a Houston, il front office ei Grizzlies ha deciso, nell’autunno 2018, di rendere l’accordo permanente. Dopo nemmeno un anno, però, anche a Bickerstaff è stata recapitata una lettera di licenziamento. Da lì, il suo passaggio ai Cavs; prima come assistente di John Beilein, poi, dopo gli attriti tra l’ex allenatore collegiale e la squadra nel febbraio 2020, come head coach.  

Una storia travagliata, allungata dalla perseveranza del proprio protagonista. Una caratteristica di cui papà Bernie è più che fiero.

“Ha avuto dei momenti difficili, ma li ha affrontati con grande professionalità. Quando le cose diventano complesse, lui continua sempre a lottare.”

La risolutezza di JB, oggi, si riflette nella sua squadra.

In un’epoca di small ball e tiro da tre punti, Bickerstaff si presenta con un quintetto titolare formato da tre giocatori di oltre 2.10m, come Lauri Markkanen, Evan Mobley e Jarrett Allen. Un azzardo che tuttavia sembra pagare, soprattutto in difesa, visti i punti concessi ed il Defensive Rating dei Cavs, tra i dati migliori nella Lega.

“Quando giocatori di quella stazza riescono a giocare insieme, diventa difficile per gli avversari. Evan e Jarrett sono ottimi rim protector, il che rende difficile segnare. In attacco, poi, non siamo troppo schiacciati dentro l’area, viste le doti di tutti e tre. Abbiamo trovato un vantaggio nel giocare al contrario rispetto alla tendenza generale.”

Allen – fresco di estensione contrattuale – è al momento un giocatore da oltre 17 punti e 11 rimbalzi. Mobley, rookie scelto con la terza chiamata assoluta, è un difensore pauroso sui cambi e si colloca tra i migliori stoppatori della Lega. Markkanen, arrivato tra i mormorii generali da Chicago, ha trovato nel nuovo ruolo di ala piccola una dimensione che sembra calzargli: non avrà la velocità di altri pari-ruolo, ma la sua stazza mette in difficoltà ogni difesa.

A questi Big Three – nel vero senso del termine – si aggiungono giocatori rivitalizzati come Isaac Okoro e Ricky Rubio. Il primo ha saputo adattarsi bene al nuovo ruolo di titolare, dovuto all’infortunio di Collin Sexton. Il secondo, invece, guida con lucidità la panchina e ha assunto il ruolo di mentore di Darius Garland, che oggi è la vera stella della squadra.

FOTO: NBA.com

Bickerstaff, che negli anni ’80 ha visto diverse lineup di questo genere al seguito di papà Bernie, non apprezza il titolo di “innovatore”:

“I Celtics o i Lakers di quegli anni avevano giocatori molto alti, eppure riuscivano a funzionare grazie al proprio talento. Non sto paragonando i miei a quelle due squadre, ma ho giocatori molto talentuosi. A parità di capacità, un’altezza maggiore è sempre un vantaggio.”

Tra le note liete di inizio anno c’è anche Kevin Love, rinato nel suo nuovo ruolo di scorer della second unit. Amico di JB dai tempi comuni in Minnesota, Love è oggi una delle voci più ascoltate nello spogliatoio. Anche lui apprezza le parole che il coach ha voluto scrivere nello spogliatoio.

“Noi viviamo per quelle parole. Le diciamo sempre nei momenti di difficoltà. La mia preferita è ‘Details’, perché le squadre giovani devono focalizzarsi sulle piccole cose per vincere. Quelle cinque parole ci rappresentano.”