Con il rischio del licenziamento sempre dietro l’angolo, essere un coach NBA non è mai stato così difficile.

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Questo contenuto è tratto da un articolo di William C. Rhoden per Andscape, tradotto in italiano da Marta Policastro per Around the Game.



I Boston Celtics approdano in Finale di Eastern Conference, mentre i Philadelphia 76ers ritornano a casa, di nuovo.

Per coach Joe Mazzulla, al primo anno sulla panchina di Boston, la netta vittoria (112-88) ottenuta contro Embiid e compagni significa poter continuare il percorso in post-season, fin qui piuttosto altalenante. Per Doc Rivers, invece, la sconfitta significa un altro bivio nella sua carriera.

Si era detto, soprattutto dopo la sconfitta casalinga dei 76ers in Gara 6 di semifinale di Conference, che Gara 7 sarebbe stata decisiva perché Rivers potesse mantenere il proprio posto sulla panchina di Philadelphia. Così è stato.

Allo stesso tempo, in NBA è già iniziato il valzer delle panchine: i due coach delle Finali 2021, Mike Budenholzer e Monty Williams, sono stati entrambi esonerati nel giro di pochi giorni.

A 61 anni e con un curriculum come il suo, Doc Rivers non sembra essere particolarmente intimorito dal destino che potrebbe attenderlo. Quando, dopo la sconfitta di Gara 7, gli è stato chiesto se si aspettasse di tornare sulla panchina dei 76ers per la stagione successiva, la risposta non è stata per nulla originale, ancora ignaro di quello che sarebbe successo:

“Sì, ho ancora due anni di contratto”.

La realtà dei fatti è che essere capo allenatore in NBA è diventato un percorso a ostacoli:

“È sempre più complicato; siamo continuamente sotto i riflettori e veniamo costantemente giudicati”, ha spiegato dopo Gara 5. 

La pazienza può essere una virtù, ma non in NBA:

“Viviamo in un momento in cui purtroppo nessuno ha più voglia di aspettare: tutti esigono subito il risultato e quando non arriva si domandano subito chi licenziare e a chi dare la colpa, invece di provare a migliorare e a crescere”.

Ho passato due giorni in compagnia di Rivers durante la serie tra Philadelphia e Boston: volevo osservare da vicino come lavora un allenatore che è riuscito ad avere successo in una professione tradizionalmente ostile agli afroamericani. Diversamente da molti suoi colleghi, Doc Rivers ha avuto diverse opportunità come coach: con Boston, con i Clippers e con i Sixers; se quest’ultima esperienza dovesse concludersi, ci sarà probabilmente un’altra squadra pronta a ingaggiarlo. Il suo percorso dovrebbe essere preso come esempio dai suoi giovani colleghi, come Mazzulla (34 anni) e Darvin Ham (49 anni, alla prima esperienza come head coach.

Un concetto importante della filosofia di Rivers è che la delusione è parte integrante dell’esperienza come allenatore; il modo in cui un coach la affronta determinerà sia il suo successo, sia la sua longevità nella professione.

“Per essere un buon coach è necessario credere nella vittoria, sapendo che, in caso di sconfitta, la delusione sarà cocente. Ogni stagione si prova a vincere, ma è molto difficile riuscire a ottenere il risultato sperato.  Quando un giorno mi accorgerò di non voler più provare queste emozioni, vorrà dire che dovrò smettere”.

Ho parlato con Rivers dopo la vittoria di Philadelphia in Gara 5. Nel viaggio di ritorno dal Massachusetts, ho ascoltato alla radio una trasmissione di un’emittente di Boston, nella quale Mazzulla veniva criticato senza pietà per il timeout non chiamato sul finire di Gara 4, per non aver messo in campo una squadra pronta a giocare in Gara 5 e per non essere stato all’altezza dal punto di vista tattico. Un ex giocatore, diventato commentatore televisivo, ha affermato che i Celtics avessero escluso Mazzulla, non ritenendolo in grado di gestire la situazione da solo.

Durante la trasmissione si diceva anche che i Celtics avrebbero fatto meglio a tenere Ime Udoka, sospeso dal ruolo di head coach e poi sostituito per aver violato la policy di squadra a causa di una relazione consensuale con una dipendente.

Per Doc Rivers, questi commenti non sono nulla di nuovo: “Ci sono passato, capita a tutti i coach”, ha spiegato.

Rivers ha poi parlato dei primi anni sulla panchina di Boston, quando si occupava con Danny Ainge della costruzione del roster:

“A Boston abbiamo costruito una squadra e vinto il titolo, ma durante il rebuilding ci sono stati momenti in cui ci volevano licenziare. Spesso vengono ingiustamente attribuite colpe a chi fa il nostro lavoro”.

Rivers ha cominciato la propria carriera a 39 anni, tre anni dopo essersi ritirato come giocatore. Oggi, è il decano dei coach afroamericani in NBA e si confronta regolarmente con i colleghi più giovani. Non ha ancora avuto modo di parlare con Mazzulla, ma immagina la difficoltà del ruolo che il giovane coach ricopre, essendo passato da un giorno all’altro da assistente a allenatore capo dei Celtics.

La settimana scorsa, Mazzulla è stato criticato pesantemente; dopo la vittoria in Gara 7, sarà festeggiato. Il ciclo si ripeterà contro i Miami Heat, in semifinale di Conference. Il problema di Mazzulla è che i Celtics la scorsa stagione sono riusciti ad arrivare in finale, perciò, perché la stagione possa ritenersi un successo, deve portare la squadra almeno a quel risultato,

“È una situazione complicatissima, nella quale probabilmente nessun coach si è mai trovato”, ha spiegato l’allenatore dei Sixers.

Il primo incarico di Rivers è stato a Orlando, in una stagione di rebuilding nella quale sono stati scambiati ben 21 giocatori; anche a Boston, la squadra era in ricostruzione.

“Ci vuole molto coraggio ad accettare un posto come allenatore per una squadra che l’anno precedente ha raggiunto le Finals. Se i Celtics vinceranno sarà stata una buona idea, ma anche se non dovesse succedere,  Joe sta facendo un ottimo lavoro e questo è tutto ciò che conta; non importa se le persone la pensano diversamente”.

Rivers non è un allenatore come tutti gli altri: ha ottenuto il suo primo incarico come head coach senza avere alcuna esperienza come allenatore in NBA e si è sempre definito un “reluctant coach” (“coach riluttante”).

Nel 1998, accettò l’invito di Chuck Daly, all’epoca coach dei Magic, a partecipare con lui a un clinic. Lo stesso Daly, pensando che Rivers fosse nato per essere un allenatore, lo suggerì alla dirigenza come proprio successore.

Nel 1999, alla prima stagione sulla panchina dei Magic, Rivers vinse il premio di Coach of the Year, sfiorando la qualificazione ai Playoffs con una squadra che a inizio stagione sembrava destinata alla lottery. Nelle tre stagione successive, il coach avrebbe sempre raggiunto i Playoffs, ma nonostante questo sarebbe stato esonerato nella stagione 2003/04 dopo sole undici partite.

“Pensavo di aver fatto un buon lavoro a Orlando; non mi aspettavo che mi mandassero via”, ha ammesso.

L’esonero era dovuto alla conclusione della stagione precedente, quando si era fatto rimontare un vantaggio di 3-1 dai Pistons al primo round. Da quell’esperienza, Rivers ha imparato l’importanza di correggersi e di migliorarsi costantemente:

“Bisogna avere fiducia in ciò che si fa, anche se in quel momento non sta funzionando e si viene criticati”.

Anche Wayne Embry, il primo general manager e presidente afroamericano di una squadra NBA, gli fornì un utile consiglio, quando a Rivers fu proposta la scelta tra diventare commentatore in televisione o vice di Popovich a San Antonio. Embry gli suggerì di scegliere la televisione; non voleva che venisse visto solo come un assistente di colore e desiderava che avesse un palcoscenico per mostrare a tutti la sua conoscenza del gioco.

Un’altra particolarità di Rivers è il fatto che non è mai rimasto a lungo senza squadra: dopo nove anni a Boston, nel 2013 passò ai Clippers, che tentavano disperatamente di diventare una contender e che in quella stagione avrebbero vinto 57 partite. Dopo lo scandalo legato alle dichiarazioni razziste del proprietario dei Clippers, Donald Sterling, Rivers dichiarò che si sarebbe dimesso se il proprietario non avesse venduto la franchigia. Dopo la sospensione, Sterling vendette la squadra e Rivers ne guadagnò in reputazione.

Nel 2015 e nel 2020, i Clippers mandarono in fumo un vantaggio di 3-1 ai Playoffs; oggi, Rivers è l’unico coach nella storia dell’NBA ad avere subito una simile rimonta con tre squadre diverse.

A settembre 2020, un mese dopo aver lasciato Los Angeles, Rivers è stato assunto dai 76ers, desiderosi di tornare tra le big della lega; il coach è riuscito nell’intento, ma è anche stato vittima del proprio successo. È molto bravo a lavorare con squadre disfunzionali e a far sì che i giocatori condividano una visione comune, ma questa sua abilità è anche un’arma a doppio taglio:

“Anche se la tua squadra supera le aspettative, se non vinci ti diranno sempre che non hai fatto abbastanza”.

Ci sono altri insegnamenti che i giovani coach possono trarre dall’esperienza di Rivers, come quello che riguarda l’opinione degli altri:

“In passato mi dava fastidio non piacere a tutti, ma ormai ho capito che è impossibile e mi sono abituato”

O l’attribuzione di responsabilità:

“Danno sempre la colpa a noi… ma aumentando le partite giocate, insieme alle vittorie aumentano anche le sconfitte”

E la conoscenza:

“È importante saper applicare la conoscenza che si possiede; questo processo richiede tempo quindi il nostro lavoro prevede una crescita continua”.

Probabilmente, il segreto di Rivers sta nel riuscire a far condividere una visione alla squadra:

“Non importa quanto la tua squadra sia forte, ma quanto i giocatori vogliano vincere, senza gelosie e lotte interne. Quando si vince, tutta la squadra ne trae beneficio.”

In una serata in cui la sua squadra è stata spazzata via da dei Celtics guidati da un coach alla prima esperienza nella lega, Rivers ha dovuto fare i conti un altro amaro finale di stagione. Nonostante l’esperienza, non si è ancora abituato:

“Quando si vuole così tanto vincere e si è a un passo dal riuscirci ma poi si perde, il dolore è tremendo. Questa sera non riuscirò a pensare ad altro”, ha detto giusto un paio di giorni prima di quello che si rivelerà, poi, l’ennesimo esonero.