Se il lockout non fosse mai avvenuto, che weekend delle stelle sarebbe stato?

Questo contenuto è tratto da un articolo di Justin Tinsley per Andscape, tradotto in italiano da Marco Cavalletti per Around the Game.


La prestazione di Vince Carter all’All-Star Weekend del 2000 a Oakland, California, rimarrà per sempre impressa a fuoco nella storia della Lega – e nei nostri cuori – grazie alla sua iconica performance allo Slam Dunk Contest.


Eppure, quella ad Oakland sarebbe dovuta essere la seconda apparizione del giovane “Air Canada” al weekend delle stelle. Infatti, l’All-Star Game del 1999, in programma a Philadelphia (la notte di San Valentino, peraltro) fu solo la più illustre fra le vittime di un lockout che menomò l’intera stagione 1998/99. “Era lì che doveva essere? A Philadelphia?”, dirà più avanti Vince Carter. Lo shock nella sua voce risultava evidente. “Wow”, ha detto. “Non ne avevo idea.”

Ma cosa sarebbe stato, se la NBA non fosse stata costretta a cancellare l’All-Star Game 1999? Cosa sarebbe stato, in una NBA tutta nuova, orfana di Michael Jordan? Come sarebbe stato quell’All-Star Weekend? Beh, è il vostro giorno fortunato. State per scoprirlo.

Ma prima, un po’ di contesto.

È difficile biasimare Carter per non essersi ricordato dove sarebbe stato l’All-Star Game. Nel libro della storia NBA, quello della stagione 1998/99 è un capitolo dimenticato, o quantomeno ben poco consultato. Il primo luglio, infatti, i proprietari delle squadre indissero il lockout, e la stagione NBA fu ridotta a 50 partite. Non ci fu “nessuna trade, nessun contratto firmato, nessuna summer league approvata dalla NBA, né alcun contatto fra i giocatori e i rappresentanti delle squadre.” E non ci fu nessun All-Star Game.

Poco dopo il Draft 1998 – nel quale figurarono futuri Hall of Famer, quali Carter, Nowitzki e Pierce – il tavolo delle negoziazioni saltò, di fronte alla problematica ormai non più ignorabile della gestione dei profitti in vista delle stagioni successive. La discussione fra i proprietari si concentrò – fra le altre cose – sulla questione salary cap, e molti additarono come colpevole il contratto da $126 milioni di Kevin Garnett, stipulato nel 1997.

“Quel contratto… cambiò tutto”, dichiarò l’ex deputy commissioner della NBA, Russ Granik, dopo il lockout. “Per i proprietari fu la goccia che fece traboccare il vaso: bisognava fare qualcosa.” I giocatori, fra le altre cose, parlavano degli introiti montanti della lega, grazie principalmente ai contratti televisivi, e dei salari da rookie.

In maniera ingiusta, molta della colpa per il lockout fu rovesciata dal pubblico sulle spalle dei giocatori. Anche se, ad essere onesti, alcuni di loro non si misero sotto una luce particolarmente favorevole da un punto di vista delle pubbliche relazioni.

Tentando di organizzare una partita di beneficenza ad Atlantic City, New Jersey, per raccogliere fondi per UNICEF (e per i giocatori stessi), l’allora presidente dell’associazione dei giocatori, Patrick Ewing, disse che gli atleti professionisti “guadagnano molto, ma spendono anche molto.” La partita finì per fare tutto meno che riconquistare il favore dei tifosi.

Kenny Anderson, dei Boston Celtics, disse scherzando che avrebbe venduto una delle sue otto macchine. E Grant Hill subì un (temporaneo) duro colpo alla reputazione quando, agli occhi di molti, non assunse un ruolo primario durante il lockout – e la sua apparizione in uno spot della Sprite con Tim Duncan infastidì diversi giocatori.

A metà ottobre, la Preseason e le prime due settimane di Regular Season erano state cancellate. “Se l’NBA non ritornerà entro Natale”, dichiarò Neil Hernberg, l’allora sports marketing manager del gigante dell’abbigliamento sportivo Pro Player, “rischiamo una perdita del 75% da tutti i nostri affari con la Lega.”

Ma gli effetti del lockout alleggerirono le tasche anche di altri business partner. “Il mercato è debole”, raccontò Steve Raab, vicepresidente del marketing di Starter. “I rivenditori stanno riducendo e cancellando gli ordini.”

Gli emittenti furono costretti a rivedere i loro palinsesti, e poco prima di Natale l’NBA annunciò che per la prima volta nella sua storia – e ancora ad oggi per l’unica volta dal 1951 – la Lega avrebbe cancellato l’appuntamento annuale di metà stagione. Secondo le stime, la città ospitante, Philadelphia, perse intorno ai 40 milioni di dollari.

Il lockout non mi ostacolò perché non c’era niente in cui potesse ostacolarmi”, ha invece raccontato Vince Carter. “Tornai alla University of North Carolina. Passai un semestre lì, ed ebbi la possibilità di lavorare con coach Dean Smith e la sua squadra mentre aspettavo la fine del lockout.”

I giocatori approvarono un nuovo accordo alle sei del mattino del 6 gennaio 1999, e il Board of Governors decise all’unanimità di ratificare il compromesso. L’accordo venne generalmente visto come una vittoria per i proprietari, ma i giocatori riuscirono ad ottenere salari più consistenti tanto per i giocatori secondari quanto per le superstar.

“I giocatori hanno ceduto?”, domandò retoricamente l’allora direttore esecutivo della Players Association, Billy Hunter. “Credo che abbiamo ceduto entrambi.”

In tutto questo, Michael Jordan si era ritirato per la seconda volta. L’annuncio non fu un grande shock, ma il suo impatto fu comunque enorme e multidimensionale. I network televisivi, che per anni avevano lucrato sul magnetismo di Jordan, si ritrovavano a fronteggiare una nuova quanto incerta realtà. “Una partnership di otto anni con la NBA è una cosa unica, e siamo stati davvero fortunati”, disse il presidente di NBC Sports, Dick Ebersol. “Ora dobbiamo reintrodurre questa nuova generazione di stelle… ci cadrà dal cielo il prossimo Babe Ruth domani? No.”

È il giorno di San Valentino a Philadelphia. Nella vita reale, la stagione 1998/99 ha appena una settimana di vita. Le squadre e i giocatori stanno lavorando per tornare alla forma migliore.

Invece dello sfarzo di un All-Star Game, i 76ers ospitano gli Atlanta Hawks. Allen Iverson fa il solito Allen Iverson – 32 punti, 6 rimbalzi, 4 assist, 6 palle rubate e 2 stoppate – e spinge Philly alla vittoria che vale per il record di 4-1. È l’unica nota lieta in una partita che vede prevalere Philadelphia per 78-70. Sciaguratamente, la notizia più grande a diffondersi in città quel fine settimana è quella dell’incendio della United Methodist Church di St. Barnabas, a South Philly. E la notizia sportiva più grande? Wrestlemania XV pronta ad invadere la città a marzo, avente come evento principale un match per il titolo senza squalifica fra Stone Cold Steve Austin e The Rock.

Ma immaginiamoci una storia alternativa. L’intera città di Philadelphia è in fermento per l’arrivo delle stelle di Hollywood, dei più grandi nomi dell’industria musicale e delle più grandi leggende NBA – tanto del passato quanto del presente. Il nativo di West Philadelphia, Will Smith, appena reduce da “Gettin’ Jiggy Wit It” e “Enemy of the State”, è una delle più grandi star sul Pianeta, ed è seduto in prima fila. Accanto a lui, Lauryn Hill, una fra i più grandi artisti musicali del globo.

E Allen Iverson? È appena alla sua terza stagione ed è già uno dei realizzatori più letali della Lega. Ma è molto di più. AI raggiunge e rappresenta una generazione che si nutre di controcultura e vive a ritmo di hip-hop. Se per alcuni le treccine e i tatuaggi di Iverson sono il simbolo della decadenza dei valori della pallacanestro, per la generazione più giovane sono un simbolo di ribellione, swagger e perseveranza.

Non è giusto, ma è così”, disse Iverson a Chris Rock. “La gente vede come mi vesto, le persone di cui mi circondo, i miei gioielli, e provano a farmi apparire come uno di 34 anni, quando invece ne ho solo 24.” La gente detestava Allen Iverson, e la gente amava Allen Iverson. Sono quella dicotomia e quella polarizzazione a renderlo l’ovvia scelta per il titolo di sindaco ad onore dell’All-Star Weekend del 1999, la gemma che ci fu negata.

A bordo campo per la partita ci sono eroi cittadini quali Mike Schmidt e Moses Malone. Ma c’è anche spazio per le star del momento: Denzel Washington, Mariah Carey, Aaliyah, Spike Lee, Snoop Dogg, Jim Carrey, Djimon Hounsou e Kate Winslet, ma anche Bill Russell seduto accanto a Wilt Chamberlain, il cui rapporto con la città di Philadelphia è tanto meraviglioso quanto tragico. L’incontro fra i due giganti del Gioco all’All-Star Game del 1999 sarebbe stato uno degli ultimi, prima della morte di Chamberlain otto mesi più tardi.

Muhammad Ali e il cittadino di Philadelphia Joe Frazier, nel momento più toccante di questo weekend immaginario, pongono fine pubblicamente ad una tremenda faida durata quasi 30 anni. Nella vita reale, le due icone del pugilato misero al tappeto il loro conflitto all’All-Star Game del 2002, a Philadelphia.

I posti d’onore, infine, sono riservati a Julius Erving e a Michael Jordan, la cui presenza è inevitabile, visto che la maggior parte dei fan non è ancora scesa a patti con la realtà del suo secondo ritiro.

Le celebrità sono una parte necessaria di ogni All-Star Weekend. Così come i grandi performer. Ma le celebrità e i performer più luminosi sono quelli votati dai fan nei quintetti titolari della partita.

Nel 1999 le squadre rappresentavano le due Conference, con i titolari che venivano selezionati tramite i voti dei tifosi. Ebbene, ecco a voi gli All-Star NBA 1999 (tutti attuali o futuri Hall of Famer), pronti a fronteggiarsi per la partita che ci è stata negata.

Eastern Conference

G – Allen Iverson, Philadelphia 76ers

In un certo senso, l’uomo del weekend. E l’uomo che vedrete ad ogni festa in città. Iverson stappa bottiglie, sfoggia gioielli abbastanza brillanti da illuminare qualsiasi nightclub e se la spassa con DMX, Jay-Z e Cash Money. “Ma quando dorme?”, vi chiederete. È l’All-Star Weekend! Non si dorme! Siamo a Philly, e lui è Allen Ezail Iverson; e farà saltare tutta la città.

Iverson catturerà poi il premio di MVP dell’All-Star Game a Washington, DC, nel 2001, in una sorta di ritorno a casa, viste le radici del giocatore a Georgetown. Ma di certo, il leader della Lega per punti a partita e minuti giocati nel 1998/99 avrebbe dato spettacolo anche di fronte al suo pubblico, a quei tifosi che lo trattano come un semidio ancora oggi.

G – Ray Allen, Milwaukee Bucks

Al voto popolare, sarebbe potuto prevalere Penny Hardaway su Ray Allen, aka Jesus Shuttlesworth, nel 1999. Ma la storia di infortuni di Hardaway, qui, gioca a suo svantaggio. Cavalcando l’ondata del film “He Got Game” del 1998, la giovane star dei Bucks strappa il biglietto per Philadelphia (con le HGG 12 ai piedi, ovviamente), dove troverà Washington, Lee e Jordan a bordocampo.

Fin dal suo ingresso nella Lega, Allen è sempre stato un tiratore terrificante, segnando, negli anni della maturità, la tripla che ha salvato la dinastia dei Miami Heat nel 2013. Ma il giovane Ray? Oh, il giovane Ray poteva fare letteralmente tutto. Anche farti finire dalla parte sbagliata di un poster.

F – Vince Carter, Toronto Raptors

Tutta l’isteria che vediamo oggi attorno a Luka Doncic? Beh, così era per Vince, poi Rookie dell’Anno nella stagione di 20 anni fa. Quanto era grande l’hype che circondava Vince? Lasceremo che a dircelo sia il suo cugino e compagno di squadra, Tracy McGrady: “Carter incendiò la Lega con il suo atletismo, le sue schiacciate spettacolari”, afferma T-Mac con un sorriso visibile anche attraverso il telefono. “Con l’inerzia con cui arrivava all’All-Star break del ‘99, ci sarebbe stato davvero da divertirsi.”

Già da matricola, quindi, Carter parte da titolare all’All-Star Game, perché… perché non dovrebbe?

F – Grant Hill, Detroit Pistons

Una delle migliori (e popolari, e commercializzabili) star della Lega, Hill sarebbe stato sempre sotto i riflettori nell’era post-Jordan. La sua capacità di fare praticamente tutto sul campo (21.1 punti, 7.1 rimbalzi, 6 assist e 1.6 rubate con il 47.9% dal campo nel 1998/99) lo rese una superstar indimenticabile, con un crossover unico.

Hill sposò poi la star R&B Tamia, la cui hit del 1998 “So Into You” rese l’ex Blue Devil una star anche fuori dal campo. Nel febbraio 1999, per Grant Hill “sky’s the limit”. Una domanda che nessuno si pone a questo punto, però. Dovremmo iniziare a parlare dell’imminente free agency di Hill nell’estate 2000? Troppo presto, vero? Sì, avete ragione.

C – Alonzo Mourning, Miami Heat

Quando ancora la posizione di centro aveva importanza all’All-Star Game, ecco, allora c’era Alonzo Mourning. Shaquille O’Neal si era da tempo trasferito ad Ovest, e gli anni migliori di Patrick Ewing erano ormai passati.

Mourning è, senza alcun dubbio, il miglior centro ad Est, e gioca per una squadra che in molti si aspettano di veder competere per il titolo a giugno. I suoi 20 punti e 11 rimbalzi ad allacciata di scarpe lo avrebbero reso un All-Star in qualsiasi stagione, ma le sue 3.9 stoppate a partita (primo in NBA) fanno sembrare un’irruzione a Fort Knox uno scherzo, paragonata a un tentativo di tiro sulla testa di Zo.

Coach – Pat Riley, Miami Heat

Con Jordan ritirato e i Bulls disassemblati, gli Heat di Pat Riley avevano tutte le carte in regola per una corsa al titolo. Solo un problemino, però: probabilmente dovrebbero cercare di evitare i New York Knicks al primo round…

Western Conference

G – Gary Payton, Seattle SuperSonics

Con l’altro nativo di Oakland (e futuro Hall of Famer) Jason Kidd a Phoenix, a Ovest c’è grande competizione per il posto di point guard titolare, ma a spuntarla è proprio The Glove, il generale in campo che aveva condotto i suoi Sonics alle NBA Finals tre anni prima.

Nel 1998/99, Seattle non è più la corazzata che era stata a metà anni ‘90, ma la stagione di Payton rimane degna dell’Olimpo delle point guard della Lega: 21.7 punti, 4.9 rimbalzi, 8.7 assist e 2.2 rubate a partita. E poi, Payton è uno showman di primissima fascia, e la possibilità di mettergli un microfono addosso in occasione della partita, semplicemente, non può essere sprecata.

G – Kobe Bryant, Los Angeles Lakers

Fin dal momento in cui questo teenager ha partecipato al suo primo All-Star Game a New York, l’anno prima, è stato subito chiaro a tutti che avremmo fatto meglio ad abituarci, perché il posto di guardia titolare alla partita delle stelle sarebbe stato suo per un bel po’. In questa realtà alternativa, Kobe Bryant ritorna a Philadelphia (la sua città) e dà lezioni di pallacanestro.

In pochi hanno avuto un senso del palcoscenico più accentuato di quello di Kobe, di quel Kobe perennemente sotto i riflettori. Con Ali, Frazier, Hill, Jordan, Will Smith e tutti gli altri a bordo campo, forse Bean riuscirà anche a mettere le mani sul trofeo di MVP, proprio come accadrà tre anni dopo.

F – Kevin Garnett, Minnesota Timberwolves

Come per Bryant, il posto di ala titolare per la Western Conference apparterrà sempre a The Big Ticket, almeno finché riuscirà a sopportare il contesto della ben poco vincente Minnesota.

Già alla fine della sua terza stagione, nel 1997/98, Garnett si era affermato come un vero e proprio talento generazionale. Era un autentico scherzo della natura in difesa, ed era l’unico giocatore nella Lega a far registrare 18 punti, 9 rimbalzi e 4 assist a partita. E anche se i suoi avversari avessero resistito al suo gioco, non avrebbero avuto chance contro la sua lingua tagliente

F – Karl Malone, Utah Jazz

Chi è stato l’MVP della stagione nel 1999? Sì, Karl Malone. A causa del lockout, l’MVP del Postino del 1999 – agguantato a 35 anni, alla 14esima stagione NBA – resta spesso nel dimenticatoio, inserito com’è fra l’ultimo MVP di Jordan nel ’98 e la stagione fenomenale di O’Neal nel 2000.

Al voto popolare, comunque, la spunta Malone, che diventerà il secondo miglior realizzatore di sempre. Ma… c’è un “ma”. A San Antonio è arrivato un giovane fenomeno chiamato Tim Duncan, che reclamerà il suo posto molto, molto presto.

C – Shaquille O’Neal, Los Angeles Lakers

Come nel caso di Iverson, se vi trovate a Philly in occasione dell’All-Star Weekend che non fu mai, sarà molto difficile non vedere Shaq. Certo, a causa della statura. Ma soprattutto a causa della straripante personalità.

O’Neal, infatti, è una megastar anche fuori dal campo, e ha un appeal talmente ampio da ricordare quello di Jordan. E con Bryant a Philadelphia, c’è anche la pur minima possibilità di vedere Shaq e Kobe esibirsi nella loro dimenticata collaborazione rap “3X’s Dope” ad una qualche festa in città.

Coach – Gregg Popovich, San Antonio Spurs

Gli Spurs di Gregg Popovich, con un giovane Tim Duncan e il veterano David Robinson, sembrano destinati a grandi cose a San Antonio. Ho un buon presentimento.

Bonus track: il miglior Slam Dunk Contest che non abbiamo mai visto?

Ad eccezione di una manciata di momenti memorabili (la benda sugli occhi di Cedric Ceballos, la no-look di Dee Brown, la double pump di Shawn Kemp, la Eastbay Funk Dunk di Isaiah Rider o la schiacciata dal tiro libero di Brent Barry), il Dunk Contest non ha mai particolarmente impressionato negli anni ‘90.

Bryant, da rookie, lo aveva vinto nel 1997, e nel 1998 non c’è stato affatto. Nel 2000, invece, la gara delle schiacciate è tornata con il botto: nella casa dei Golden State Warriors, Steve Francis, McGrady e Vince Carter si sono rivelati degli autentici defibrillatori umani, rianimando il Contest con uno swagger leggendario.

Eppure, McGrady ancora si domanda cosa sarebbe potuto succedere a Philly. Che il miglior Dunk Contest mai disputato sia proprio quello… mai disputato?

“C’era Kobe che aveva vinto nel ‘97. Poi c’era Vince, il nuovo arrivato. Insomma, chissà? Probabilmente Kobe e Vince si sarebbero sfidati quell’anno. Non lo possiamo sapere.”

Carter concorda, anche se quell’occasione mancata non porta troppi dispiaceri, visto lo show che lui e il cugino ci hanno regalato a Oakland. “Se poteva essere il migliore? Sì, forse”, afferma Carter.

Un testa a testa fra Bryant, McGrady e Carter? “Te lo giuro. Grandissimi atleti con creatività e gambe giovani!”, esclama McGrady. “Sarebbe stato assurdo!”

A Carter non piace troppo fantasticare. Ma si rende perfettamente conto di cosa quei tre avrebbero potuto mettere in mostra all’ipotetico All-Star Slam Dunk Contest del 1999: “Kobe e io avevamo giocato insieme a AAU… Tracy e Kobe erano buoni amici. La competizione amichevole e il rispetto reciproco avrebbero tirato fuori il meglio di ognuno di noi. Sì, sarebbe stato leggendario.”