Nella serie del miracolo di Ray Allen, a condannare gli Spurs fu un errore decisivo, e insospettabile, di ‘The Big Fundamental’.

“È la fine di un’era”. Il pensiero è questo per tutti gli spettatori delle Finals del 2013.Come l’anno precedente, quello prima e quello prima ancora. “Dopo Gara 6 e Gara 7… questa volta è finita per davvero.”

È difficile andare al lavoro quando tutti intorno a te dicono che non puoi più farcela, che è ora di andare in pensione, che i tuoi anni d’oro sono passati e non torneranno più.

Ma il mondo esterno sembra non aver mai influenzato Tim Duncan quanto i comuni mortali, testimoni delle sue gesta sportive. Mai un sopracciglio alzato, mai una fronte corrucciata o una smorfia fuori posto: il suo portamento regale e distaccato, il suo controllo totale delle emozioni l’hanno reso la superstar NBA più particolare (e interessante) della storia del Gioco.

La sua, di storia, bene o male la conosciamo tutti: nato e cresciuto nelle remote Isole Vergini, è destinato al nuoto, nel quale eccelle fin dalla tenera età.

Ma le vie del signore sono infinite, e nel 1989 l’uragano Hugo distrugge la piscina di Saint Croix, facendolo virare verso la pallacanestro: non tutto il male vien per nuocere.

Reclutato da Wake Forest, piccolo college del North Carolina, dopo due anni è sul taccuino di tutti gli scout NBA.

Tim, però, ha promesso alla mamma scomparsa che avrebbe terminato gli studi: così dopo quattro anni lascerà l’università con una laurea in psicologia.

E una prima chiamata assoluta al Draft del ’97. Da lì 4 titoli NBA, 3 MVP delle finali, 2 MVP di Regular Season e infinite partecipazioni all’All Star Game, non sempre approcciate con grande entusiasmo…

Adesso, però, Duncan ha 37 anni.

È dal 2007 che San Antonio prova a riprendersi quel titolo, il quinto della sua storia.

Ogni anno la squadra è competitiva, raggiunge agevolmente i Playoffs, pur cadendo sempre prima di arrivare al capitolo finale. Ogni anno addetti ai lavori e tifosi sono concordi: sono vecchi, il loro ciclo è finito.

Nonostante lo negheranno sempre, queste parole sono la benzina che continua a far girare il motore degli Spurs, dopo tutti questi anni di gestione Popovich.

Invecchiando stanno invecchiando, questo è certo. Ma il loro gioco non è mai “vecchio”.

Pur rimanendo saldamente ancorata ai Re Magi Duncan-Parker-Ginobili, San Antonio si è evoluta, ha saputo rinnovarsi: altrimenti non avrebbe potuto mantenere un tale standard di risultati nel corso degli anni.

Anche il caraibico si è evoluto.

Il suo gioco, ormai, è diventato minimalista, venendo incontro alle sue esigenze fisiche.

Rispetto agli scintillanti inizi di carriera, in cui all’intelligenza superiore e ai fondamentali impeccabili si aggiungevano esplosività e fisicità debordanti, ora sembra giocare le partite con la mente, prima ancora che con il corpo.

Vede in anticipo ogni singolo possesso, riduce i movimenti all’indispensabile: è arrivato a stoppare ragazzi di 15 anni in meno senza saltare, a batterli in palleggio su una gamba sola.

Strappa rimbalzi perché sa prima di tutti dove andrà il pallone, ha una capacità di servire i compagni smarcati che poche point guard hanno nella Lega.

Domina le partite in modo delicato, sottile.

La stagione 2011/2012 era terminata con le solite domande: è l’ultima partita da professionista di Duncan? Non è forse ora che la franchigia texana cominci la rifondazione?

Si cercano significati reconditi all’eliminazione in finale di Conference per mano degli esuberanti Thunder.

Invece è solo una sconfitta, e, come sempre fatto dagli uomini di Popovich, il modo migliore per reagire è tornare in palestra, lavorare e farsi trovare più pronti l’anno successivo.

Ed eccolo l’anno successivo: record 58-24, titolo della Southwest Division, Finals NBA conquistata sweepando 4-0 gli agguerriti Memphis Grizzlies. Gli Spurs si sono fatti trovare decisamente pronti. La finale è in programma contro i campioni in carica, i Miami Heat dei Big Three, di LeBron, che scrollatosi di dosso l’orangotango del primo titolo sembra pronto per la doppietta.

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LeBron ha ben stampata in testa la sconfitta dei suoi Cleveland Cavaliers contro gli Spurs nel 2007. Una serie a senso unico, alla fine della quale King James ricevette la profezia di Duncan: “Questa sarà la tua Lega prima o poi. Ma ti ringrazio per averci lasciato gioire quest’anno”.

La serie si sviluppa secondo un interessante schema a chiasmo. Gara 1 a Miami è combattuta ma la vincono gli Spurs con un canestro decisivo di Tony Parker a 5 secondi dalla fine. Le seguenti gare sono invece tutte risolte con ampio margine. Gli Heat la pareggiano due volte, prima della sconfitta in gara 5 in Texas.

Il 18 giugno Duncan e compagni si presentano all’American Airlines Arena per chiudere la serie e vincere il quinto titolo. E sarà una gara tirata fino all’ultimo secondo.

Diciamo anche una gara tra le più belle della storia del basket moderno, resa immortale per sempre dal capolavoro di Ray Allen.

Gli Spurs lasciano un pezzo di anima in quel finale di partita e l’overtime lo vincono gli Heat, che si guadagnano un’insperata gara 7.

In uno dei momenti più difficili della storia della franchigia texana, Duncan fa da chioccia ai compagni, ancora una volta. Gara 6 l’ha dominata per larghi tratti, mettendo a referto 30 punti e 17 rimbalzi: a 37 anni nessuno come lui nelle Finals NBA. Ma tra ultimo quarto e overtime non è riuscito a segnare nemmeno un canestro e il rimbalzo strappatogli da Bosh, che ha poi servito Allen, grida ancora vendetta.

Le premesse per Gara 7, dunque, non sono delle migliori.

Popovich, nel suo stile, sembra voler stemperare la tensione, regalando un’esilarante conferenza stampa pre-partita, degna di uno spettacolo di stand-up comedy di Louis CK.

Qualcosa d’interessante, però, lo dice davvero:

“Gara 6 è stata una sconfitta devastante, negarlo vorrebbe dire mentire a noi stessi. Dal momento in cui abbiamo lasciato l’Arena abbiamo lavorato sul recupero mentale, guardando le cose da un’altra prospettiva, senza piangerci addosso, pensando che ci stiamo giocando due occasioni per vincere una partita ed essere campioni NBA. Non è poi tanto male…”

– Gregg Popovich

La tensione è la grande protagonista nel primo tempo di partita, che si chiude in sostanziale equilibrio, con un sontuoso Duncan da 13 punti, 5 rimbalzi e 4 (!) palle rubate.

Nel terzo quarto si risveglia Lebron che ne mette 12. Mario Chalmers segna una tripla di tabella sulla sirena per il sorpasso Miami, che risveglia il pubblico di casa e dona la fiducia necessaria ai suoi per iniziare nel migliore dei modi l’ultimo e decisivo parziale.

Gli Heat vanno in vantaggio e lo incrementano, giocano più sciolti; San Antonio perde troppi palloni e sembra non avere più la forza per recuperare la partita.

Ma a 2 minuti dalla fine Leonard segna una pesante tripla per il meno due, e a 50 secondi dalla fine gli Spurs vanno in attacco per pareggiare o addirittura mettere la testa avanti per la prima volta nel quarto quarto.

L’azione inizia in modo convulso e si sviluppa forse con troppa fretta.

Ginobili consegna la palla in post basso a Duncan quando ci sono ancora 16 secondi sul cronometro dei 24. Sono saltati gli accoppiamenti, e il caraibico si vede marcato da Battier, tra i migliori difensori della Lega ma molto più basso di lui: si può parlare a tutti gli effetti di un mismatch.

Tim lo sa, appena prende posizione, sente le mani e il corpo di Battier alle sue spalle, ha già in chiaro cosa fare.

Riceve il pallone, lo palleggia una volta e inizia il terzo tempo verso il centro dell’area.

Battier cerca la palla quando il 21 in neroargento raccoglie il palleggio, ma senza successo; con mestiere, frappone il suo corpo tra l’attaccante e il canestro, ma è tardi e i centimetri di differenza sono troppi.Ora tra Duncan e il ferro non c’è nessun ostacolo: lascia andare il pallone, con un elegante finger roll. Forse la lascia partire leggermente in anticipo, forse la stanchezza cancella quel briciolo di lucidità che gli serve per concludere al meglio il movimento.

Fatto sta che il tiro sbatte contro il secondo ferro ed esce.

Duncan, però, deve aver avuto una sensazione spiacevole quando la palla ha lasciato la sua mano destra e ha mantenuto un controllo del corpo impeccabile, che gli permette di arrivare primo sul rimbalzo. Battier si arrangia come può: uncina il braccio sinistro di Duncan per fargli perdere quel po’ di equilibrio e ostacolare il tap in che appare inevitabile, e che infatti arriva. La memoria va immediatamente a quella Gara 5 del 2005. La parabola della spicchia è crudele: non tocca né il ferro, né il tabellone e finisce direttamente nelle mani di Bosh. Miami è miracolosamente ancora avanti.

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Non c’è tempo da perdere, si torna in difesa. Duncan caracolla verso la propria metà campo, prima ancora di averla superata si copre il volto con la canotta.

Arrivato sulla linea del tiro da tre, aspetta il suo diretto avversario Bosh rimasto indietro di un giro. Si piega sulle ginocchia e sbatte con violenza la mano destra contro il parquet dell’American Airlines Arena. Coach Erik Spoelstra chiama il timeout, le squadre vanno verso le panchine.

Il 21 resta fermo, mani sulle ginocchia. È come se questo doppio errore avesse aperto una diga dentro di lui, tutte le emozioni trattenute durante un’intera carriera vengono fuori con un impeto devastante e lo travolgono. In panchina, si mette le mani nei capelli, non si dà pace. Una reazione normale e comprensibile, ma proprio per questo così fuori dal comune per uno come Duncan. Che di comune non ha avuto mai niente.

Per la prima volta in carriera mostra, in campo, il suo lato umano.

Lebron, in uscita dal timeout, segna il canestro decisivo, mettendo il sigillo su una delle migliori prestazioni della sua carriera. Il titolo è degli Heat. Per gli Spurs arriva la prima sconfitta su cinque finali disputate.

È davvero difficile guardare le immagini conclusive di Gara 7: per ogni amante della pallacanestro vedere la sofferenza di Duncan è un pugno nello stomaco.

L’istinto è quello di distogliere lo sguardo, come davanti a una scena cruenta in un film o un momento troppo intimo nel quale ci sentiamo di troppo. È tutto troppo voyeuristico.

Nel dopo gara, tutta la desolazione di Duncan si mostra nuovamente nella conferenza stampa.Lo sguardo nel nulla, la voce rotta.

“Probabilmente gara 7 mi tormenterà per sempre. Dopo quella gara 6…abbiamo avuto due grandi occasioni per vincere e non ce l’abbiamo fatta…è davvero difficile da mandar giù.”

Persino gli spietati giornalisti sportivi assiepati nella sala sembrano avere un tatto particolare nell’approcciarsi al caraibico, dopo quel che è successo.

Raffreddati gli animi, le domande che sorgono sono le stesse degli anni precedenti: e adesso? Che ne sarà degli Spurs? E di Tim Duncan? Diversi giornalisti parlano di una “eredità intaccata” da quell’errore.

Non compromessa, certo, ma il peso di quel tiro sbagliato rischia di non elevarlo allo status d’immortale leggenda del Gioco, ma “solo” (si fa per dire…) a quello di una delle migliori power forward della storia.

Purtroppo per gli amanti delle sentenze, Duncan e gli Spurs hanno idee diverse. Il fuoco sacro che si accende al loro interno dopo la stagione 2013 ha del mistico e del misterioso.

San Antonio chiude la Regular Season 2014 col miglior record dell’intera Lega. All’inizio dei Playoffs, Duncan scrive sulla lavagna dello spogliatoio un numero: 16. Sono le vittorie che mancano alla conquista del titolo. E i suoi scalano la montagna fino a riconquistarsi la possibilità di rivincerlo, quel titolo, proprio contro i Miami Heat. Appena finita Gara 6 di semifinale contro i Thunder, che ne certifica l’accesso alle Finals, Duncan viene intervistato come MVP della gara.

“È incredibile aver riacquistato fiducia e concentrazione dopo la devastante sconfitta dell’anno scorso. Ma ce l’abbiamo fatta, siamo qui e ne siamo entusiasti. Ci mancano quattro partite da vincere: questa volta ce la faremo.”

La serietà e la sicurezza con cui si lascia andare a una dichiarazione simile sono sconcertanti. Nei suoi occhi c’è la convinzione di un uomo in missione, e con lui di un’intera organizzazione.

Nelle finali del 2014, vinte 4-1 contro gli Heat, San Antonio ha scritto una pagina di storia del basket: raramente si è visto un gioco corale così efficace e così appagante anche in senso estetico. Nell’arco dell’intera serie, gli Spurs si sono passati il pallone 472 volte di più degli avversari: il concetto di “gioco di squadra” non è mai stato espresso in modo più chiaro.

Eccolo il quinto titolo dell’era Popovich. L’unico comune denominatore, oltre al leggendario coach, è proprio Tim Duncan: in quintetto nella finale del 1999 contro i New York Knicks così come nel 2014 contro gli Heat, 15 anni dopo.

Finita la decisiva Gara 5, Duncan torna a parlare alla stampa. Il suo sguardo, il suo corpo, la sua mente, finalmente sono liberi dai fantasmi dell’anno precedente:

“Ci siamo ricordati di com’è andata l’anno scorso, di quello che abbiamo provato negli spogliatoi, ne abbiamo fatto tesoro e ci è servito come motivazione. Questa rivincita ha reso l’anno scorso…accettabile!”

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Durante l’estate, ancora parole. George Karl sostiene di aver ricevuto da “fonti certe” l’indiscrezione che Duncan non prenderà parte alla stagione successiva, ritirandosi. Il caraibico liquida i rumors con la sua solita flemma:

“Vorrei sapere con chi ha parlato. Io stesso non so cosa farò, quindi non capisco come faccia a saperlo lui.”

Ha altri piani.

Regala, ai fortunati con cui condivide la stessa era geologica, altri due anni di pallacanestro ad alto livello, altri due anni di classe e umiltà, anni in cui si concentra soprattutto sul passaggio di testimone, che inevitabilmente verrà lasciato nelle mani dell’MVP delle finali del 2014, Kahwi Leonard.

Indubbiamente quel tiro sbagliato avrebbe segnato il punto di non ritorno nella carriera di chiunque. A dirla tutta, un tiro sbagliato ha segnato la fine di diverse carriere.

TD avrebbe potuto farsi sopraffare dai sopraggiunti limiti fisici e di età, accettare malinconicamente il declino della sua carriera e ritirarsi definitivamente a vita privata. E nessuno avrebbe avuto nulla da ridire…

Invece trasformò quella caduta nell’ennesimo punto da cui ripartire, tramutò una cocente delusione nella gioia forse più importante dei suoi 19 anni da professionista.

L’ultima testimonianza di grandezza di uno dei maggiori interpreti nella storia del Gioco.

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