La storia di Gordon Hayward, da promessa del tennis a Star NBA che, nel corso della sua carriera, ha lottato contro i fantasmi dei fallimenti e di un gravissimo infortunio. Potendo sempre contare su un grande punto di forza: se stesso.
17 ottobre 2017. Quicken Loans Arena, Cleveland, Ohio. Il cronometro segna 6:50. Il tabellino 10 a 9 per i Boston Celtics. La partita è appena iniziata.
Kyrie Irving alza una palla al cielo verso il neoarrivato Gordon Hayward. Gordon salta: cerca la sfera tra Crowder e Lebron.
«Oh my goodness!»
Hayward finisce atterra. È un attimo, ma sembra che il tempo si sia improvvisamente fermato.
C’è chi prega, chi non riesce incrociare lo sguardo con nessun altro, chi trova conforto tra le braccia di un compagno.
Le immagini sono indescrivibili. Lebron James, appena si accorge di ciò che è successo, cerca qualcosa su cui appoggiarsi, come se stesse per cadere da un momento all’altro. Wade e Rose si coprono gli occhi. Thompson è visibilmente scioccato. I giocatori di Boston sconvolti. L’intero palazzetto è preso dallo spavento. È come se il mondo fosse crollato e non ci fossero parole per descriverlo.
È senza dubbio uno degli avvenimenti più atroci mai successi su un parquet NBA.
Uno degli infortuni più tremendi che possa accadere a uno sportivo.
Gordon Hayward si è lussato la caviglia e fratturato la tibia sinistra. Ovviamente stagione finita.
La notte del suo esordio in maglia Celtics doveva essere una notte di sorrisi e festa, invece si è trasformata in un enorme incubo.
Questo non può essere un semplice infortunio. Quando ci si fa così male è praticamente impossibile riprendersi del tutto, ma Gordon è un ragazzo forte non solo sul campo e con una palla in mano, anche mentalmente. Dai giorni di Brownsburg, Indiana.
Hayward fin dai primi anni del liceo ha i riflettori puntati addosso: è considerato dal The Indianapolis Star una delle migliori promesse dell’Indiana.
Di basket? No. Di tennis.
Gordon, infatti, è inseparabile da due cose: dalla sua racchetta e dalla gemella Heather.
Foto: tennistalk.com
Vuole passare più tempo possibile con la sorella, quindi si appassiona al tennis, sport tanto amato da lei, e creano insieme uno dei doppi misti migliori dello Stato.
La forza mentale, dicevamo.
Il tennis è lo sport in cui si parla da soli. Nessun atleta parla con se stesso come i tennisti. A guardarli da vicino sembrerebbero pazzi che farneticano, imprecano e urlano al proprio alter-ego. Perché? Perché è uno sport maledettamente solitario. Nel tennis si è vis-a-vis con il proprio nemico per ore, si scambiano colpi con lui, ma non gli si può parlare, nè lo si può toccare. Non si può nemmeno richiedere un time-out per discutere col proprio allenatore.
Si è naufraghi su di un’isola e l’unico modo per non morire di solitudine, è autocontrollarsi parlando con se stessi.
Ed è proprio grazie a questo che Hayward ha capito come gestirsi autonomamente anche nei momenti più complicati della sua carriera. Anche la sera del 17 ottobre 2017 alla Quicken Loans Arena.
Facciamo un passo indietro, tornando a quando si è trovato di fronte una scelta importante: il basket o il tennis?
Il 16enne Gordon Hayward è un smilzo e molto rapido, quasi perfetto per il tennis, mentre troppo basso e poco muscoloso per la pallacanestro, a cui si è appassionato grazie agli uno contro uno nel giardino di casa contro papà Gordon Sr.
Quando approda al liceo vuole solo la racchetta e la pallina, ma mamma Jody lo convince a non mollare il basket: il medico le ha detto che sarebbe cresciuto in poco tempo di diversi centimetri.
Così alla Brownsburg High School porta avanti tutti e due gli sport, risultando straordinariamente bravo in entrambi. Ha un dritto impeccabile e con la palla a spicchi tra le mani non lo ferma nessuno.
Se nei primi anni è decisamente più bravo a tennis, qualcosa successivamente cambia. Cresce improvvisamente, come previsto dal dottore: raggiunge 203 cm, facendo rapidamente un balzo di più di 20 cm.
Nell’ultima stagione con i Brownsburg Bulldogs, nel 2008, diventa lui il protagonista assoluto. Porta letteralmente da solo la squadra alle finali di Stato a suon di assist e tiri dalla media. Eppure, da quanto detto dai suoi ex compagni, è fin troppo generoso.
D’altronde Gordon è un ragazzo timido. «Shy and competitive», dicono. Fuori dal campo si nasconde, ma una volta dentro si scatena. Fa di tutto per vincere.
L’ultima gara di quell’interminabile 2008 è contro la Marion High School, favoritissima e campione già 7 volte, contro le 0 dei Bulldogs. Dovrebbe essere una partita a senso unico.
«Hey coach, perché non ci andiamo a prendere la coppa? Voglio vincere!», scrive via mail all’allenatore Joshua Kendrick.
Mancano 2.1 secondi e Marion è sopra 39 a 38 dopo una tripla. Rimessa per Brownsburg. La gemella Heather sussurra all’orecchio di papà: «It’s over», probabilmente non sa che nella pallacanestro si deve aspettare fino all’ultimo per dare il verdetto.
Foto: usatoday.com
Palla lunga, doppia marcatura su Hayward. Il difensore non riesce a trattenere la sfera dopo averla intercettata, così finisce tra le mani di Gordon. È calmo, rilassato. Questi momenti li sa gestire, è un match point come tanti altri per lui. Così si gira con l’istinto del campione verso il canestro. Ferro, di nuovo ferro, dentro! 39-40 sulla sirena! Game, set and match.
Il palazzetto impazzisce. I compagni si stringono attorno a lui. Gordon sorride, alza le mani al cielo. Ha capito: la pallacanestro è il suo sport.
Deve solo scegliere l’università. Ha tre borse di studio: IUPUI, Purdue University e Butler. Non sono proprio le prime della classe, ma ad Hayward vanno più che bene.
IUPUI la scarta subito. Rimangono le altre due. La sorella Heather vuole continuare a giocare a tennis, così va a Butler. Indovinate? Gordon la segue nella piccola università che conta circa 5 mila studenti. Può stare insieme alla gemella, seguire le lezioni d’ingegneria informatica e rimanere nell’Indiana: niente male.
I Bulldogs – anche loro – della Butler University arrivano da un’annata grandiosa. Nell’aprile del 2007 fa il suo esordio da Head-Coach Brad Stevens, un giovanissimo economista dell’Indiana. Brad non è un allenatore normale: alla prima stagione sulla panchina dei suoi Bulldogs vince 30 partite – ovviamente record della scuola – ma esce al secondo turno della March Madness. Sono tutti d’accordo: a questa squadra manca una star, un giocatore a cui affidarsi nei momenti più complicati.
Quando Gordon si presenta, Terry Johnson, uno degli assistenti di Stevens, bisbiglia nell’orecchio dell’allenatore capo: «Ha solo un buon movimento laterale».
La prima stagione segna 13 punti, 6.5 rimbalzi e 1.5 rubate di media e si mette in mostra durante i mondiali Under 19, vincendo, ovviamente, la medaglia d’oro e stupendo tutti, insieme a Shelvin Mack – ex Olimpia Milano e compagno di Gordon a Butler.
«Forse abbiamo più di quello che pensavamo», dice Johnson.
«Un grande difensore e un grande attaccante – racconta Brad Stevens. Era il nostro miglior giocatore».
Foto: bleacherreport.com
Nella seconda stagione, guida Butler a una delle Finali NCAA più incredibili di sempre contro Duke e vince l’Horizon League Player of the Year. Coach Stevens ha trovato la sua star.
L’università dell’Indiana è la più piccola di sempre ad arrivare in fondo alla March Madness e potrebbe essere la quarta a vincere il torneo di fronte a casa, perché quella finale si gioca al Lucas Oils Stadium d’Indianapolis, a poco meno di 10 km dal loro campus.
La partita pare un’infinita battaglia fisica e mentale. Diversi cambi di vantaggio, con un massimo di sei punti raggiunto da Duke.
59-60 a 13 secondi dal termine. Rimessa Butler che finisce nelle mani di Hayward. Se la gioca dal palleggio, è pronto a segnare un altro match point: ma niente da fare, la palla esce. Rimbalzo di Zoubek, centro di Duke, e liberi. Il primo lo segna. 59-61. Il secondo lo sbaglia apposta per far passare più tempo. Gordon Hayward raccoglie il rimbalzo e corre dall’altra parte. 3 secondi rimanenti. Lascia partire il tiro da metà campo mentre suona la sirena. Tabellone. Ferro. Fuori!
Partita finita e sogno svanito, ma quella di Butler resta una cavalcata storica.
Gordon non può buttarsi giù. È giunto il momento di approdare in NBA.
Tutti dicono che andrà alla 10 ai Pacers – a casa, in Indiana – ma la notte del 24 giugno 2010 Utah lo chiama alla 9, mentre a Indianapolis ci vola Paul George.
Foto: nba.com
Gli anni a Salt Lake City sono incredibili.
Nella stagione da rookie non impressiona particolarmente, ma dopo l’addio di Deron Williams nel febbraio del 2011 comincia la grande ascesa di Hayward nel mondo cestistico americano.
Migliora in tutto e per tutto. Passa dai 12 punti di media del secondo anno, ai 22 del settimo, con un All Star Game, Playoffs e partite incredibili.
Si è trasformato dall’essere un (ottimo) tennista un po’ gracile, a una vera e propria stella dell’NBA.
Ma in quell’estate Gordon è un unrestricted free agent. A Salt Lake City tentano di tutto per farlo rimanere, appendendo addirittura sull’autostrada I-15 un gigante cartellone con scritto “stayward”.
Le squadre che lo vogliono sono tre: Heat, Jazz e Celtics. Tutte offrono il massimo salariale, ma solo una di queste ha sulla propria panchina da 4 anni Brad Stevens, arrivato nel 2013 direttamente dalla Butler University.
Hayward, quindi, vola subito verso il Massachusetts. Verso Coach Brad e i Boston Celtics.
I due si trovano a meraviglia fin dagli anni di Butler. In Indiana non sono riusciti a vincere per pochissimi centimetri, ma ora con un roster importante, che conta su Kyrie Irving, Al Horford, Marcus Morris, Marcus Smart, Jaylen Brown e un giovanissimo Jayson Tatum, sono pronti a puntare in alto.
Ed ecco che ritorniamo a quel 17 ottobre 2017 a Cleveland, la sera dell’infortunio.
Foto: nba.com
«Quando mi hanno portato fuori in barella, ho pensato: “Ho finito. La mia carriera è terminata. Tutti i sacrifici sprecati. Un duro lavoro buttato”.Dopo quel trauma ho attraversato un periodo buio. Mi venivano in mente solo cose negative».
Lì, disteso sul parquet della Quicken Loans Arena, se non vuole lasciare per strada tutto ciò che ha fatto sino quel momento, Gordon deve fare come i migliori dei tennisti: parlare tra sé e sé. Non abbattersi. Rimanere in piedi.
Gordon Hayward, dopo anni di successi, si ritrova a lottare contro la depressione.
Così, proprio come nei vecchi tempi, è costretto a giocare una partita a tennis. La più difficile della sua vita: quella contro se stesso.
Un botta e risposta continuo. Lui, l’unico naufrago sull’isola. È la sfida più ardua.
La carriera di Gordon è congelata per un anno intero. Hayward deve stringere i denti. Così si fa operare e affronta la riabilitazione. Ma riesce a superare tutto: è di nuovo pronto a solcare i parquet NBA.
Salta l’intera stagione 2017/18, ma 364 giorni dopo il drammatico momento torna in campo contro i Sixers il 16 ottobre 2018.
Però ancora qualcosa non va. La partita contro se stesso non è terminata. Tutt’ora, con ogni probabilità, non si è ancora conclusa.
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Nella stagione 2018/19 inizialmente parte in quintetto, ma non riesce a incidere come un tempo. Stevens, quindi, lo sposta come sesto uomo.
«Se non stai bene dentro – racconta di sé – non riesci a fare quello che vorresti sul campo. Una volta superato questo ostacolo, potrò pensare a tutto il resto».
Inizia così ad alternare buone prestazioni a pessime.
Nel periodo natalizio passa dalle terribili partite contro i 76ers – con 2/6 dal campo segnando 5 punti – e gli Spurs – 0 canestri -, all’incredibile da 35 punti contro i Timberwolves, con festeggiamenti e sorrisi a fine gara.
Dopo un anno di riambientamento, in cui Gordon è ritornato ad assaporare il profumo del campo, nel 2019/20 è di nuovo tra i titolari. Riporta sempre di più il sorriso sul parquet e, soprattutto, ricomincia a segnare quasi come un tempo: sono 17.5 di media – tra l’altro 39 proprio contro i Cleveland Cavaliers.
La prima frazione di stagione è positiva, ma poi arriva la pausa per il Covid e la complicata ripresa nella bolla.
A Orlando Hayward segna subito due grandi prestazioni: 24 punti contro OKC e 27 ai Pacers. Sembra l’arma in più dei Celtics per poter tornare finalmente a competere per il Titolo.
Il primo turno dei Playoffs è contro i Philadelphia 76ers privi di Simmons. Battibilissimi. Gara 1, come da pronostico, la vince Boston, ma Gordon si fa di nuovo male. Un infortunio come un altro alla caviglia: quattro settimane di stop.
Poco più di un mese dopo torna in campo. Durante Gara 3 delle Finals di Conference contro gli Heat è il sesto uomo, proprio come nell’anno successivo al trauma. Non incide abbastanza. Anche se quella partita è vinta dai Celtics, sono solo 6 punti in 30 minuti. Negli incontri successivi 14, 10 e 12. Dopo la disfatta in Gara 6 cominciano ad alzarsi grandi critiche nei suoi confronti.
«Non vale quei soldi».
«Non si riprenderà mai da quell’infortunio».
«È diventato scarso».
In questa offseason 2020 avrà una player option da 34 milioni. La firmerà? Probabilmente sì. Poi magari verrà scambiato, oppure farà il suo ultimo anno con il tanto amato coach Stevens.
Quello che sappiamo con certezza, però, è che Gordon Hayward non mollerà mai.
La partita con se stesso non è ancora finita, ma nell’ultimo anno ci ha dimostrato più volte che può sconfiggere il nemico. Anche se spesso ha pensato di essere stato abbandonato, in realtà non è mai stato davvero solo.
Perchè dalla sua ha sempre avuto un enorme punto di forza: se stesso. Never Alone.