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Ospite da Taylor Rooks per Bleacher Report, Spencer Dinwiddie è stato intervistato sui più svariati argomenti, dalle (cattive) impressioni avute sul piano dei Washington Wizards a quello che è un tema sempre caldo in NBA, la ring culture.

Da sempre è vivo lo stereotipo per cui, per definire una carriera, l’aver vinto un anello (o il numero di anelli) rivesta un ruolo preponderante. Per il giocatore dei Nets, il discorso è più complesso di così:

“Se non sei un top-5 di sempre, tempo due o tre anni dopo che avrai finito la carriera, la gente si dimenticherà di te. Siamo onesti su chi siano i nomi di cui stiamo ancora parlando. Se non hai cambiato la cultura del gioco come Allen Iverson o Stephen Curry con il tiro da tre punti, o se non ti chiami letteralmente Kobe Bryant, Michael Jordan o LeBron James, chi parla di te?


Una riflessione, dunque, che parte dal presupposto per cui quello che tendiamo a definire “pubblico generalista” tenda a dimenticare presto quelli che sono i grandi nomi e che riservi per essi dei criteri basati o sul numero di anelli, o sull’impatto sul gioco – posto che Curry, tra le altre cose, in realtà ha 4 anelli.

Ma che ne è di tutti gli altri? Spencer Dinwiddie spiega bene come, per alcuni nomi, che sono a tutti gli effetti dei grandi del gioco, non sia arrivato l’anello, o comunque che esistano casi particolari come quelli di Shaquille O’Neal, di cui si tende a parlare meno nonostante l’enorme impatto:

“Sentiamo mai parlare di Penny Hardaway, Tracy McGrady o Brandon Roy, se non per gli infortuni? E questi sono dei veri e propri mostri, sono dei grandi del gioco. Se Shaq non fosse sempre su TNT, non parleremmo così tanto di lui, ed è il giocatore più dominante nella storia della NBA. Ognuno deve definire quello che è il successo per sé stesso.”

Ultima frase in particolare molto interessante, che viene articolata subito dopo: ogni giocatore, in base allo status e alle ambizioni, ha un particolare obiettivo, che non può essere lo stesso per tutti. E così la ring culture può funzionare, ma solo per quei nomi dell’Olimpo NBA che si contano sulle dita di una mano, sempre al netto del fatto che il pubblico generalista tende a ricordare più gli anelli di tutto il resto:

“Capisco l’ossessione per l’anello da parte di certi nomi perché, ad esempio, un altro anello per LeBron può fare la differenza per lui tra l’essere considerato il più grande di sempre oppure no. O comunque per quei ragionamenti del tipo ‘ho raggiunto Mike’, ‘ho raggiunto questo’ o ‘ho raggiunto quest’altro’.”

Ricapitolando, il pensiero di Spencer Dinwiddie si basa dunque sul fatto che, per i grandissimi del gioco, contare il numero di anelli abbia senso, visto che sarà il criterio con cui verranno valutati anni dopo la fine della carriera dal grande pubblico. Mentre, per tutti gli altri, le ambizioni devono essere quelle imposte da sé stessi. Un esempio?

“Le persone parlano spesso di Damian Lillard, giusto? Lui non sarà mai il più grande di sempre, indipendentemente dal vincere o no. Perciò, se lui è soddisfatto della propria carriera e sa di aver preso la decisione giusta restando a Portland, buon per lui, non vedo alcun problema in questo e non dirò che ciò lo rende un giocatore peggiore di altri. Si parla probabilmente della seconda migliore point guard nel tiro da tre punti a livello all-time.”

Infine, Spencer Dinwiddie chiude reiterando la propria posizione:

“Capisco a pieno il ragionamento dietro la ricerca dell’anello se ti trovi su quella vetta, del tipo ‘Ok, potrei superare Kobe’ o ‘potrei superare MJ’ e via dicendo. Ma se non sei tra i migliori 20 di sempre, come praticamente chiunque altro? Dipende da te. Se sei capace di onorare questo gioco, non c’è alcun tipo di problema.”