L’ex centro dei Knicks ha sfruttato al meglio il suo talento e il suo momento, creando un legame speciale con New York
Questo contenuto è tratto da un articolo di William C. Rhoden per ANDSCAPE, tradotto in italiano da Andrea Borgonovo per Around the Game.
Negli anni ’70 Willis Reed, il leggendario centro dei New York Knicks, aveva guidato la franchigia al titolo NBA. Gli anni seguenti non saranno altrettanto gloriosi per la squadra della grande mela, se non per un paio di eccezioni: le finali NBA degli anni ’90 (1994 e 1999). Nonostante il mancato raggiungimento di un titolo, ai Knicks è rimasto però invariato un allure, un riconoscimento oltre che un fascino di grande squadra, fatta di grandi campioni ed una straordinaria storia. Reed è scomparso all’età di 80 anni, e con lui ci ha lasciati definitivamente un’intera generazione, quella dei “big man”: Bill Russell, scomparso nel luglio 2022, e Wilt Chamberlain, morto nel 1999. Non si vuole fare alcun paragone tra i tre, troppo diversi e distanti gli uni dagli altri, ma di certo si può affermare come Reed fosse il più “raggiungibile”, il più umano per certi aspetti, quello che più si concedeva al pubblico o, viceversa, il meno “divo” e divino dei tre. Proprio per questo, forse, sopperiva con caratteristiche che, purtroppo per i Knicks, non si sono più ripetute nei decenni: cuore, coraggio e impegno costante ed inesauribile.
Reed si ritirò nel 1974 a 31 anni d’età e iniziò a domandarsi cosa fare del suo futuro. Partì da dove aveva finito, facendo il “classico” passaggio da giocatore ad allenatore dei New York Knicks. Successivamente è stato assistente per gli Atlanta Hawks prima e per i Sacramento Kings poi, per tornare capo allenatore nella stagione ’88/89 dei New Jersey Nets. Qui ha rivestito anche il ruolo di direttore generale e vicepresidente fino al 1996, partecipando di fatto alla rinascita della stessa franchigia che, proprio da qui, partirà per giungere alle Finals di inizio anni 2000. Al pari di tante altre star che hanno lasciato il parquet, è difficile definire la vita privata altrettanto all’altezza delle sue prodezze nelle arene NBA.
Quindi come è possibile, dopo tutto questo, che lo “spirito” di Reed sia rimasto negli anni al Madison Square Garden? “It’s all about moment” – esatto, è di questo che si tratta, di un momento, un istante, una giocata o un’intera stagione e il basket e la NBA sono piene di queste storie e momenti.
In Gara 6 delle Finali NBA del 1980, Magic Johnson giocò al posto dell’infortunato Kareem Abdul-Jabbar, guidando i Los Angeles Lakers, con una prestazione da 42 punti, alla conquista del campionato NBA. In Gara 5 delle Finali NBA del 1997, Michael Jordan, con 39 di febbre, segnò 38 punti per sconfiggere gli Utah Jazz in quella che diventerà nota come “Flu Game”. Anche Reed ebbe il suo momento, l’8 maggio 1970, in Gara 7 delle Finali NBA contro i Los Angeles Lakers al Madison Square Garden. La storia e i filmati di quei momenti vengono riprodotti ancora oggi.
Reed è reduce da un infortunio, tanto che in Gara 6 non mette piede in campo ed è in dubbio per la successiva. Prima del match si dice che il centro dei Knicks sia stato sottoposto ad iniezioni continue di antidolorifici che gli permisero quantomeno di trascinarsi in campo per il riscaldamento con i compagni. Vederlo sul parquet del Madison non lasciò indifferente nessuno, i tifosi esplosero di gioia ed emozione, mentre la panchina dei Lakers impallidì. Le reazioni proseguirono tra gioia e spavento per tutto il match, sempre differenti chiaramente tra pubblico e squadra avversaria, finché i Knicks vinsero la gara (anche grazie, questo va detto, a Walt Frazier e ai suoi 36 punti e 16 assist). Ma quello fu il momento di Reed…
Con Frazier formavano una coppia perfetta, e proprio quest’ultimo in varie interviste ha ricordato il compagno di squadra. Lo ha fatto specialmente con il giornalista e scrittore W.C. Rhoden. “Quando arrivai a New York nel ‘67, Willis fu il mio mentore”, ha ricordato Frazier. “Mi venne a prendere all’aeroporto e mi procurò il primo appuntamento. Siamo usciti quella sera”. Ma soprattutto, Willis Reed introdusse Frazier ad Harlem attraverso il leggendario torneo estivo di basket del Rucker Park (QUI un pezzo in cui parliamo dell’importanza). Reed aveva una squadra iscritta e aveva scelto Frazier per giocare. “Mi disse: ‘Ehi, Frazier, dai, amico, giocherai con noi al Rucker”. Frazier non sapeva nulla di Harlem, ma quella fu un’esperienza che gli fece aprire gli occhi, un importante rito di passaggio per la prima scelta dei Knicks.
“Era come un circo, non avevo mai visto nulla di simile. Era come un videogioco. Mi chiedevo: ‘Chi sono questi ragazzi?’. Non avevo mai sentito parlare di nessuno di questi. Willis è salito e gli hanno stoppato il tiro. È stato incredibile, la mia prima volta lassù.”
“Venendo da Atlanta, non avevo mai visto nulla di simile. La gente pur di assistere saltava sulle recinzioni, si affacciava dagli edifici. Si poteva a malapena entrare in campo, non c’era spazio. Era come essere un pistolero nel vecchio West. Ero la scelta numero 1, quindi tutti questi ragazzi volevano dimostrarmi qualcosa. E Willis era un professionista, era l’uomo di New York. Ricordo quella scena come se fosse ieri. È una scena che non dimenticherò mai”.
Reed sapeva quanto fosse importante per il giovane rookie afroamericano dei Knicks entrare in contatto con la comunità, lasciare che lo vedessero e lo toccassero, come loro avevano visto e toccato Reed. Non bisogna mai allontanarsi troppo dalle proprie radici. Ecco perché Reed ha avuto una presenza così duratura al Garden e a New York. Reed ha trascorso tutta la sua carriera da giocatore, dal 1964 al 1974, con i Knicks. Ha sfruttato al massimo il suo momento. Dopo l’eroica prestazione di Reed nel 1970, il leggendario presentatore Howard Cosell gli disse in un’intervista post-partita: “Lei esemplifica il meglio che lo spirito umano possa offrire”. Amen. E che l’indomabile spirito di Willis Reed continui a vivere.