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Questo contenuto è tratto da un articolo di Ken Makin per Andscape, tradotto in italiano da Marco Barone per Around the Game.


Non sembra che siano passati quasi tre anni da quando uno dei figli prediletti di Philadelphia ha tolto il sorriso dalla bocca di Chris Rock. Il ricordo dell’indignazione iniziale e la gente che insisteva che sarebbe stata la fine della carriera di Will Smith è ancora nitido. Con un divertente tocco di ironia, è stata una serie di film intitolata “Bad Boys” a riportare Smith alla ribalta e a ricordare alla gente la sua grandezza. Non si è potuto fare a meno di pensare a “The Slap” quando il centro dei Philadelphia 76ers Joel Embiid ha spinto Marcus Hayes dopo che l’editorialista del Philadelphia Inquirer ha tirato un colpo basso in uno dei suoi commenti. È stata una settimana di grande successo per le icone dello sport di Philadelphia: l’ex centro dei Philadelphia Eagles Jason Kelce ha spaccato il telefono di un disturbatore nel campus della Penn State dopo che il “fan” aveva usato un insulto omofobico contro suo fratello. Kelce si è scusato dicendo di aver risposto “all’odio con l’odio”. Ma non è questo il modo americano? Gli incidenti hanno ricordato quanto la società si senta a proprio agio nell’attaccare gli atleti, ma la maggior parte delle persone si identifica con questi conflitti solo quando diventano fisici, come nel caso di Kelce o dell’outfielder dei Los Angeles Dodgers Mookie Betts contro un paio di teppisti vestiti da Yankees durante le World Series. Ma cosa succede quando questi attacchi coinvolgono i media?


L’indagine della NBA sull’incidente ha portato a una sospensione di tre partite per Embiid. “Il rispetto reciproco è fondamentale nel rapporto tra giocatori e media nella NBA”, ha dichiarato Joe Dumars, vicepresidente esecutivo delle operazioni di basket della NBA, in un comunicato: “Sebbene comprendiamo che Joel si sia sentito offeso dalla natura personale della versione originale dell’articolo del giornalista, le interazioni devono rimanere professionali da entrambe le parti e non possono mai arrivare alle mani”. Per quanto riguarda Dumars, la professionalità e l’apprezzamento reciproco sono mancati molto prima che Embiid perdesse la calma. Dal punto di vista di molti, e di chi scrive, lo spintone non è stato così dannoso come questo estratto della rubrica miope e insensibile di Hayes:

Joel Embiid indica sempre la nascita di suo figlio, Arthur, come il principale punto di svolta della sua carriera cestistica. Spesso dice di voler diventare grande per lasciare un’eredità al bambino che porta il nome del suo fratellino, morto tragicamente in un incidente automobilistico quando Embiid era al suo primo anno come 76er. Per essere grandi nel proprio lavoro, bisogna innanzitutto presentarsi al lavoro. Embiid è stato bravissimo proprio nel contrario.

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Queste righe sono state cancellate dalla rubrica di Hayes, ma il danno è stato fatto, non solo per quelle parole specifiche, ma in senso generale. La risposta di Russell Westbrook a un tifoso razzista nel 2019 avrebbe dovuto essere accolta non solo con un rapido rimprovero, ma anche con misure efficaci per evitare che simili eventi si ripetessero. Poiché trattiamo gli atleti come se facessero parte dello spettacolo e non come esseri umani, permettiamo che si verifichino incidenti di contorno perché pensiamo che facciano parte del circo. Questa policy tra le leghe professionistiche potrebbe essere più diffusa se alcuni membri dei media non gettassero benzina sul fuoco con le loro stesse buffonate. Si arriva persino a chiamarlo “giornalismo”, anche se il settore non riguarda solo la cronaca o il prodotto finale, si tratta di come i professionisti si impegnano con la community, se scelgono di usare le parole per costruire o per distruggere. Per chi capisce l’America, è difficile infuriarsi per The Slap o The Shove. La violenza è irrimediabilmente intrecciata nel DNA statunitense, sia in termini di povertà che di politica. Che significato ha un singolo schiaffo o uno spintone in un mondo in cui la brutalità della polizia persiste? Quando la violenza contro le donne, sia in ambito domestico che sanitario, persiste? Potrebbero sembrare mele e arance per chi vuole separare politica e sport, ma c’è sempre stata reciprocità tra le due cose, e questo forse è il motivo per cui LeBron James deve stare zitto e palleggiare, mentre la scelta del cappello di Nick Bosa, difensore dei San Francisco 49ers, e i “calci politici” di Harrison Butker, kicker dei Kansas City Chiefs, sono celebrati. Ma andando oltre, il vecchio detto “sticks and stones” sul rimanere indifferenti in relazione alle parole è sempre stato intellettualmente disonesto: le parole fanno male e, inoltre, sono l’inizio delle narrazioni, che guidano questo particolare settore nel bene e nel male. Fake news, direte voi?

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Quando le multinazionali dei media e i suoi sottoposti, a prescindere da una questione razziale e sessuale, escono dalle righe nel senso distorto di chiedere conto agli atleti, è una corsa al ribasso che fa perdere tutti. Questa è un’industria piena di “hot take” da cibo spazzatura che non solo perpetuano la narrativa delle “fake news”, ma svalutano sia l’atleta sia ciò che la gente percepisce come giornalismo. Quando Embiid dice di aver fatto troppo per questa città perché la gente dica che non vuole giocare, è un commento che va oltre il campo. Contrariamente a quanto dicono le persone che se ne fregano, gli atleti si impegnano nelle loro comunità al di là della superficialità o, per i più cinici, vedendo la beneficenza come una detrazione fiscale. Embiid porta questo impegno verso la città in modo duplice, intitolando i suoi gesti di beneficenza “In Memory of Arthur”. I volti ai quali queste iniziative servono assomigliano ai suoi, magari ai vostri, sono più importanti di quelli di chi si preoccupa più della gestione del carico o dei titoli. La prospettiva del titolo è davvero una componente ironica di tutto questo: volete vedere Embiid a novembre o durante i Playoffs? Certamente le Olimpiadi hanno avuto un impatto negativo su di lui, ma la sua presenza è stata necessaria per la conquista della medaglia d’oro. Ha bisogno di tempo per tornare in piena forma, questo fa parte di The Process, che vi piaccia o no.

Il settore mediatico ha bisogno di un reset culturale, le critiche agli atleti e alle celebrità non devono disumanizzarli. Quando le celebrità o gli atleti rispondono a un comportamento ignobile in un impeto di rabbia, questo non li rende meno umani, li rende più umani perché si oppongono al questo lato oscuro. E proprio questo settore dovrebbe cercare di fare lo stesso.