Dopo aver firmato un’estensione biennale da 122 milioni di dollari, Dame ha blindato la sua permanenza a Portland fino al 2027.

FOTO: NBA.com

Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Erika Annarumma per Around the Game.


La prima immagine del carosello pubblicato da Damian Lillard sul suo profilo Instagram il 9 luglio è una foto di famiglia che ritrae lui, sua moglie e i suoi tre bambini piccoli; continuando a scorrere il post, poi, ci sono anche foto del suo agente (Aaron Goodwin), del GM dei Portland Trail Blazers (Joe Cronin) e, infine, di lui che fa una sessione di tiro in palestra. Dame ha pubblicato il post dopo aver prolungato il suo contratto con i Blazers per due anni e 122 milioni di dollari. Al termine di questo accordo, immaginando che la point guard rimanga a Portland fino a luglio 2027, avrà così guadagnato quasi mezzo miliardo di dollari in una carriera spesa interamente nell’Oregon.


Sapendo che la sua ricchezza potrebbe aver un impatto a lungo termine sulla sua famiglia e sui suoi amici più cari, Lillard ha ringraziato i Blazers nel post, perché gli permettono di prendersi cura di intere generazioni della sua famiglia:

 “Significa molto per me. Sono molto orgoglioso di non essere una persona nata con i soldi, ma di uscire di casa e guadagnarmeli”, ha detto Lillard, 32 anni, ad Andscape durante le riprese di uno spot promozionale della stagione NBA 2022/23. “Ci dedico il mio tempo e lavoro sodo, faccio le cose nel modo più serio possibile e con le giuste intenzioni. Allo stesso tempo, metto la mia famiglia in una posizione tale che i miei figli non dovranno sentirsi costretti da me a diventare grandi atleti o giocatori di basket. Faccio quello che faccio per permettere loro il lusso di fare qualsiasi cosa vogliano fare, sentendosi a proprio agio ed essendone felici. E posso investire su di loro al punto che non diranno mai ‘non so cosa voglio fare’, potendo deciderlo. E i loro figli avranno lo stesso lusso, grazie alla situazione in cui mi trovo ora. Posso cambiare le cose non solo per i miei bambini, ma anche per i loro figli e i loro cugini, e per i figli di mio fratello: questo è il mio fine ultimo, creare qualcosa che ci permetta di tenere tutto in famiglia e di dare loro una prospettiva senza la pressione che alcuni di noi avevano.”

Dieci anni fa, Lillard è stato il primo membro della sua famiglia, che viene da East Oakland (California), a diventare un milionario. Da allora, il Rookie of the Year 2013 ha usato la sua ricchezza per aiutare sua madre a lasciare il suo lavoro prima di debuttare in NBA e aiutare amici e familiari ad investire nei propri sogni, oltre a far fronte a necessità personali. Membro dell’NBA Top-75 all time, Lillard ha raccontato di pensare spesso a quando era giovane, per ricordare a sé stesso che la sua famiglia non ha sempre navigato nell’oro, anzi.

Dopo aver guadagnato così tanti soldi, quando firmi un contratto è ancora come la prima volta o è difficile non stufarsi?

Io e mia moglie ne abbiamo parlato recentemete. Rimane una cosa importante, e quando ne ho parlato con il mio agente e tutti gli altri, era tutt’altro che qualcosa da niente. Io ero tipo “Cosa dovrei fare? Postare qualcosa su Instagram dicendo qualcosa di assurdo?”. Non sapevo cosa avrei dovuto fare, era qualcosa di molto importante.

Dopo aver firmato questa estensione biennale da 122 milioni di dollari, hai ripensato a quando ti sei trovato in situazioni economicamente difficili?

Mi succede regolarmente. La mia testa è sempre lì. Avendo avuto così tanto successo negli ultimi dieci anni, a volte quasi mi scordo di quello che ho passato nei momenti in cui non sapevo cosa sarebbe successo. Ho sempre pensato che ce l’avrei fatta, e poi ci si ricorda sempre le sensazioni positive, ma ci sono stati tanti momenti complicati durante il percorso.

Ogni tanto mi capita di ricordare quando andavo a vedere una partita dei Jazz e pensavo “Cavolo, davvero un giorno giocherò su quel campo?”. Ripenso spesso a quei momenti.

Cosa ricordi di quando hai firmato il tuo contratto da rookie nel 2012, dopo essere stato selezionato al Draft dai Blazers con la sesta scelta assoluta?

Che ho pensato “Sto per cambiare la vita della mia famiglia, di mia madre.” Ero diventato un milionario, quindi la prima cosa che ho fatto è stata andare al lavoro da mia mamma e dirle “licenziati”. Sono andato lì e l’ho aiutata a prendere tutte le sue cose. “Non ti hanno trattato bene. Ti hanno dato addosso per ogni singola cosa. Non torneremo qui.” Quella è stata la prima cosa che ho pensato.

A parte questo, ero preoccupato per l’aspetto sportivo, per il basket in sé. Fare quello che dovevo fare e tutto il resto. Ho seguito il copione, parola per parola: lavora, fai quello che devi fare, dai sempre il massimo. E tutto quello che verrà dopo, arriverà.

Quanto ti ha fatto sentire bene mettere tua madre nella posizione di non dover più lavorare?

Non voglio mentire: è stata una delle migliori sensazioni che abbia mai provato in vita mia. Le ho iniziato a dire che sarei stato scelto al Draft all’inizio del mio ultimo anno al college, alla Weber State University. Ci sentivamo al telefono almeno ogni due giorni, e lei mi diceva sempre quanto stava male. A lavoro le stavano addosso, la minacciavano di continuo dicendole che l’avrebbero licenziata, era stressata e stava avendo problemi per via delle sue condizioni di salute. E io le dicevo sempre: “I Celtics erano all’allenamento oggi. I Jazz erano all’allenamento oggi.” Cercavo di tirarla su di morale. Avevamo un bellissimo rapporto.

Lei mi parlava dei suoi problemi. Viveva in un appartamento con mia sorella a San Francisco, al tempo. Cercavo di tirarle su il morale con il mio successo, le dicevo: “Sarò scelto al Draft quando l’anno sarà finito.” Perciò, quando sono stato effettivamente selezionato al Draft, tutto era praticamente già pronto. Sono tornato a casa e insieme siamo andati sul suo posto di lavoro a San Ramon; siamo entrati e tutti sapevano che ero appena diventato un giocatore NBA. Perciò tutti dicevano: “Oh, Gina, tuo figlio…”, e cose così. E io dicevo solo: “Ce ne andiamo! Ce ne andiamo!”.

Come hai capito come gestire le tue entrate, all’inizio della tua carriera in NBA?

In generale sono una persona che si preoccupa di queste cose. Quando sono entrato in NBA, dovevo accertarmi del fatto che non stessi spendendo troppo. È una cosa che ho preso da mio padre, che è sempre stato un manager, e non vuole mai né strafare né fare troppo poco. Perciò mi sono detto: “Va bene. So che sto guadagnando molto più di quanto mi sarei mai aspettato. E farò quello che mi piace.” Mi piacciono le scarpe, mi piacciono i vestiti, ma non volevo fare pazzie.

Insomma, volevo essere certo che avrei affrontato il tutto nella maniera più giusta possibile, e di non dare per scontato che i soldi sarebbero continuati ad arrivare. Ero concentrato sul lavorare duro, sapendo che era quello che mi aveva concesso di trovarmi lì, invece di pensare “Oh, ce l’ho fatta. Ho ottenuto quello che volevo.” Quei soldi se ne possono andare in fretta.

Prima che cominciassi a giocare in NBA, qual è stato il periodo più difficile dal punto di vista finanziario?

Direi durante il mio terzo anno al college, dopo che mi sono rotto un piede. Mia mamma lavorava, mio padre era sempre impegnato. Io avevo sempre avuto le Jordan, maglie da basket e tutto quello di cui avevo bisogno. Poi però, verso la fine della scuola superiore, tutto ha cominciato a rallentare.

Quando ho cominciato ad andare al college, mia mamma viveva in un appartamento con mia sorella e doveva pagarle l’affitto, l’assicurazione, il mutuo della casa, e tutte queste cose. Per quanto riguarda mio padre, invece, le cose non andavano bene come erano andate per tutta la sua vita. Sapevo che potevo chiamarli e contare su di loro, ma non volevo che si caricassero di altri problemi, perché sapevo che avevano già molta pressione addosso. Perciò, per rispondere alla tua domanda, direi quel periodo.

Pensavo: “Ricevo queste borse di studio, ma non vivo nel campus, quindi devo anche pagare l’affitto.” Lì ho iniziato a chiedermi. “Dovrei cercarmi un lavoretto?”.

Quel periodo mi aprì gli occhi, perché prima avevo sempre fatto affidamento esclusivamente sui miei genitori; chiamavo e dicevo “Mi servono questo e quest’altro”, e non sentivo che fosse un peso per loro. In quel periodo, invece, non volevo dar loro altro a cui pensare.

Hai fatto tantissimo per aiutare “la squadra di casa”: i tuoi parenti e altri cari.

La “squadra di casa” è sia una benedizione che una maledizione, perché vengo da una famiglia molto unita. Passavo l’estate nella casa dei miei nonni con 25 cugini. Facevamo tutto insieme: andavamo al parco, andavamo in bici, prendevamo l’autobus, andavamo al Boys & Girls Club come un gruppo unico… Perciò, quando hai quel tipo di legame con così tante persone e improvvisamente hai successo, e quando alcune di quelle persone attraversano dei periodi difficili, senti il dovere di aiutarle. Semplicemente, non mi sento a mio agio sapendo che ho quello che ho, e che ci sono persone in difficoltà. Se mi chiedono aiuto, mi sento in dovere di rendermi utile in qualche modo.

La mia famiglia non aveva mai avuto accesso a questo tipo di successo, o a così tanta ricchezza. Ma già con mio padre era un po’ così con tutti: le persone lo chiamavano dicendogli “Mio figlio ha bisogno di un paio di scarpe. Dobbiamo pagare l’affitto. Dobbiamo fare questo. Dobbiamo fare quello”, e lui si prendeva cura di tutti quelli che stavano peggio di noi. Io ho lo stesso tipo di mentalità, non riesco a far finta di nulla. Prima di entrare in NBA, la mia famiglia sopravviveva. Tutti quelli che conoscevo, sopravvivevano. Non so bene come, a pensarci ora, ma in qualche modo sopravvivevano.

Le cose, però, ora sono diverse. Ho tre figli e una moglie, sono sposato, e mi sto avvicinando alla fine della mia carriera. Perciò devo assicurarmi di risparmiare e investire bene i miei soldi, di farmi furbo per non diventare una persona a cui tutti si appoggiano come si fa con una stampella. Se prima dicevo sempre “Va bene, posso darti una mano con questo e quello”, ora sono arrivato a un punto in cui devo dire di no più spesso. Ho cominciato anche a dire alle persone “Va bene, cosa vuoi fare?”: preferisco investire in qualcosa a cui una persona tiene davvero e che può mandare avanti senza bisogno del mio aiuto costante. Ora mi comporto diversamente. Ho imparato che non tutti hanno qualcosa su cui vogliono lavorare, che non tutti vogliono impegnarsi e dedicare il loro tempo a qualcosa; però poi ci sono alcune persone che invece vogliono farlo, e quelle sono le persone su cui investire, a cui dare l’opportunità di fare le cose, a cui dare quel tipo di amore e fiducia.