Conosci me, la mia fottuta lealtà. Lo sai che oggi morirei per onestà. Di Battisti e Mogol, canta Kyrie Irving.

Permettimi di darti del tu. Come se fossimo davanti a una birra al pub, vicini di poltrona della sala d’attesa dal dentista o in panchina in un quarto quarto di garbage time di un giovedì sera UISP. Mi viene più facile così, perché non pretendo di avere la verità in tasca ma, allo stesso tempo, non mi farebbe così schifo farti spuntare qualche punto di domanda e farti riflettere su qualche convinzione errata che abbiamo maturato tutti. Ecco, se mi scappa qualche espressione un po’ così, capiscimi.
Parliamo di Kyrie. Kyrie Irving.
Cazzo, le persone sono esseri umani. Qualsiasi persona è un essere umano, a prescindere dal cono d’ombra o di luce nel quale si decide di inserirlo. Un essere umano che vive quotidianamente alti e bassi, altissimi e bassissimi, in costante e quotidiana evoluzione. Prima uno lo riconosce e prima uno così si riconosce meglio è.
Sarà capitato anche a te di dubitare di te stesso, di percepirti diverso da come ti percepiscono le persone attorno a te. Non necessariamente migliore o peggiore, semplicemente diverso. Emozioni ed equilibrio, a parte l’iniziale e altre tre lettere, hanno ben poco in comune, soprattutto se riferiti a sé stessi. Più facile quando si guarda all’altro, no? Sì. In teoria.
Se viene meno anche un respiro e un secondo di pausa prima di aprire le gabbie del nostro giudizio anche per i nostri presunti modelli, è finita ancor prima di iniziare. Cosa puoi fare, allora, per evitare che passi sotto silenzio l’indicare la rivelazione di un percorso psicologico da parte di un atleta professionista come un dramma o l’additare come una banale scusa retroattiva il riconoscimento di un’instabilità emotiva e intellettiva per spiegare un comportamento condannabile? Equilibrio.
- “Anything to stop the thoughts. Because the thoughts can be disturbing”.
- “That’s why I look at every person I encounter the same way. I don’t care who you are. You can be the smallest person off the street or you could be the biggest person in the world, I’m going to treat everybody the same, with respect. My mom always told me: Never make fun of anybody because you never know what that person is going through. Ever since I was a kid, I never did. I never did. I don’t care what shape, form, ethnicity, nothing. I treat everybody the same. You never know”.
- “There are so many oppressed communities, so many things going on that are bigger than just a ball going in a hoop. So for me it’s just the balance of knowing I can delegate my responsibilities off the court to people that I’m surrounded around that are for the fight and are fighting behind the scenes and in front and in the lines. I’m not the only one that’s fighting so I’m grateful to unify with others”.
Tre citazioni testuali estrapolate dalla stessa conferenza stampa? No. Un’intervista a un giornalista amico d’infanzia. Un passaggio di una lettera di The Players’ Tribune. Una dichiarazione in chiamata Zoom all’ennesima domanda dei giornalisti collegati riguardo a cosa significhi per un giocatore NBA adattarsi alle dinamiche originate dalla pandemia. Non ti dirò la data delle specifiche parole.
Ti basti sapere che le tre diverse voci (o caratteri neri su uno sfondo bianco dello schermo, se preferisci) sono quelle di Kyrie Irving, Kevin Love e DeMar DeRozan. Tutti e tre evidentemente impreparati (chi lo è veramente?) a gestire il turbinio della pressione e dei giudizi dell’epoca contemporanea, ma solo uno indicato come il capro espiatorio, il pagliaccio, il coglione.
I tre ci dicono la stessa cosa. A due decidiamo di credere, al terzo no. Come mai?

Kyrie fa troppo bene il suo lavoro per non avere lati oscuri? È un cestista troppo bello e baciato dal talento per potersi permettere di fare delle cazzate? Evidentemente sì. Lo tratti, come colpevolmente qualche volte ho fatto anche io, come un simulacro intoccabile, un idolo, un’icona intangibile. Un modello che lui deve obbligatoriamente essere in quanto uno tra gli atleti più pagati del mondo, un esempio senza macchia e senza paura. Ma quando è Kyrie stesso a dire che “ognuno è in diritto di fare ciò che ritiene meglio per sé”, sei ancora autorizzato a incolparlo?
È lui che te lo dice. Te lo urla. Guarda che non sono in grado, non sono capace. Devo praticarmi una dose di anestetico etico per poter sopravvivere. Posso essere un’ispirazione per mille cose ed essere criticabile per mille altre. Così come io attingo convinzioni, ideali, principi da universi lontani e incomunicabili, prova a farlo anche tu. Giudica le scelte che una persona prende, senza però giudicare la persona che tu immagini che sia.
Favorire la diffusione di documentari che giustificano e sostengono teorie antisemitiche è una scelta giusta? Ovviamente no. Sulla questione vaccini e Covid-19 preferisco non aprire la parentesi perché rischierei di essere condizionato dalla mia storia personale. Non mi sembra il caso di “pesare” chi o cosa uno ha perso in questi ultimi anni e quello che uno avrebbe o non avrebbe dovuto fare per apparire meno egoista o stronzo. Dichiarare a mezzo stampa che un’intera franchigia NBA è nelle mani tue e di un tuo compagno di squadra è accettabile? Chiaro che no, trasuda un egocentrismo che aborro. Posizioni razziste, obsolete, antiscientifiche, lunatiche, indiscutibilmente problematiche. Ma pur sempre posizioni, opinioni.
A Kyrie non crediamo più. Al lupo, al lupo: troppe occasioni buttate al vento. Mi ci metto di mezzo anche io, che non faccio mai abbastanza per invitare a relativizzare e a non estremizzare. A Kyrie non crediamo perché pensiamo che lo faccia apposta. Mostra tutte le sue facce, e quelle oscure son quelle che fanno più paura. Non fa nulla di nascosto, tutto alla luce del sole: se avesse mantenuto certi silenzi, gli avremmo perdonato certe cose? Non gli abbiamo concesso di fallire l’esame da maschio alpha in quel di Boston, dopo aver richiesto la trade da Cleveland per brillare di luce propria e non di quella riflessa da LeBron.
Perfetto: ha provato a scalare l’ultimo gradino, non riuscendoci, né in Massachusetts né in New York né ora in Texas. Ma non hai criticato tu stesso tutti quei veterani che strisciano come zombie dopo la trade deadline in cerca di un buyout, per mettersi un anello al dito da 12esimo di rotazione? Non è letteralmente l’atteggiamento opposto? Allora non ti va bene un cazzo. Lo dici, lo ammetti, e la chiudiamo qui.
Irving si comporta come un enigmatico attaccabrighe, un coglione impaurito dalla sua stessa ombra, forse affezionato a sostanze psicoattive che ne minano credibilità e autorità. Vorrei però farti pensare a quel come. Kyrie, e nessuno al mondo, è in assoluto. Siamo tutti come. Siamo come, nel singolo giudizio. Altrimenti sei schiavo del pregiudizio, ignorando che il mosaico è costituito da migliaia di milioni tessere. Quante ne bastano per mandare tutto all’aria? Un centinaio?
Deve far la fine di Delonte West per suscitare compassione, per ricevere quel sostegno emotivo che chiede da anni? Attenzione: non sto parlando di tutela economica o giuridica. Per quelle bastano una palla da basket e il ruolo di vicepresidente dell’NBPA. Posso azzardare una cosa? A Kyrie, dei soldi e dei contratti, frega relativamente. Farebbe cambio con anche solo una persona che lo capisca e gli dia fiducia per davvero? E tu?
Chiedilo ai bambini della scuola in Ghana, alla famiglia di due persone morti in un incidente stradale in Texas, alla tribù Standing Rock Sioux in North Dakota, alla moglie e ai figli di George Floyd, alle cestiste della WNBA e agli studenti della Lincoln University. Chiedilo a loro cosa ne pensano di Kyrie.
Chiedilo alla comunità ebrea di Brooklyn, a chi ha perso un figlio per non aver avuto accesso a una dose di Pfizer o di Moderna, a chi aveva scommesso $1.000 sui Nets vincitori dell’NBA 2022/2023. Chiedilo a loro cosa ne pensano di Kyrie.
E magari realizza insieme a me che le antitesi di uno il cui nome è un’invocazione greca alla divinità e il cui datore di lavoro ha come soprannome “Eterodosso” (spannometricamente tradotto) non possono congiungersi in una sintesi. Non ci riesce lui, figurarsi se possiamo imporglielo noi.
Per quel che vale, per lui in primis, oggi il terrapiattista nato in Australia compie 31 anni.
P.S. Ho cercato di non includere nessun termine legato alla salute mentale, a eccezione delle citazioni riportate. Più che il virologo, il geopolitologo o l’allenatore, una delle professioni esercitate dal divano che provoca danni più gravi è lo psicologo.