Storia di un talento straordinario, arrivato tra i professionisti troppo in anticipo: Jamal Crawford, il traghettatore che ha accompagnato la NBA dal vecchio al nuovo millennio, con un’anima di strada che una carriera ventennale non è riuscita minimamente a smorzare.

© Ian Allen

9 aprile 2019.
Nell’ultima gara stagionale tra le due peggiori squadre della Western Conference, Phoenix è ospite dei Dallas Mavericks, stretti attorno a Dirk Nowitzki per quella che sarà la sua ultima partita da giocatore di pallacanestro. Il tedesco, motivato dall’occasione, dà vita alla sua miglior prestazione stagionale, un trentello pulito in 32 minuti d’impiego, uno sforzo extra necessario per permettere a tutti i presenti all’American Airlines Center d’immagazzinare più ricordi possibile.I Suns quella sera hanno il ruolo di puro sparring partner: oltre all’occasione celebrativa, sono di gran lunga la peggior squadra della Lega, con 19 vittorie raccolte alla fine dell’anno. Basti leggere lo starting 5 di quella sera: Ray Spalding, Elie Okobo, Dragan Bender, Josh Jackson e il rookie Mikal Bridges… Ma dalla panchina, come ha fatto per metà della sua carriera, esce un ex-giovane ormai prossimo ai 40 anni che, nella notte di Wunderdirk, finisce per prendersi il palcoscenico.


18/30 dal campo, 13/16 nel solo secondo tempo di cui 7/13 da 3 punti, per un totale di 51 punti, il più anziano di sempre a superare tale quota e l’unico a farlo con quattro maglie diverse: è il colpo di coda della parabola professionistica di Jamal Crawford, che al termine di una stagione a dir poco anonima ricorda al mondo intero che razza di giocatore sia stato per vent’anni. Non è un caso che la seconda miglior prestazione della sua carriera sia arrivata di fatto all’ultima partita prima del suo ritiro. Jamal è semplicemente nato troppo presto.

Quando sono entrato nella Lega, all’inizio del nuovo millennio, il peggior tiro che potevi prendere era un tiro da tre dal palleggio: ti era concesso solo allo scadere dei 24, in emergenza, se lo prendevi prima ti conveniva metterlo o finivi in panchina di corsa. Vent’anni dopo eccoci qua…

Il campionario di skills di J Crossover riempirebbe un’enciclopedia: il definitivo “hooper’s favourite hooper”, che come dice il suo soprannome ha fatto un’arte del lasciare l’avversario sul posto con un cambio di direzione, di qualsivoglia natura. Ha lasciato ai posteri una signature move, lo shake ‘n bake, spesso fatto in campo aperto, al massimo della velocità, che raramente si è visto replicare con efficacia dai suoi omologhi nella storia del Gioco.
Il suo incedere e il suo ball handling avevano un che di pugilistico, suscitavano cioè nel difensore la necessità quasi fisica di reagire alle sue giocate: era in quel momento che Jamal sfruttava l’inevitabile apertura di uno spiraglio, andando così a chiudere al ferro con un floater o capitalizzando con un stilosissimo arresto e tiro. Era uno di quei giocatori la cui eleganza sembrava immatricolata nel suo DNA, innata; al massimo condizionata dai suoi modelli e dagli anni passati nei playground di Seattle, la città che – in rapporto al numero di abitanti – ha donato più atleti al basket professionistico.


Vengo dal basket di Magic, Zeke, MJ, e poi quando ero più grande l’And 1 Mixtape Tour e ovviamente Iverson, la mia più grande ispirazione. A.I. è stato un modello generazionale per noi, ci ha insegnato che essere se stessi non solo è accettabile, ma è doveroso.


Ogni singola azione della sua carriera ha trasudato amore per il gioco che, come detto, era nato per strada. Una strada che gli ha lasciato addosso una traccia assolutamente indelebile. L’approccio da playground spesso viene frainteso con la volontà di essere spettacolare in modo fine a se stesso. In realtà, nel caso di Crawford, era nella mentalità, quella di non arretrare mai davanti all’avversario, di sfidarlo a viso aperto, cercando di metterlo in imbarazzo, sempre con l’acceleratore schiacciato e un’aggressività atavica.
Tutte caratteristiche che difficilmente possono nascere in una palestra, con un trainer personale ed esercizi canonici di perfezionamento: il grande motore è l’immaginazione, le pick-up games e, come Iverson insegnava, la volontà di esprimersi liberamente, cascasse il mondo. Un cavo teso tra la strada e il parquet.

Ho avuto più di 20 allenatori in tutta la mia carriera: c’era chi voleva farmi giocare da PG, chi da SG, chi voleva farmi partire titolare, chi dalla panchina… Alla fine la cosa di cui vado più fiero è che nonostante tutti i cambiamenti attorno a me, il mio gioco non è mai cambiato, non mi sono mai snaturato.



Il suo talento comincia a farsi notare già ai tempi del liceo, Rainier Beach High School, una di quelle scuole pubbliche in cui i genitori non vogliono mandare i propri figli, ma che ha prodotto una quantità sconvolgente di giocatori NBA: oltre a Jamal, Doug Christie, Nate Robinson, Kevin Porter Jr., Dejounte Murray solo per citarne alcuni. Dopo un solo, brillante anno di college a Michigan, sbarca tra i professionisti, scelto all’ottava chiamata del Draft 2000 da Cleveland, che lo gira immediatamente ai derelitti Chicago Bulls. L’era post Jordan è iniziata in modo piuttosto traumatico a Windy City, con una squadra giovanissima, senza una guida sicura, lasciata alla sbando: la ricetta perfetta per il disastro. Un ambiente così complesso per un rookie rischia di essere letale e quante sono le storie di talenti persi per strada per essere finiti nel sistema sbagliato. Nonostante il cantiere-Bulls e diversi infortuni, arrivato al terzo anno da professionista Jamal riesce finalmente a giocare con un po’ di continuità e qualità.

L’episodio più importante del mio periodo a Chicago è stato quando MJ venne a trovarci in palestra per giocare una partita. Alla fine mi disse ‘You got game’. Da quel momento nella mia testa c’è stato uno switch: il più grande di sempre mi ha detto che sono speciale, nessun coach o GM o giornalista potrà convincermi del contrario.



Ma proprio quando comincia a mostrare sprazzi del suo infinito talento, finisce in un’altra polveriera, quella per antonomasia della NBA degli ultimi 30 anni: i New York Knicks. Arriva nella Grande Mela nell’estate del 2004, un anno dopo aver incantato il Rucker Park di Harlem dove, su invito di Jay-Z, dimostra come il professionismo non abbia minimamente scalfito i tratti primordiali della sua pallacanestro. Su quel cemento compie una giocata che lascia tutti a bocca aperta e che gli donerà il soprannome di True Essence; qualche mese dopo, al Madison Square Garden, True Essence viene rievocato.

Un cavo teso tra la strada e il parquet, dicevamo. A NY trascorre quattro stagioni in cui succede di tutto e niente al tempo stesso, in cui gli aneddoti divertenti superano di gran lunga i momenti sportivi memorabili: cambiano 5 allenatori, Lenny Wilkens, Herb Williams, Larry Brown, Isaiah Thomas – che passa dagli uffici alla panchina con risultati rivedibili – fino a una manciata di gare sotto la gestione Mike D’Antoni. Passa dal suo career-high di punti – 52 contro Miami – alla rottura del legamento crociato anteriore. A suo stesso dire sono gli anni più divertenti della carriera – soprattutto per aver condiviso lo spogliatoio con altri animali mitologici della sua stessa “specie” come Stephen Marbury, Steve Francis, Nate Robinson o Eddy Curry – si consolida come giocatore NBA riconosciuto e riconoscibile, ma dopo quasi 9 stagioni non ha ancora disputato una singola partita di Playoffs. Nel 2009 dopo una breve ma divertente esperienza ai Warriors di Don Nelson, sbarca ad Atlanta, fortemente voluto da coach Mike Woodson, che per la prima volta sembra avere un piano preciso per lui: partire dalla panchina, contando sul fatto che nelle second-unit della Lega nessuno possa contenere il suo debordante talento offensivo.

All’inizio ero destabilizzato, in pratica non ero mai partito dalla panchina nella mia vita, ma alla fine a me interessava solo vincere e dopo tanti anni di delusioni ero pronto a qualsiasi cosa per farlo, anche diventare un sesto uomo.

È davvero il turning point della sua carriera. Nelle due stagioni in Georgia – in cui non parte titolare in nessuna delle 178 partite che disputa tra RS e Playoffs – il suo talento indubbio si tramuta finalmente in efficienza offensiva: s’insinua come un fluido corrosivo negli ingranaggi della partita, cambiandone il ritmo e capovolgendone l’inerzia. E la squadra ne giova.

Nel 2010 arriva anche il primo dei tre Sixth Man Award che riceverà in carriera e nonostante alcuni grandi nomi lo avessero ricevuto prima di lui – Ginobili su tutti – con J Crossover si ha l’impressione che il riconoscimento diventi più popolare, più desiderabile. Se con gli Hawks si affaccia per la prima volta al palcoscenico più ambito dai professionisti NBA, è nei 5 anni ai Clippers, dal 2012 al 2017, che Crawford trova la definitiva consacrazione come specialista della second-unit in una squadra che entusiasma per spettacolarità e con la quale rompe – in parte – la maledizione che voleva la seconda squadra di Los Angeles come eterna barzelletta. Sulle solide fondamenta gettate da Vinny Del Negro, gli uomini di Doc Rivers, in quel quinquennio, sembrano poter diventare il volto più scintillante dell’intera NBA, grazie alla leadership di Chris Paul, la potenza devastante di Blake Griffin e i contributi fondamentali di JJ Redick, DeAndre Jordan e lo stesso Jamal, che trova nel sistema di Lob City quello che forse più gli si addice da quando è tra i professionisti.


Ho sempre pensato che quella squadra fosse una delle più forti a non essere riuscita a vincere, o quantomeno arrivare alle Finals. Abbiamo eliminato gli Warriors in ascesa, abbiamo eliminato gli Spurs campioni in carica, avevamo tutto per farcela, ma tra i problemi fisici di Chris e Blake e sfortune varie non ci siamo riusciti. È un grande rimpianto, ma ho amato ogni singolo momento vissuto in quella franchigia.


Il picco più alto – e forse la caduta più fragorosa – degli anni di Lob City si raggiunge con le Western Conference Semifinals del 2015. La sera del 10 maggio i Clippers lasciano lo Staples Center sul 3-1 nella serie dopo aver banchettato sui Rockets, vincendo per 128 a 95 con un DeAndre Jordan che, con un Dwight Howard limitato da problemi di falli, ha dominato in lungo e in largo. Il primo match point della serie in Texas viene annullato da Harden e i suoi, comprensibilmente scottati dalla sconfitta di due giorni prima. Per gara 6 si torna in California e i cugini sfigati dei Lakers, stavolta, sembrano davvero pronti per l’appuntamento con la storia, dato che al tempo mai erano arrivati a penultimo scoglio. A metà del terzo quarto Crawford e compagni sono +19, in totale controllo, con i Rockets in evidente stato confusionale e che sembrano non avere neanche le risorse psicofisiche per rientrare nella gara. Invece di attentare alla giugulare dell’avversario, però, gli uomini di Rivers sembrano interessati più a gestire il vantaggio conseguito.


Risultato? A quattro minuti dalla sirena finale, con Harden rimasto in panchina, trascinati da Brewer, Ariza e un sontuoso Josh Smith, Houston impatta a 102.

Alla fine il risultato dirà 119-107 per i Rockets, che due giorni dopo controlleranno una gara 7 che i Clippers non erano palesemente pronti ad affrontare da un punto di vista psicologico dopo il clamoroso tracollo della precedente sfida. Nonostante altre due stagioni ad alto livello a L.A., di fatto quello è il canto del cigno per Crawford, fino alla clamorosa partita di Dallas dell’aprile 2019. Dopo aver giocato 6 minuti nell’anno del Covid coi Nets – e non essersi ufficialmente ritirato per le successive due stagioni – il 21 marzo del 2022 Jamal dichiara definitivamente chiusa la sua carriera da professionista.

“Goodbye to the game, all the spoils, the adrenaline rush”, citando le parole del suo caro amico Jay-Z nell’epico brano December 4th. Per Jamal il Gioco è la pallacanestro; per il rapper newyorkese era lo spaccio di cocaina e crack, con la canzone che racconta le transizioni tra le varie fasi della vita, che l’hanno portato dalle Marcy Houses a un patrimonio netto di quasi 3 miliardi di dollari secondo Forbes. Un addio più à la Jamal Crawford di cosi non poteva esserci.