La milestone del top scorer di tutti i tempi fa un certo effetto, ma come tutti i grandi prima di lui, LeBron ha cambiato il cambiamento. Ed è stato usato contro di lui.

Nella mitologia greca i titani sono gli dèi più antichi, nati da Gea e Urano, ovvero cielo e terra. Prometeo è uno di loro, ma a differenza degli altri è amico degli umani. L’amicizia gli farà prendere un rischio, quello di rubare a Zeus il fuoco per dare conforto ai suoi suddetti amici. Come prevedibile, il grande capo non la prese bene, e gli conficcò nel corpo una colonna che lo tenesse bloccato nel punto più alto del Caucaso, esposto alle intemperie e con un’aquila che gli dilaniasse il fegato per l’eternità; solo in una tragedia perduta di Eschilo, Prometeo viene liberato da Eracle, dopo che quest’ultimo aveva ucciso con una freccia la sadica aquila.

Chi sia Eracle in questa metafora a tema NBA, dobbiamo ancora capirlo. Eppure Prometeo, o in questo caso LeBron James, è stato liberato, salvo poi fronteggiare altre problematiche. Ma partiamo dall’inizio.

Da Chamberlain a James, mezzo secolo di cambiamento

Nella storia NBA tutti i grandi hanno lasciato qualcosa di oltremodo concreto, tangibile. In epoca risalente, Wilt Chamberlain costrinse la Lega a cambiare le regole per tiri liberi e rimesse, destino comune per forza di cose ai lunghi, dato che decadi dopo l’hack-a-Shaq riporterà un caso in qualche modo simile alle cronache. Larry Bird invece, che andava preservato come un originale tesoro del New England ben prima di quello trovato nei primi 2000 da Nicholas Cage, riuscì insieme alla dirigenza dei Celtics a far coniare e codificare la Bird Rule, quella relativa ai rights per cui si può uscire dai rigidi schemi del salary cap laddove si detengano questi diritti. Micheal Jordan, infine, fu una rivoluzione culturale, quella dell’ultracompetitività oggi tanto abusata, contestata e rivisitata, che è magistralmente esposta nell’instant classic The Last Dance e ha permesso per la prima volta e quasi senza intermediazioni ai giocatori di commerciare la propria immagine, fino a renderla culto assoluto.


LeBron non ha fatto, consapevolmente o meno, nulla di tutto questo. Niente regole apposite – forse al massimo per la temperatura delle arene – niente modifiche al contratto collettivo e, ad oggi, nessun documentario tanto apologetico quanto dittatoriale. Ha cambiato, però, il sistema da dentro, già nel 2003 e quindi neanche ventenne. E prima di cambiare il gioco, come ci insegnano i bracket degli ultimi 15 anni, LeBron ha cambiato il cambiamento.

Team USA nel 2006 ha uno dei suoi momenti più bassi: concluderà al terzo posto il mondiale in Giappone, ma è un primo incontro formale tra il Nostro, Dwyane Wade e Chris Bosh. Arrivati tutti e tre, la crema della classe Draft 2003, al momento della prima estensione contrattuale, decidono per un quadriennale, di modo da essere free agent insieme nel 2010. Questo ha avuto ovviamente una reazione a catena per cui lo spazio salariale è diventato l’asset più importante, ed ogni parola, ogni gesto di LeBron era sottoposto ad accurate analisi da improvvisati Cremlinologisti.

In seguito c’è stato il cambiamento mediatico, a partire da The Decision, format che ha aperto la strada del racconto sportivo senza intermediazione, a istituzioni come le conosciamo oggi come The Players’ Tribune e The Uninterrupted, di proprietà dello stesso James. Due binari, dunque: l’uso strategico della lunghezza dei contratti per aumentare la propria leverage, e quello mediatico, con un obiettivo comune, ovvero controllare la narrativa.

Che LeBron sentisse l’atavico dovere di vincere for the Land, l’ha dimostrato. Ma aveva concesso sin troppo tempo ai piani alti dei Cleveland Cavaliers, non avendo in cambio mai la tanto agognata competitività. Il piano B di un ragazzo appena ventenne si era dimostrato oltre che funzionante, necessario. E poi gli è sfuggito di mano.

Nowitzki, Boston, Popovich, Durant e le altre fatiche del Prescelto

Se è vero che a pallacanestro si gioca in cinque, ed è vero che negli States la narrativa pesa molto, è ancor più vero che il livello tattico sull’hardwood sposta. Nella sua carriera il Nostro si è trovato davanti avversari d’ogni tipo, ma è stato lui stesso a indicare il corso della Lega, dei valori al Draft, a far valutare quale allenatore poteva definirsi moderno e quale no.

Aldilà della prima apparizione alle Finals, una delle più impari di sempre nel 2007 contro San Antonio, il percorso del Re ad Est è stato sempre abbastanza netto. L’anno successivo al secondo turno i Celtics passarono senza troppi patemi in sei gare, contro dei Cavs sprovvisti di una seconda opzione offensiva all’altezza. Nel 2009 si torna alla finali di Conference, ma Stan Van Gundy pare aver creato una macchina da guerra perfetta, che ricorda la testuggine romana costruita attorno ad un Dwight Howard durato davvero troppo poco. Ed è l’ultima goccia.

Best call nella carriera di James, grazie Kevin Harlan

E’ arrivato il momento di cambiare: i Big Three si compongono raggiungendo Wade a South Beach, un giovane Erik Spoelstra – che ha iniziato in quell’organizzazione come assistente all’analisi video – siede in panchina e l’orchestra è guidata da Pat Riley. Una delle vittorie più annunciate nella storia dello sport, e infatti in quattro anni arrivano altrettante Finals e due trionfi. Ma rimanendo in campo, cosa è cambiato? Molto semplicemente, il numero di possessi.

Nei Celtics, LeBron aveva trovato una squadra dai ritmi contenuti, capace tanto di punire in transizione quanto di cercare sempre il tiro migliore grazie al predominio in ogni zona tematica: la regia di Rondo, la capacità d’isolamento di Pierce, il possesso del pitturato di Garnett. In panchina c’era Doc Rivers – un altro che dal cambiamento in questione non ha tratto particolare giovamento, aldilà dell’infortunio di Paul e di quanto accaduto nella bolla – che con la sua ice defense aveva tagliato fuori ogni speranza dei Cavaliers ancora prima di iniziare la serie, dacché una squadra che gioca con contemporaneamente Varejao e Iligauskas ha poco da guadagnare contro una difesa il cui obiettivo è limitare il campo d’azione. Questo volendo dare una spiegazione che vada oltre il clamoroso dislivello tra i singoli a roster.

L’anno successivo la prospettiva si ribalta: Van Gundy e i suoi Orlando Magic guidati da un Howard in versione Superman sono clamorosamente avanti rispetto al loro tempo. Complice l’infortunio del lungo Tony Battie, Van Gundy insierisce in quintetto Rashard Lewis, uno dei primi stretch four della storia; e il resto è effettivamente storia, perché grazie alla gravity del #12 ogni raddoppio, tag, o anche accenno di aiuto al post – alto o basso che fosse – porta ad una tripla aperta. Fece scalpore all’epoca il record segnato sul parquet di Sacramento di 22 triple in una partita, superato solo nel 2017 dai Rockets di James Harden e Mike D’Antoni. Non c’era semplicemente partita sul lato offensivo per i Magic, mai capaci di contenere il nativo di Akron ma con gioco facile nell’annullare uno dei suoi lunghi ogni partita, anche tenendoli fuori dal campo perché costretti a navigare oltre le loro acque territoriali.

E’ ironico ripercorrere oggi questa storia, ripensare che 14 anni fa il problema di LeBron era il pace degli avversari. Ripensare ai toni di tradimento, corruzione e tragedia usati in ogni dove per il trasferimento a Miami. Non c’era la benché minima idea di cosa sarebbe successo da lì a poco.

Contro Nowitzki, coach Carlisle e quei Dallas Mavericks, LeBron ha avuto un chiaro avvertimento dal destino: hai rovesciato un regno, quello dei lunghi dominanti e dei piani offensivi decisi in difesa. Fondamentalmente, hai rotto Boston, e non sei più confinato e solo in Ohio. Ora c’è una nuova montagna, e dopo questa ne verrà una tanto simile quanto più irta di pericoli.

Se è vero che i titoli non si contano ma si ponderano, è anche per campagne come quella dei Mavs 2011. Un roster pieno di delinquenti redenti e trafficanti di perle ormai all’ultima occasione, quali Jason Terry, Jason Kidd, Peja Stojakovic, e poi la sagacia difensiva di Shawn Marion e Tyson Chandler. Per arrivare alle Finals, eliminano i Lakers di Kobe e i primi Thunder da post-season. In Gara 4, Dallas tra le mura amiche torna sul 2-2, e non si fermerà fino all’anello.

Quella sera LeBron ne segna 8, con 3/11 dal campo. E’ un momento da lui stesso definito fondamentale, nel quale trova nuova linfa e consapevolezza di ciò che davvero serve. Da qui in poi, paradossalmente, non lascerà alcun argomento ai detrattori, se non in malafede o per critiche opposte rispetto a quelle di questo periodo, ovvero sull’incapacità di costruirsi attorno una squadra per vincere. Molto ironico, ancora.

Anche questi Mavs, comunque, erano una squadra dal ritmo alto, capace di avere una controffensiva al livello dei Big Three con Nowitzki e con un Kidd che ha imparato giusto in tempo per la sua redemption a tirare dall’arco. Ritmo alto, tiro da tre, il tormentone continua.

Nei due anni successivi, non ce n’è per nessuno. Boston va giù di nuovo, la Oklahoma City dei giovani Westbrook e Durant deve fare strada, i Big Three si prendono ciò che spetta loro e si preparano a quello che sarà in back-to-back uno degli scontri più belli a livello tecnico, tattico e narrativo della storia della Lega, contro i San Antonio Spurs.

Nel 2013, LeBron e Miami vincono in sette gare, con il tiro epico di Ray Allen in Game 6; nell’anno successivo invece devono arrendersi al Beautiful Game, con una sconfitta netta per 4-1. Gli Spurs sono la prima squadra che riesce a mettere in seria difficoltà Miami sul lato difensivo, dove fino a quel momento era stata dominante. In fin dei conti, uno scontro tra titani, un livello davvero alto, e un titolo per parte.

E’ forse il momento più intenso della carriera del Nostro, che decide di tornare a casa per compiere il proprio destino, per risollevare la terra che l’ha cresciuto.

Il fuoco rubato

Prometeo, dunque. La sua pena, come si diceva, era quella dell’aquila a mangiargli il fegato, autorigenerante di notte. Il Nostro non ha mai provato questo, ma affrontare per quattro Finals consecutive i Golden State Warriors alle Finals, di cui una senza Love e Irving, e due con l’aggiunta di Durant dall’altra, deve essere stata un’esperienza simile.

Arrivati al 2015, un anno prima dell’opera magna di James, ormai la Lega rispetto a meno di un decennio prima ha cambiato completamente volto. Il tiro da tre ha una concezione quasi al livello di quella attuale, i centroni à la Varejao sono spariti perché non possono fisicamente stare al passo, e – quasi – tutti sono giunti alla conclusione che per reggere il confronto col nativo di Akron o con gli astri nascenti della Baia, l’unico modo è alzare il numero di possessi.

E’ proprio in questo momento che è chiaro a tutti: il fuoco rubato da LeBron è stato usato contro di lui. Nella sua Miami è stato il motore: chiedersi se James renda migliori i suoi compagni o li pieghi a quanto gli serve per essere decisivo in ogni possesso, è come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina. Il senso di ogni attacco, senza semplificare, è quello di creare un vantaggio e mantenerlo; LeBron è automatico in questo, e sin dal primo anno a Miami ha le armi per contare sul tabellone ogni secondo che passa sul campo. Eppure dopo i Magic, e dopo gli Spurs – arrivati alla terra promessa su un percorso molto diverso, ma con basi simili nelle intenzioni – qualcun altro ha riprodotto la teoria degli 0.5 secondo in cui decidere se passare, tirare, attaccare.

Steve Kerr è chiaramente un personaggio da California del Nord, un hippie aziendale con valori solidi, ma non è questa la sede per tesserne le lodi. Fatto sta che il Re ha dei nuovi pretendenti. Fino a quando questi – sin dall’inizio più belli e sensati dei proci, per rimanere in tema – non riescono a convincere un deluso KD ad unirsi a loro.

La mossa del nativo di Washington fa impallidire The Decision, e la storia ha dato il colpo di grazia segnando un titolo Warriors prima del suo avvento e uno dopo la sua partenza. Ma aldilà di queste valutazioni, LeBron deve subire la prima bruciatura dal suo stesso fuoco.

La seconda arriva nel 2018, quando è proprio la struttura del contratto di LeBron a dare leverage a Irving nella sua prima richiesta di trade in carriera: il Re aveva un anno rimanente e una player option, quindi massimo potere contrattuale con i Cavs ma anche una finestra di contention ridotta. Scambiare Kyrie era dunque un’ovvia opzione, che ha significato, fondamentalmente, un anno in meno nel prime di James.

Kareem Abdul-Jabbar e il record di top scorer: un coronamento inatteso

Il paragone è obbligato, perché non c’è stato semplicemente un passaggio di consegne, ma sono gli unici due per – grande – distacco ad essere arrivati così in alto, e davvero non si vede chi e quando potrà riavvicinarli; d’altronde LeBron sarebbe nato circa nove mesi dopo il sorpasso di Jabbar su Chamberlain, il cui record è durato solo 11 anni. Eppure, è profondamente sbagliato.

Certo, non si raggiunge un risultato del genere se non con una grande, custodita, studiata e irraggiungibile longevità. Non è questa la sede del GOAT debate, ma l’unico atleta più longevo del Nostro è Tom Brady, che recentemente ha subito la chiamata di Padre Tempo e comunque lo ha fatto a 44 anni, in uno sport dove non a tutti gli effettivi è richiesta la stessa mobilità. Qualcuno si sente di fare una previsione su quanti anni di NBA sono rimasti al Re? Figurarsi se può dirsi o no se verrà superato, considerando che per battere Jabbar ci è voluta l’introduzione del tiro da tre, oltre a 38 anni malcontati.

Venendo al campo, il tiro creato, perfezionato e griffato da Jabbar, lo skyhook (gancio-cielo), lo rendeva efficace tanto a 20 anni quanto a 40. Per citarlo: “Non devi sapere dov’è la palla. Devi tenere gli occhi sul canestro, ma non devi tenerli sulla palla”. E ciò comunque va aggiunto ad un amore per la difesa che gli valse ben undici All-Defensive Teams.

Il sorpasso di James è reso assurdo principalmente da due fattori: in primis, stiamo parlando di un facilitator naturale, che più volte si è definito pass-first ed è infatti quarto all-time per assist. Un giocatore che può essere – e spesso è stato – il miglior difensore possibile per tutti e cinque gli avversari, il miglior rimbalzista, il miglior passatore e – a ragion veduta – il miglior scorer. Completezza totale, ma senza mai smettere di segnare.

Il secondo fattore è quanto il suo gioco si declini con e attraverso l’esplosività, la forza di attaccare il canestro, non perdere mai il controllo e la capacità di essere verticale quanto i lunghi. Caratteristiche che tendono a scendere con l’età. Si diceva che i suoi difetti venissero dalla mancanza di gioco in post e tiro da tre – inserito nella Lega 10 anni dopo l’esordio di Jabbar: sono esattamente le aree su cui ha lavorato di più nell’ultimo lustro, con ottimi risultati.

Ora si tornerà a parlare di come due estati fa i Lakers si siano condannati alla mediocrità, dell’integrità fisica di Davis e delle trade degli ultimi giorni per finire bene la stagione. Prima, però, questa milestone va apprezzata, va goduto il momento, va ricordato il percorso e celebrato uno degli atleti migliori del secolo. Perché, ancora una volta:

We Are All Witnesses.