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Dopo la beffa il danno. Un vecchio adagio ribaltato e adeguatamente corretto può forse spiegare meglio di mille analisi lo stato d’animo e lo stato delle cose a Sixerlandia, nell’immediato post dell’arrivo di Harden ai Nets.

Ci proviamo, comunque. Facciamo un passo indietro, innanzitutto. Nel pomeriggio del 13 gennaio scorso, il tam-tam dell’etere moderno, meglio conosciuto come Twitter, comincia a cinguettare che i Sixers starebbero per concludere lo scambio con Houston – per portare a casa James Harden – incentrato sulla contropartita di Ben Simmons, Matisse Thybulle, forse Tyrese Maxey, più alcune imprecisate prime scelte. È Mark Stein del New York Times a riportarlo, c’è da crederci che ci fosse dell’arrosto nascosto dal fumo.


Passa un po’ di tempo, un niente per la teoria della relatività di Einstein, e dagli stessi tamburi, stavolta suonati da The Athletic e poi ESPN, parte una nuova breaking news che smentisce, o meglio, supera la precedente. James Harden è dei Brooklyn Nets, a seguito di una mega-trade, che coinvolge quattro franchigie, che manda otto tra prime scelte e diritti di swap a Houston insieme a Victor Oladipo e altri, Caris LeVert a Indiana, Jarrett Allen a Cleveland, varie ed eventuali a seguire. Gioco, partita, incontro Nets. La bomba è esplosa, l’NBA è cambiata.

L’esplosione è fortunatamente solo metaforica, però poi come per quelle vere i reporter arrivano sul luogo, cosa è successo, chi ha vinto, chi ha perso, chi è rimasto (illeso o meno) sotto le macerie? Ok, ci fermiamo qui con la metafora.

A vincere sono stati i Nets, dicono i più – vedremo in futuro se avranno ragione – con lui si prendono un top-5, forse anche di più, ancora nel suo prime e lo aggiungono a Kevin Durant e Kyrie Irving. Preparate i fuochi d’artificio, non aspettate l’Independence Day. Brooklyn diventa automaticamente una contender. Una delle squadre più forti all-time. Beh questo, tutto da dimostrare.

A vincere sono stati i Rockets, dicono altri – meno numerosi, invero – in fondo tutti sapevano che il Barba voleva andarsene, ed essere riusciti ad assicurarsi scelte, che magari non nell’immediato, ma nel medio periodo, avranno un valore adeguato, insieme a Oladipo – pedina di scambio preziosa – è comunque una medaglia che il management di Houston può appendere al collo, di che metallo vedremo poi.

A vincere sono stati i Cavs e i Pacers. Massimo risultato con il minimo sforzo, essere collaborativi paga. Con un grande in bocca al lupo a Caris LeVert, dita incrociate ragazzo.


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E Philadelphia? Ah dimenticavo, anche loro erano seduti a quel tavolo, anche loro sembra avessero la mano vincente, e poi. E poi niente.

Chissà, forse ha ragione chi dice che mai Ben Simmons sia stato messo sul piatto (uhm), che Maxey era un sacrificio troppo grosso, che le scelte richieste erano tutte le prime fino (chissà) al 2050 o che Tilman Fertitta – proprietario degli Houston Rockets – avesse posto il veto a qualsiasi trade con Daryl Morey, fosse stato pure per tutto il quintetto base di Philly. Ma allora, in questo caso, di cosa stiamo parlando?

Magari i Sixers sono stati solo usati per alzare il prezzo e Harden voleva solo i Nets. Magari hanno tutti ragione – come scrive Paolo Sorrentino – nessuno ha torto, ma nella città dell’Amore Fraterno, quello strano pomeriggio aleggerà come uno spettro per molto ancora. Le ramificazioni della mancata trade avranno delle conseguenze. Oh sì, che ne avranno.

Prima conseguenza. Le prospettive di vittoria dei Sixers al termine di questa stagione, o quantomeno nel breve periodo. Mettere il segno meno.

Intanto tra le pretendenti al titolo salgono vertiginosamente le quotazioni di Brooklyn, come già detto. Un terzetto difficile da amalgamare, un supporting cast tutto (o quasi) da inventare, ma è indubbio che la potenza di fuoco che i Nets metteranno in campo da ora in poi sarà difficilmente contrastabile. Quante squadre, specie ad Est, hanno un assetto difensivo capace di depotenziare quel trio? Composto – ricordiamolo – di giocatori talentuosi, ma anche estremamente intelligenti, cestisticamente parlando, s’intende.

Nella lotta per il predominio sulla Eastern Conference, oltre che da Milwaukee e Boston, per non parlare di Miami, da ora in poi si dovrà passare anche per il Barclays Center. Anche solo per stare tra le prime quattro ci sarà da lottare, eccome.

Poi è evidente che i Sixers, seppur migliorati dagli arrivi di Seth Curry e Danny Green, dalla confermata emergenza di Shake Milton e finanche dal sorprendente contributo con la palla in mano di Tyrese Maxey, rimangono una franchigia con degli evidenti difetti di fabbrica, lungi dall’essere ancora superati. Resta tuttora irrisolto l’enigma della guardia tiratrice, con punti nelle mani, in grado di risolvere dal palleggio, quando le maglie si stringeranno, quando il pallone peserà come un macigno, quando si invocherà il clutch-player. Qualcuno di voi lo ha visto a Philly?

Ben Simmons, sembra essere in un limbo. Non più quel promettente giocatore, precoce e meritata All-Star, delle ultime due stagioni, ma un player a tratti involuto, ancora timido nelle conclusioni da lontano, per niente migliorato in quelle al ferro. Attento e concentrato sul fronte difensivo, quanto incerto in fase di costruzione. Nel dubbio, provate a contare le palle perse. Gli avversari sembrano avergli preso le misure.

Non ha aiutato di certo tutto il balletto sul suo nome, checché ne dica lui stesso. Gole profonde vicino alla squadra riferiscono che nell’imminenza dello scambio – mai perfezionato – sia Simmons che Thybulle siano stati informati di quello che stava accadendo, per prepararsi al trasferimento. L’NBA è un business, si dirà, sono pagati abbastanza per sopportare tali situazioni. Tutto vero, ma restando degli esseri umani. Quindi occhio.


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Joel Embiid,

al contrario – messi da parte alcuni acciacchi e i conseguenti pit-stop – sta vivendo una stagione da borderline MVP. Le vittorie più schiaccianti, merito suo, quelle sul filo di lana, pure. Le sconfitte, arrivate spesso quando il numero 21 era assente.

Tutto OK, quindi, ad oggi. Poi verrà il tempo dei raddoppi, delle difese con le adeguate contromisure e Joel dovrà dimostrare che i suoi miglioramenti nel servire i compagni sono reali, che la sua tunnel-vision si è ridotta di molto, che il suo ball-handling è ora affidabile. Lo farà, c’è da crederci, ma sarà abbastanza? Ho qualche dubbio in proposito.

Così come continuerò ad avere i miei dubbi su Tobias Harris, apparentemente rigenerato dalla cura Doc Rivers, ma non certo quel go-to-guy, night-in night-out, che una vera contender, che una candidata al titolo, deve avere. Se a quel benedetto anello vuole aspirare. Tobias è sicuramente un bravo ragazzo, un eccellente giocatore di basket, fenomenale in transizione, capace in post e dotato di buon range, se la serata va per il verso giusto. I guai cominciano quando la luna è storta, per lui e per la squadra, e c’è da tirare fuori la personalità, oltre che le doti balistiche. Ad aiutare non arriva certo il macigno del super-contrattone, anzi.

Seconda conseguenza. Una finestra si chiude, chissà come e quando se ne aprirà un’altra. Anche qui il segno va verso il meno.

L’NBA è una Lega di opportunità, da cogliere al volo, perché l’inaspettato è dietro l’angolo, i giocatori invecchiano e si spazientiscono. La mossa di Masai Ujiri e dei Toronto Raptors, del 2018, nel prendere Kawhi Leonard, rappresenta plasticamente questo. Andare all-in, paga. Spesso.


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Quanto è realistico pensare che un’occasione come quella di prendere James Harden, o uno come lui, possa ripresentarsi a breve? Poco, direi.

Un giocatore come The Beard, pur con tutti i suoi difetti caratteriali, con tutto il suo bagaglio personalistico di interpretare la pallacanestro – piaccia, o no – non si trova facilmente sul mercato. Non su quello attuale, quantomeno. Giocatore di visione, di mezzi fisici per eccellere sui due lati, un raro interprete di un basket moderno, capace di tenere per quasi un decennio, circondato da tanti compagni diversi, Houston sulla cresta dell’onda.

Sono già ripartiti i rumors su quali altri nomi seguiranno Harden sul trade market, su quali potrebbero essere i potenziali target dei Sixers da qui alla deadline del 25 marzo prossimo.

Bradley Beal è il primo della lista, da anni seminatore nel deserto di Washington. Solo qualche giorno fa capace di segnarne 60 – e di uscire comunque sconfitto – al Wells Fargo Center.

Altro eccellente cestista – tra i miei preferiti – con tanti punti nelle mani, capacità di creare e realizzare praticamente da tutte le mattonelle e contro ogni tipo di set avversario, difensore in potenza più che discreto. Anche più giovane di Harden di quattro anni, 27 contro 31, da compiere. Eppure. Eppure, non riesco a metterlo sullo stesso piano, sulla stessa scala, nella stessa categoria di Jimmy boy. Non fosse altro per quello che la sua carriera, la sua storia da pro, ci ha detto fino a qui.

Altri nomi, Zach LaVine – in un momento magico a Chicago – e Buddy Hield, non soddisfatto a Sacramento. Buoni o molto buoni, ma di altro e inferiore livello. Senza dimenticare che richiederebbero, come Beal, degli importanti sacrifici in contropartita. It’s the market, baby.

Comunque si riparte, chi ha avuto, ha avuto, ha avuto, e chi ha dato pure. I Sixers devono per forza scordarsi del passato e fare quello fatto fino a qui, e che a Philadelphia sanno fare molto bene. Trust the Process, insieme a Trust Daryl Morey.

E sperare cha vada tutto bene. Perché poi magari, così andrà.