Il guru della meccanica di tiro ed ex assistant coach di Raptors, Wizards e Knicks si racconta in una lunga intervista: “Kobe il migliore con cui abbia mai lavorato, a 17 anni diceva già di voler essere il più forte”.

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Se fosse un personaggio di Pulp Fiction, Dave Hopla sarebbe sicuramente Mr. Wolf, l’uomo che “risolve problemi” magistralmente interpretato da Harvey Keitel: è a lui, infatti, che si rivolgono giocatori e coach dall’high school alla NBA, quando bisogna cambiare qualche cosa nella meccanica di tiro o nelle percentuali.

Nella sua carriera quasi trentennale come allenatore ed istruttore (qui abbiamo raccontato la sua storia), Hopla ha lavorato con alcuni degli atleti più iconici della pallacanestro – tra cui spiccano Ray Allen, Kobe Bryant e Micheal Jordan – e ha fatto parte di diversi staff NBA, tra cui quello dei Toronto Raptors nel momento dell’approdo nella Lega di Andrea Bargnani.

In aggiunta a ciò, ha frantumato qualunque record mondiale riguardante il tiro da tre punti, diventando un fenomeno virale. In questa lunga chiacchierata, Hopla ha raccontato alcuni dei momenti più iconici della sua esperienza professionale, non lesinando al contempo critiche alla pallacanestro attuale.

Ciao Dave, benvenuto.

Ciao a tutti, grazie per l’invito e per la bella presentazione.

Come si diventa il miglior tiratore di sempre?

È cominciato tutto quando avevo 16 anni. Già allora ero appassionato di pallacanestro, ma il mio sport preferito era senza dubbio il baseball. A 15 anni mi sono trasferito a Baltimore e ho iniziato a giocare andando alla YMCA. Avevo una meccanica di tiro orrenda, ad essere sinceri. L’anno seguente sono andato ad un camp e ho imparato il metodo che utilizzo ancora oggi, basato su esercizi per correggere la meccanica, come tirare con una mano sola a circa un metro dal canestro.

Mentre guardavo le dimostrazioni di questi istruttori mi sembrava tutto così semplice, tanto che ho pensato ‘Ehi, posso farlo anch’io’. Ho dovuto cambiare tutto il mio metodo di lavoro, perché sbagliavo ogni cosa. Dopo un po’ di giorni, un altro istruttore del camp è venuto da me e mi ha detto: ‘Se vuoi seriamente migliorare il tuo tiro, devi iniziare a tenere le statistiche e controllare i numeri’; quando me lo ha detto, ho pensato: ‘Sono l’unico al mondo che non si segna i risultati del proprio allenamento’. Alla fine si è scoperto che non è così, anzi, forse sono l’unico al mondo a tenere il conto dei propri tiri. Ancora oggi ho una pila lunghissima di registri.

Oggi sarebbe ancora più facile, ci sono app che tengono conto dei tiri per te e producono anche una shot chart.

Quindi non ti sei mai perso nemmeno un tiro?

No, non ho tenuto conto di tutti i tiri. Per esempio, negli anni della mia carriera da giocatore  – dall’high school alle esperienze oltreoceano post-college – non ho mai tenuto conto dei tiri che prendevo durante il riscaldamento prepartita. Tengo conto, però, di tutti i tiri che prendo nei miei allenamenti individuali.

Ovviamente ci saranno diverse migliaia di tiri non registrati, perché presi in momenti in cui ero concentrato unicamente sulle partite. Ancora oggi, però, ogni volta che mi alleno, porto sempre con me il quadernetto su cui sto segnando i miei risultati al tiro.

Quanto influenza il miglioramento delle proprie percentuali tenere conto dei tiri presi e dei canestri segnati?

Beh, non puoi tentare di migliorare in qualcosa se prima non hai una misurazione certa su cui basarti. Ai ragazzi che vengono da me dicendo di andare a tirare ogni giorni chiedo sempre: ‘Qual è stata la tua percentuale di tiro il giorno del mio compleanno?’, se mi rispondono: ‘Non so se ho tirato il giorno del tuo compleanno, quando sei nato?’, io replico: ‘Se veramente vai a tirare ogni giorno, ti sei allenato anche il giorno del mio compleanno’.

È importante tenere conto delle statistiche in maniera continua, in modo da poter constatare il miglioramento. Al ragazzo che mi dice di aver tirato un’ora e mezza chiedo sempre: ‘Quanti tiri hai preso? Quanti ne hai segnati? Quanti ne hai sbagliati? Che percentuale ne consegue?’.

Tenere conto delle statistiche e accorgersi del miglioramento aumenta anche la fiducia. E la fiducia produce successo, ed il successo produce nuova fiducia. È un ciclo. Se credi in te stesso in allenamento, questa convinzione si trasla anche in partita. Quando Ray Allen ha messo quel tiro dall’angolo in Gara 6 contro gli Spurs ha detto: ‘Avrò segnato quel tiro 10 milioni di volte, certo che mi immaginavo entrasse’. I giocatori che non sanno destreggiarsi nelle situazioni di pressione sono quelli che non hanno passato abbastanza tempo ad allenarsi.

In fin dei conti, l’aspetto mentale è decisivo, a contare è sempre di più quello che questi ragazzi hanno dalle spalle in su, non il contrario.

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Qual è la cosa più importante per tirare bene: l’aspetto mentale o quello meccanico?

Penso che l’unico aspetto imprescindibile sia la posizione del gomito: Il braccio deve fare una L perfetta, altrimenti non avrai mai un buon tiro. Non esistono buoni tiratori con il gomito che esce fuori dal loro asse. Il gomito deve formare una linea perfetta col canestro e trovarsi sotto il pallone. Se è nella posizione giusta con il braccio, un buon tiratore può segnare anche quando è completamente fuori equilibrio.

Per quanto riguarda l’aspetto mentale vale quello che dicevo in precedenza: se un giocatore ha fiducia in sé e nel proprio tiro, questo entrerà. Io inizio sempre con un esercizio molto semplice: un gruppo deve segnare un numero di tiri prestabilito in un determinato arco di tempo. I giocatori con poca fiducia arrivano ad un imbarazzo incredibile quando devono farlo, vedi già dai loro volti che sbaglieranno il tiro decisivo. Quando a sbagliarlo è invece il compagno prima sono sollevati, perché non dovranno prendersi loro la responsabilità. Questo dice molto.

E la posizione dei piedi?

Certo, devi cercare di mettere tutto insieme. Io per esempio sono destrorso, perciò quando tiro vorrò sempre il mio piede destro leggermente avanti rispetto al sinistro. Vorrò poi il piede, la caviglia, il bacino, la spalla e il pallone in una linea perfetta verso il canestro.

Chiaramente non è facile essere sempre allineati. Alla lunetta, con tutto il tempo e senza pressioni, tutti dovrebbero essere in grado di farlo e segnare quasi sempre, ma nella concitazione della partita, in cui ogni giocatore è sempre in movimento, è difficile essere sempre perfetti nella forma. Per questo mi focalizzo sul gomito.

Hai parlato – in altre interviste –  anche della ripetibilità del movimento. Un giocatore può mantenere una meccanica “sbagliata” se è in grado di riprodurla ad ogni tiro e lo rende efficace?

È un concetto che ripeto spesso, il tuo tiro non deve essere perfetto, ma deve essere lo stesso in ogni singola conclusione. La posizione delle mani deve essere identica, così come quella dei piedi. Quando ero nel coaching staff dei Raptors ho lavorato con TJ Ford e Josè Calderon. Li chiamavo ‘Sports Cars’, perché erano entrambi velocissimi, ma c’era una differenza: TJ si allenava molto più lentamente rispetto alla sua velocità massima in partita, come se invece di andare a 250 all’ora andasse solo a 200. Andando più piano, non allenava il tiro nel modo giusto, perché non prendeva in allenamento lo stesso identico tiro che avrebbe preso in partita.

Josè, pur essendo leggermente più lento, si allenava con la stessa intensità della partita. Ogni tiro di Calderon era quindi identico a quello che avrebbe poi preso in gara.

In allenamento non si dovrebbero mai prendere tiri “comodi”, oppure rallentati rispetto alla partita, perché sono conclusioni che non ti capiteranno mai in un contesto agonistico e quindi non sono allenanti. Devi simulare le situazioni che troverai durante la gara.

Sei stato innanzitutto un giocatore, con anche delle esperienze oltreoceano. Come sei diventato un coach?

È successo per caso in realtà. Ero un giocatore di CBA, una lega minore, di 32 anni. A Baltimore, dove sono cresciuto, allenavano alcuni dei miei ex-avversari ai tempi delle scuole. Mi hanno chiesto di venire a giocare per loro. Io però non volevo, non c’era nessuna possibilità che mi chiamassero dalla NBA e ritenevo più conveniente tornare oltreoceano e continuare la mia esperienza all’estero. Mi hanno quasi pregato, dicendo che ero abbastanza popolare a Baltimore e che, se fossi riuscito anche solo a portare venti spettatori in più per la partita, avrei fatto un grosso favore alla squadra.

Iniziamo la stagione e sto giocando alla grande. Una sera stavo guardando il Monday Night Football e ho visto il terribile infortunio di Joe Theismann, un quarterback di Washington. Mentre sto guardando questa scena orrenda mi chiama il mio coach, Henry Bibby, e mi dice che ha una buona e una cattiva notizia, gli rispondo ‘Dammi prima la buona’, al che lui dice: ‘Farai ancora parte della squadra, ma andiamo a giocare a Rockford, Illinois’. Io non volevo andare in Illinois, ma non potevo nemmeno tornare oltreoceano perché la stagione era già cominciata e non c’erano più contratti. Non sapevo cosa fare della mia vita.

In questi giorni di indecisione, un mio amico continuava a chiamarmi per chiedermi di andare ad aiutarlo nel junior college in cui allenava. Io mi sentivo ancora un giocatore, ma lui continuava ad insistere finché un giorno, preso per sfinimento, gli ho detto: ‘Va bene, domani faccio un salto, ma senza nessun impegno. Non voglio soldi e non voglio obblighi’. Sono andato a quell’allenamento e non ho mai smesso di fare il coach da quel giorno.

Mi diverto a vedere i giovani talenti, mi diverto a lavorare nei camp e a ritrovare da professionisti giocatori con cui ho lavorato quando erano giovani studenti. A Toronto, ad esempio, ho incontrato Bargnani nel suo anno da rookie: il primo giorno dopo la mia assunzione, Andrea ha visto la targhetta con il mio nome e si è illuminato urlando ‘Dave Hopla!’. Si ricordava di me da un camp Nike a cui avevo partecipato in Italia.

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Dopo la CBA, il salto in NBA: cos’hai provato una volta arrivato nella Lega?

Quando ho smesso di giocare, ho mandato video in giro per promuovermi presso i coaching staff NBA. Di 200 video che ho inviato, due hanno ottenuto risposta, a notarmi erano stati solo Mike Schuler dei Clippers e Doug Moe dei Nuggets. Quando la NBA si è realmente accorta di me dandomi un lavoro full-time con i Raptors, invece, avevo 48 anni e tenevo clinic già da 16. Non è una cosa successa dalla sera alla mattina, ci ho messo molto tempo.

Io sarei entrato in NBA a 33 anni, subito dopo aver capito che allenare mi piaceva, ma nessuno mi ha aperto la porta, non ho avuto la via facile. Fortunatamente ho continuato a lavorare e a crescere nei junior college e nelle high school. Poi, i ragazzi con cui lavoravo sono diventati professionisti e io ho iniziato a tessere rapporti con loro e con i loro agenti. Sono entrato in quel mondo gradualmente.

Hai lavorato con giocatori di high school e college: è più facile correggere uno studente o un professionista?

Penso dipenda dal singolo giocatore. Guarda ad esempio Lonzo Ball: era completamente fuori asse, mentre ora ha un discreto jumper. Lonzo VOLEVA migliorare il proprio tiro.

Nella NBA nessuno usa la parola ‘change’, ma ‘adjustment’, perché suona meno radicale per i giocatori. Alla fine penso che tutto stia nella voglia che ha un individuo di migliorare. I pro hanno mantenuto le abitudini da correggere per moltissimi anni e sono più restii a cambiare, perciò sarebbe logico dire che è più facile migliorare la meccanica di un giovane. I ragazzi di oggi, però, vogliono sempre il successo immediato, dopo il primo fallimento dicono: ‘Non funziona, torno al mio sistema’ – il tuo sistema, però, non va bene.

La società contemporanea vuole risultati immediati. Io da ragazzo avevo una serie infinita di difetti al tiro, per questo mi hanno fatto ricominciare da esercizi semplici e a due metri dal canestro.

Al giorno d’oggi, sfortunatamente, i ragazzi iniziano dai 10-11 anni a correre verso la linea da tre punti e tirare da lontano… ma se non sai mettere un tiro da un metro e mezzo non potrai metterne uno da nove metri: devi pian piano allargare il tuo raggio d’azione. I bambini devono imparare a tirare con un pallone più piccolo ed un canestro più basso. Solo così gli si può insegnare una meccanica corretta.

Negli Stati Uniti abbiamo un’ottima formazione per quanto riguarda il baseball giovanile: tutti giocano con le stesse regole in tutto il Paese. Il nostro basket giovanile, invece, è pessimo: alcuni giocano con il canestro a dieci piedi, altri con il canestro ad otto piedi ed il pallone più piccolo… squadre di tipi diversi di minibasket, poi, non si incontrano mai.

Nel baseball usano un campo più piccolo e partono facendo battere ai ragazzini una palla ferma e non lanciata. Non mandiamo i bambini di 8 anni allo Yankee Stadium, perché non riuscirebbero a lanciare. Nel basket, invece, i bambini devono arrivare in qualche modo da subito a segnare in un canestro regolamentare. Questo li porta ad imparare una forma scorretta di tiro, che si portano dietro fino al professionismo.

Un messaggio per i coach italiani: cosa serve per diventare Dave Hopla?

Cominciare sempre dai fondamentali, che non passano mai di moda, e restare sulle cose semplici. La pallacanestro è lo sport più allenato e meno insegnato che ci sia. I ragazzini degli States vogliono allenare il ball-handling facendo tutti i numeri possibili e immaginabili e poi ti guardano come se avessi scoperto l’acqua calda se gli fai vedere un movimento sul piede perno.

Allenano semplicemente le cose sbagliate: devi partire dalle basi e poi passare alle cose complesse. Prima segna un buon tiro dalla lunetta e poi inizia a sparare triple in stepback. Ma i ragazzini vedono gli highlights e si esaltano per altre cose.

Non sentirai mai un ragazzino americano dire ‘Ehi, io voglio giocare come Tim Duncan’, ma stiamo parlando di uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi! Kareem Abdul-Jabbar è diventato il miglior marcatore della storia della NBA grazie ad un tiro ‘semplice’ come il gancio-cielo. Jabbar oggi sarebbe fuori dalle rotazioni, perché non sa tirare da lontano. Anche se, pensandoci bene, uno col suo talento tirerebbe le triple in gancio. Ragazzi, quello sì che cambierebbe le cose, no?

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Cosa ne pensi dello stato attuale della pallacanestro?

Io lo dico sempre: sono un tiratore ma penso che il tiro da tre punti sia la cosa peggiore mai successa alla pallacanestro. Oggi ci sono ragazzi di due metri e dieci che tirano da tre, come fai? Patrick Beverley e Trae Young hanno chiuso gare in carriera da 16 e 13 rimbalzi, perché ormai ci sono solo rimbalzi lunghi e nessun centro dentro l’area. Brook Lopez gioca sistematicamente a 9 metri dal canestro.

Nessuno gioca il post basso e le squadre tirano soltanto. In passato la tripla veniva da un post basso che aveva generato un raddoppio e uno scarico. Un’altra rovina è stata diventare così elastici con l’infrazione di passi. Ma tutti gli sport stanno vivendo un processo simile, si stanno adattando.

Per non parlare di questi analytics guys, che pensano solo ai numeri. Houston nel 2018 ha sbagliato 28 triple consecutive contro Golden State: non c’è nessuna statistica che possa dirti di continuare a tirare in una situazione del genere. Io ho iniziato a giocare senza i tre punti, non esisteva la linea, e quando sbagliavo i primi tiri da lontano cercavo sempre di avvicinarmi e prendere un fallo, per entrare in ritmo. Oggi invece dopo un tiro sbagliato se ne tenta un secondo da un metro più lontano. Non ha senso.

Forse il post basso non è così attraente in uno sport che sta diventando sempre più intrattenimento?

Sono intrattenitori in uno sport che ormai si basa solamente sul brand individuale. Negli anni Settanta erano i CELTICS contro i LAKERS, poi è diventato MAGIC JOHNSON e i Lakers contro LARRY BIRD e i Celtics. L’individuo ha iniziato ad essere sempre più importante rispetto alla squadra.

I ragazzi di oggi preferiscono fare una giocata che diventa virale sui social piuttosto che diventare un giocatore concreto e vincente come Tim Duncan.

Non è la ginnastica, non vinci se impressioni la giuria, cerca di mantenere un gioco semplice. Bruce Lee ha detto: ‘ Non ho paura di un uomo che conosce 10.000 calci diversi, ma di quello che ha fatto lo stesso calcio 10.000 volte’. I ragazzi di oggi sono fissati con questi movimenti in palleggio, ma non ne sanno fare nemmeno uno in maniera perfetta.

È un processo reversibile? In fondo, uno dei giocatori più forti della NBA è Joel Embiid, un fantastico giocatore di post.

Se riesce a rimanere sano, parliamo di un giocatore infermabile.

Il miglior tiratore di oggi?

Se devi imitarne la meccanica, ti direi Klay Thompson.

Parlavamo di giocare semplice: questo è un giocatore che ha segnato 60 punti facendo 11 palleggi in totale. Oggi i ragazzi fanno 11 palleggi per prendersi un tiro solo.

Io dico sempre che il palleggio è come una caramella: uno ti addolcisce, troppi ti fanno star male.

Qual è il miglior giocatore per mentalità con cui hai lavorato?

Kobe Bryant. Senza dubbio. È stato la mia croce e delizia, anche perché dopo aver lavorato con lui sono rimasto deluso da qualunque altro atleta sia passato da me. Ti guardava dritto negli occhi mentre lo correggevi, senza abbassare mai lo sguardo. Diceva sempre di voler essere il più grande della storia. Una volta, quando aveva 17 anni, siamo andati a mangiare qualcosa dopo l’allenamento. Era seduto sul retro di una macchina e sfogliava un almanacco sportivo. Guarda il roster di Atlanta e inizia a dire: ‘Io questo in due anni lo distruggo’. ‘Questo qui ce l’ho nel mirino’, ‘Dai, sono già meglio di quest’altro’. A 17 anni.

Quello che le persone non ricordano è che Kobe ha fatto una fatica incredibile nei suoi primi anni nella Lega. Nelle Finali di Conference del 1997 ha chiuso l’ultima partita con 4 airball consecutivi. Ma questo non l’ha scalfito. Nick Anderson, dopo aver sbagliato 4 liberi di fila con Orlando, ha smesso di andare al ferro per paura della lunetta, Kobe è rimasto impassibile. Sbagliare un tiro non lo toccava. Era concentrato mentalmente solo su quello che doveva fare in campo, non si faceva condizionare.

Kobe è stato il migliore?

Si, però non dimentichiamo Ray Allen, è stato a lungo l’uomo che ha segnato più triple nella storia, nonostante non si tirasse tanto quanto oggi. È stato anche un grandissimo atleta, non solo un tiratore. Dal punto di vista umano, poi, parliamo di una grande persona.

Quanto conta il mindset di un giocatore?

Quest’estate ho lavorato con Stanley Johnson e ho fallito, ma non solo io. Durante l’estate ha girato diverse squadre e allenatori, tutti hanno provato ad aiutarlo, ma non è migliorato. Mi dispiace, ma deve lavorare di più. I campioni hanno un approccio mentale diverso, Larry Bird allenava il braccio sinistro, Stephen Curry all’inizio della carriera faceva fatica a chiudere al ferro, adesso è un fenomeno.

Come mai un giocatore come Derozan, che ha un tiro tecnicamente corretto, ha percentuali così basse da tre?

È un processo `mentale, un giocatore che tira dalla media può essere che non si senta il tiro da tre. Succede spesso con i giocatori FIBA. Garbajosa, ad esempio, tirava sempre dalla media perché non si sentiva a suo agio con la maggior distanza dall’arco dei tre punti in NBA. L’etica del lavoro è importantissima; guardiamo Giannis, sta migliorando ogni stagione la tecnica di tiro, si sente più a suo agio a tirare da tre, e si vede.

E Ben Simmons?

Non è solo il problema con il tiro. È l’attitudine, non sai tirare e devi lavorare, non vai a fare allenamento perché non ti pagano o ci vai con il telefono in tasca… Chi ti vuole in una trade se mostri questo comportamento? È contento di essere un giocatore da massimo salariale senza essere in grado di tirare, non gli interessa neanche provare a buttare la palla dentro. Deve superare questo blocco mentale che ha nei confronti del tiro se vuole andare da qualche parte.

Per tirare i liberi, è più importante la forma o la routine?

Routine, i ragazzi non sono abituati a fare 100 tiri di seguito. La routine è molto importante. Prendiamo ad esempio Westbrook: da quando non ha più tempo per fare la sua “passeggiata” tra i liberi, la percentuale è molto peggiorata. Bisogna provare a tirare sempre con la stessa routine.

Come si può migliorare il tiro da tre?

È meglio imparare a tirare da vicino. Ho lavorato con John Wall, arrivava da una stagione dove ha tirato con il 7% da tre. Non voleva proprio tirare. La sua forma era bruttissima, abbiamo cominciato a lavorare sul tiro da due e poi siamo andati oltre l’arco. I ragazzi vogliono fare le cose difficili, ma non imparano le basi.

È importante la tecnologia nel processo di tiro?

Può aiutare, per esempio puoi tracciare i tiri per avere un angolo di tiro corretto, tra 45-47 gradi. Aiuta anche a capire cosa è sbagliato quando i giocatori vogliono migliorare da un buon a un ottimo livello, ma per imparare i fondamentali, basta l’aiuto di un allenatore. 

In generale, come funzionano tutte queste nuove analisi tecnologiche?

Le analisi dei video che i giocatori guardano appena dopo la partita sono molto utili per far capire loro se hanno preso decisioni giuste o sbagliate. Ma, a parte la questione tecnica, le analisi ormai comprendono di tutto, ad esempio puoi vedere quanti carboidrati un giocatore ha consumato, così da usare una bibita specifica. LeBron spende milioni per la cura del proprio corpo (ne abbiamo parlato QUI).

La storia più divertente?

OK, ogni giocatore riceve informazioni molto dettagliate sugli avversari da marcare nella partita seguente e le devono studiare. Nel prepartita, un coach chiede a questo giocatore cosa ha imparato dell’avversario, lui dice: “Coach, mi scusi ma non ho studiato niente di quello che mi avete mandato, ma il mio avversario è forte alla PlayStation”.

Un’ultima domanda: durante la partita, segnare ti aiuta a segnare?

Sì, quando la palla entra nel canestro ti dà fiducia, e ti aiuta a segnare di più.


Si ringraziano Matteo Lattuada e Alberto Pucci per il contributo.