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Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Marco Marchese per Around the Game.


L’intervista nell’articolo originale risale a settembre 2019, al momento dell’introduzione di Al Attles nella NBA Hall of Fame, ma pensiamo che le sue parole siano perfette come commemorazione.



Com’è andata con i Golden State Warriors in 60 anni? Come mi piace affermare, non mi hanno mai acchiappato. Ma parlando seriamente, sono stato molto fortunato a trovarmi al posto giusto e al momento giusto. Ci sono state delle persone che, direi, meritavano tutto ciò. Ma non sono stati in grado di rimanere per varie ragioni. Ho giocato con alcuni giocatori straordinari. Ho allenato alcuni giocatori incredibili. Ed è accaduto perché mi trovavo al posto giusto. Non sono mai stato una persona che fa molto “rumore”, non causavo molti problemi, non ho mai fatto bravate con nessuno. Sono venuto per giocare, e in quel periodo, quelli erano il tipo di giocatori che volevano. A loro non piacciono persone che fanno parlare di sé o cose simili. La North Carolina AT&T si è assicurata che si facesse tutto il necessario. Volevano esser certi che chiunque si fosse diplomato in quella scuola avrebbe fatto tutto il necessario per essere al livello degli altri. Mi sono messo d’impegno, e sareste sorpresi di conoscere i miei voti al college. Avevo effettivamente deciso che non avrei più giocato a basket dopo il college. Il mio coach alla High School e un altro insegnante al college mi chiesero di fare un provino con i Warriors. Il coach mi disse: “Tu puoi far parte della squadra.”. Gli risposi: “Okay, sai che ti dico, andrò a fare il provino e poi tornerò ad insegnare a Newark.”. Avevo effettivamente accettato un incarico come insegnante a Newark. Ma sono stato fortunato e sono arrivato ai Warriors. Questa è la maniera in cui vanno le cose. Avrei guadagnato $1000 giocando o insegnando. L’unica differenza è che i $1000 da giocatore li avrei guadagnati in 6 mesi, da insegnante in 9. Il denaro non era la ragione per cui si sceglieva di giocare in quel periodo. Ovviamente, i giocatori al top, come Bill Russell e simili, venivano pagati parecchio. Mentre quelli come me speravano di entrare in squadra e poi ricevere uno stipendio nel corso della carriera. 

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Una volta, io e Wilt abbiamo fatto 117 punti complessivi.

La verità è che Wilt Chamberlain era come una divinità greca. Nella lingua inglese c’è una parola molto importante; questa parola è gelosia. Sfortunatamente, e farei bene a dirlo con la massima delicatezza, dando peso a ogni singola parola a riguardo. A volte per la gente come noi, quando si scala la gradinata del successo, si prova gelosia da parte di coloro che non sono come noi, gelosi della nostra scalata. Erano gelosi del nostro guadagno, dell’attenzione da parte dei media e di quella ottenuta dalla gente. Ma tutto ciò non lo sfiorava neppure. Se era tuo amico, lo era e basta. Era una persona molto migliore di quanto la gente pensasse. Non ha lasciato che la gelosia lo influenzasse, diversamente da come la gente presumeva. Per quelli come noi, che lo conoscevano da vicino, esisteva un altro punto di vista. Adorava un suo nickname, ovvero The Big Dipper. Non penso che gli piacesse Wilt the Stilt. No, no. Non erano in molti a chiamarlo Stilt. Non io. Se qualcuno lo avesse chiamato Stilt, lui lo avrebbe iniziato a guardare in maniera allegra. Chiamatelo Big Dipper. Gli piaceva. Ma non avrebbero potuto chiamarlo Stilt. Facevamo delle gare, e io non ero il più lento del mondo, ma avrei potuto batterlo di un passo. Avrebbe mentito dicendo che non lo avessi battuto.

“Wilt, ti ho battuto.”

“No, non è vero. Quel ragazzo non ha corso davanti a me.”

“Wilt, Wilt ti ho battuto. Non posso superarti nel punteggio, ma ti ho battuto.”

Avevo scoperto quanto da vicino avessi potuto parlargli. Non gliene importava granché di segnare 100 punti. Anche perché non accade di star lì seduti e contare quanti punti si stiano segnando. Ma di tanto in tanto sarebbe venuto qualcuno a parlare dei punti che aveva realizzato. Ma non sarebbe andato in giro a chiedere: “Datemi il pallone, voglio segnare. Voglio segnare.”. Quando Wilt ha fatto 100 punti, lo speaker continuava a dire al microfono: “Sono 80.. Sono 82..”. E quando era arrivato vicino a 100 noi non prestavamo molta attenzione, ma chi scriveva il tabellino per la squadra, si avvicinavano a dire: “Sai, Wilt.. Ci stiamo avvicinando.”. Ma Wilt non avrebbe mai chiesto la palla, non avrebbe mai detto: “Dammi la palla.”. Eravamo noi a dirlo: “Dategli la palla!”. I New York Knicks provavano a fermarlo in ogni modo. Tutti provavano a stopparlo. Ma ciò che accadde in quel momento è stato capire che nessuno lo avrebbe potuto stoppare. L’unico modo per fermarlo era tenerlo fuori dalla partita. Wilt Chamberlain e io abbiamo messo insieme 117 punti, ed è un dato di fatto. Non riuscivamo a credere che Wilt fosse stato scambiato – andando ai Los Angeles Lakers il 9 luglio 1968, in cambio di Jerry Chambers, Archie Clark e Darrall Imhoff. Non avevamo nessun altro a parte Wilt. Quando capimmo che sarebbe stato scambiato, dissi: “Mi state prendendo in giro. Non hanno intenzione di cedere Wilt Chamberlain.”. Avevamo letto di questa possibilità. Ma quando tutto è divenuto realtà, non lo realizzai davvero fino a quando, crescendo, non capii che era più una questione economica e non di altra natura. In quel periodo il fattore economico era un problema. Tutto ciò che si poteva fare era controllare i pagamenti e rendersene conto.

James Brown voleva sfidarmi in Uno-contro-Uno.

Non sono molti quelli della mia era a poter giocare oggi. Bill Russell avrebbe potuto farlo. Oppure Oscar Robertson. Suvvia. Ci sono giocatori che pensano di essere più forti di Oscar Robertson? Oggi si tratta di un altro stile di gioco. Ma non erano in molti, con quella stazza, a poter competere con Oscar Robertson. Sarebbero scesi in campo esclamando: “Oh mio Dio, Oscar Robertson.”. Oppure Bill Russell, o Sam Jones. Ma ci inserirei anche Guy Rodgers. Rodgers, nella mia mente, era bravo con il pallone tanto quanto chiunque attualmente. Parlo solo dell’abilità nel controllo del pallone, senza considerare il tiro o altre cose. Parlo della sua abilità di far andare il pallone esattamente dove voleva. Wilt sarebbe stato Wilt. Non penso di aver mai incontrato nessuno capace di fare ciò che faceva. La gente di spettacolo pensava di poterlo superare in quanto atleta. “Posso superarlo o posso fare meglio di ciò che ha fatto.” – vedremo, vedremo. James Brown voleva sfidarmi in uno-contro-uno. Ma io non volevo metterlo in ridicolo. Gli dissi: “Al college e alla High School sono stato membro della banda musicale. Suonavo il tamburo. Ma non sono mai riuscito a farlo nella James Brown Band.”. Ho riso e poi ho continuato: “Non posso suonare nella tua band. No. Ma sai cosa, neppure tu puoi giocare nella mia squadra.”. Cos’avrei ottenuto sfidandolo? Se avessi vinto, tutti si aspettavano che lo facessi. Se avessi perso, lo avrebbe raccontato al mondo intero. No, no. 

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Non è che volessi ritirarmi..

Mi parlarono di poter diventare coach. E non è che volessi ritirarmi. Ma mi resi conto che, se fossi stato il coach, non avrei potuto più giocare. Non si può essere giocatore e allenatore nello stesso periodo, perché non si può andare dai ragazzi e dire che stessero sbagliando qualcosa, se anch’io stavo commettendo lo stesso errore. Perciò, in seguito sono diventato coach. Ma non volevo. Poi, l’ex proprietario dei Warriors, Mr. Franklin Mieuli, mi convinse. Era come un secondo padre per me. Eravamo molto vicini. Mi disse che pensava che sarei riuscito a fare grandi cose, cose che non ero riuscito a fare da giocatore. Da giocatore si pensa solo ad una cosa: giocare. Il coach ha tutto il resto delle cose da fare. Ma non volevo farle, perciò sono diventato Assistant Coach. C’era solo un coach afroamericano in quel periodo: Bill Russell. Ma prima era giocatore-coach. Lenny Wilkens e io arrivammo nello stesso anno. E, quindi, Earl Lloyd era un altro prima di noi. Do merito ai proprietari per averlo reso possibile. Non ho mai avuto problemi con giocatori bianchi. Forse è potuto accadere qualcosa di cui non ne fossi a conoscenza. Ma non ho mai pensato a tutto ciò. I ragazzi erano davvero, davvero premurosi, e molti di loro erano solo concentrati sul loro lavoro. Sapevano che se avessero avuto problemi con la persona incaricata di essere il loro allenatore non sarebbero entrati in squadra. E, una volta costruita una cattiva reputazione, nessun’altra squadra li avrebbe voluti. Perciò non ho avuto nessun problema di questo genere. Bisogna comprendere che il coach ha un incarico e i giocatori hanno il loro. I giocatori fanno ciò che ritengono giusto, così come il coach fa quello che ritiene giusto. Se, da coach, non si farà ciò che si ritiene giusto, non si andrà tanto lontano. Perciò sono stato fortunato. I proprietari sono stati molto, molto buoni con me. Condurre la squadra al Titolo NBA 1975 non significava molto per me, personalmente, ma per i giocatori sì. Solo una squadra vince il Titolo. Perciò, la gente a cui si racconta e dice tutto ciò potrebbe risultarne infastidita, e quindi non ne parlo. Ma è stato davvero spettacolare.

Ce l’ho fatta!

Guardo alla Hall of Fame. Vedo persone, amici miei. Tutto ciò che si può fare da giocatore è giocare. Dipende da altra gente entrare a far parte di quella lista o meno. Ma io ce l’ho fatta. Sono molto felice, ma lo sono ancor di più per altre persone. Lo sono per mia moglie, che è sempre molto, molto buona con me. Se fossi via lei manderebbe avanti la vita familiare per tutti. Ma non glielo dico, perché altrimenti diverrebbe vanitosa. Ma ci ha sempre mantenuti sulla giusta via, assicurandosi che non dovessi curarmi troppo degli affari di famiglia finché la stagione non fosse terminata. Sono felice per mia madre e mio padre. Sono felice per i miei coach della high school. Sono felice per il mio coach al college. Ci sono tante persone che vorrei riunire attorno a me per dir loro quanto le apprezzo. Sono stato fortunato. Ho avuto una madre e un padre che mi hanno messo sulla giusta strada, e anche alcuni coach della high school e del college che hanno fatto lo stesso. E altre persone che non erano degli allenatori, persone normali, con le quali sono molto intimo adesso. Non provo altro che enorme rispetto per loro. Non sono mai stato troppo coinvolto con il numero dei punti che ho totalizzato. Ho sempre pensato: “Sto facendo la cosa giusta? Dove mi sto dirigendo?”. Che fosse a scuola, al college o dopo il college, ai Warriors. Ho sempre pensato a fare la cosa giusta per la gente. La mia legacy? Si tratta solo di aver fatto le cose giuste. Ed è l’unica cosa che m’interessa.