Questo contenuto è tratto da un articolo di Jeff Clark per Celtics Blog, tradotto in italiano da Alessio Porcu per Around the Game.


Prima che inizino le NBA Finals, ha senso fermarsi un attimo per apprezzare il modo in cui i Boston Celtics sono arrivati fin qui. E guardando con attenzione, vi renderete presto conto che in questo roster ci son quasi solo ragazzi draftati o firmati da parte di Danny Ainge.


Marcus Smart, Jaylen Brown, Jayson Tatum: nessuno di questi giocatori era una scelta scontata ai tempi, anzi. E con scelte più basse rispetto a loro, Ainge è stato in grado di muoversi molto bene e aggiungere al roster dei giocatori che si stanno rivelando molto importanti nei Playoffs, come Robert Williams, Grant Williams e in misura minore Payton Pritchard.

Oltre a loro e a Derrick White (acquisito alla trade deadline), ci sono Al Horford e Daniel Theis, che hanno giocato lontano da Boston negli ultimi anni, ma che erano stati originariamente presi da Ainge e ora sono tornati al TD Garden.

Certo, in questi anni non tutte le scelte sono andate bene. Quelle giuste, però, hanno funzionato abbastanza da rendere i Celtics, nel tempo, una contender.

L’estate scorsa Brad Stevens è subentrato al posto di Ainge nel ruolo di President of Basketball Operations. L’ex allenatore dei Celtics è sempre stato un grande sostenitore della creazione di una cultura e dello sviluppo dei giocatori, credendo nel progresso a lungo termine, indipendentemente dai risultati raggiunti nel breve termine.

Guardando allo stato attuale delle cose, è evidente come un ambiente diverso avrebbe potuto arrestare il processo di crescita della squadra e dei singoli. Tatum era semplicemente uno scorer da isolamento al college, Jaylen Brown era per lo più solo un grande atleta, Marcus Smart non sapeva tirare, e l’elenco potrebbe allungarsi. Stevens e il front office dei Celtics hanno visto qualcosa di speciale in questi ragazzi e hanno deciso di puntare su di loro, resistendo alla tentazione di rompere il giocattolo di fronte alle difficoltà.

Il grande passo avanti, poi, è stato compiuto grazie all’impatto che il nuovo coach Ime Udoka – una scelta di Stevens – ha avuto sulla squadra. Il lavoro di Udoka parte dalle solide basi costruite dal suo predecessore nel corso degli anni.

FOTO: Brian Babineau

Li abbiamo visti giocare per tutto l’anno. La difesa dei Celtics è diventata la migliore dell’NBA e il movimento della palla in attacco è più fluido che in passato. All’inizio della stagione la squadra ha incontrato diversi problemi, ma a gennaio i nuovi principi di gioco sono stati definitivamente interiorizzati e in spogliatoio è scattato qualcosa. Qualcosa che li ha portati dove sono oggi, alle NBA Finals.

Contro i Nets, l’obiettivo era fermare (o quantomeno limitare) quello che potrebbe essere il miglior scorer di sempre. Contro i Bucks, hanno dovuto superare l’attuale miglior giocatore della lega e una difesa che non ti permette di entrare in area. Contro gli Heat, hanno affrontato forse il miglior allenatore dell’NBA e una delle stelle più competitive in circolazione. Ciascuna squadra rappresentava una minaccia diversa, e ognuna di esse doveva essere superata in modi diversi.

Questa squadra non è cresciuta solo in campo, ma anche dal punto di vista della maturità. Ora, sta imparando ad adattarsi in tempo reale a quello che è il palcoscenico più importante di questo sport, che richiede una personalità e un carattere speciale, quello di cui ha sempre parlato Danny Ainge; e richiede anche un certo tipo di approccio e di dedizione, come ha sempre predicato Brad Stevens. Tutto ciò è diventato reale sotto la guida di Ime Udoka.

C’è stato un processo abbastanza lungo che ha portato i Celtics a questo punto. Ora manca l’ultimo passo, il più difficile.