Questo articolo, scritto da Marc J. Spears per The Undefeated e tradotto in italiano da Alessandro Di Marzo per Around the Game, è stato pubblicato in data 5 ottobre 2020.


Nonostante il lusso presente nella “bubble” NBA di Orlando, il veterano Udonis Haslem trascorre le sue giornate mangiando zuppe e tonno in scatola, prodotti da microonde come il tradizionale “mac and cheese” o popcorn, biscotti Graham, cereali e noodles confezionati. Preferisce inoltre in letti a comparsa rispetto ai comodi letti king-size presenti nelle stanze, proprio come Jimmy Butler. E nonostante la possibilità di legare con altri giocatori NBA all’interno del Gran Destino Tower, è difficile vedere Haslem parlare con uomini che non facciano parte della sua squadra. Udonis, da questo punto di vista, si può considerare il simbolo dei Miami Heat, che si sono dimostrati scomodi e poco amichevoli anche fuori dal campo, concentratissimi sull’unico obiettivo che conta: il titolo.

“Leader come me e Jimmy servono. Le nostre azioni riflettono la mentalità che cerchiamo di diffondere. Se osservate il nostro approccio quotidiano nella bolla, capite che non siamo qui per fare amicizia con nessuno: personalmente, avrò parlato al massimo con 5 persone all’infuori dei miei compagni da quando siamo qui, e non sono uscito dalla stanza finché non è arrivata mia moglie. Non dormo nemmeno nel letto, ma sul materasso mobile, così come Jimmy, con la stanza piena di zuppe Chunky”.“Non voglio usufruire di tutte questi comfort, rilassarmi e vivere come se mi trovassi a casa mia. Preferisco trovarmi al limite e restare concentrato sull’obiettivo principale”.


Il percorso cestistico di Haslem è stato duro fin dall’inizio, quando, nel 2002, si è ritrovato undrafted. Ha dunque iniziato a giocare partendo dalla Francia, mantenendo però la sua routine sull’Eastern Standard Time (6 ore di differenza rispetto a dove giocava) per restare al passo con gli orari NBA. Nel 2003 ha poi firmato con gli Heat... e il resto è storia.

In 17 anni di carriera, tutti trascorsi a giocare per la squadra della sua città, Haslem ha collezionato 3 titoli NBA e si è creato un’ottima reputazione come uomo d’affari nell’area. Durante questa stagione, l’ormai 40enne ha giocato solamente 4 partite, ma il suo contributo fuori dal campo è stato ampiamente apprezzato dai due All-Star Jimmy Butler e Bam Adebayo. Insomma, quasi come un fratello maggiore, esigente e schietto, pronto a sostenere i suoi da bordo campo.

Haslem ha recentemente parlato con The Undefeated della sua esperienza a Orlando, del suo rapporto con Butler e del suo – delicato – futuro in NBA.

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FOTO: NBA.com

Per gli Heat sei come un fratello maggiore. Che ruolo hai e quanto conta per la squadra?

“Tra i miei compagni, di norma, io sono il generale, il capitano. Ma qui a Disney World ho capito anche come essere un soldato. Attualmente la ‘Bubble’ è solo una fetta di ciò che rappresenta il basket, una piattaforma che oggi sfruttiamo per molte ragioni che vengono prima dello sport. In questa situazione mi sento un soldato, seguo i veri leader di questa Lega, ovvero quelli della National Basketball Players Association.

Ma mi piace anche essere un leader emotivo, cercando di far sì che la mia voce venga ascoltata. Stiamo provando emozioni molto varie e dentro di noi convivono sentimenti contrastanti. Nessuno di noi ha mai vissuto un’esperienza del genere, e dobbiamo assicurarci di mantenere il giusto atteggiamento, insieme”.

Hai mai pensato di rinunciare a venire qui?

“Ho avuto un unico dubbio, ed è stato riguardo al lavoro che stavo portando avanti da casa riguardo alla politica: per la prima volta nella mia vita ho avuto l’opportunità di istruirmi molto riguardo a questo tema. Ho fatto un salto nel vuoto e ho iniziato a incontrare sindaci, questori e altre persone di questo genere.

Ho anche stretto amicizia con un politico della mia età, Keon Hardemon [commissioner di Miami]. Proviene dal mio stesso quartiere, ed è molto intelligente, tanto che anche il sindaco parla molto bene di lui. Di norma, nel mondo della politica, è difficile conoscere uomini affidabili, ma Keon, per me, è uno di questi, mi sta insegnando molto. L’unica mia paura riguardo alla partenza, quindi, era quella di perdere il terreno che stavo guadagnando sotto questo aspetto”.

Stai lavorando per la comunità di Miami, da Orlando?

“Gli Heat hanno recentemente collaborato con il dipartimento di polizia della contea di Miami-Dade, oltre che con sindaci e questori. È tutto partito tramite gli Heat durante l’estate, grazie a numerose conversazioni a distanza con i maggiori esponenti del settore. Non avevo mai usato Zoom nella mia vita, e la prima videochiamata effettuata con questa applicazione è stata proprio con loro. Oggi, la collaborazione si concentra sulla pratica e su un miglioramento del rapporto tra poliziotti e comunità nere e latine. È un progetto che andrà avanti per 20 anni, quindi anche dopo che mi sarò ritirato.

Cerco di fare più cose che posso, anche se da lontano è frustrante. Fortunatamente, disponiamo di questa grande piattaforma per metterci in mostra, e questa diventa ancora più grande se si lavora insieme. Da LeBron James a me, ogni uomo fa parte della stessa squadra”.

Dopo che alcune squadre hanno pensato di far terminare la stagione in seguito allo scontro tra la polizia e Jacob Blake, cos’hai detto ai tuoi compagni? Perché avete voluto continuare?

“Ci ho riflettuto, e sia continuare che smettere erano due decisioni difendibili. Ma personalmente ho pensato che abbandonare tutto ci avrebbe fatto sembrare più deboli davanti agli occhi della gente, impedendoci anche di sfruttare la visibilità che la Lega offre.

Inoltre, alcune persone, come Meyers Leonard, potrebbero sentirsi isolate. Meyers, come altri uomini bianchi, stanno provando a capire la situazione, anche se non colgono a pieno il valore di gesti come il mettersi in ginocchio durante l’inno. Ma sono davvero brave persone, pronte a istruirsi e imparare. Se noi ci allontanassimo da questo, allora risulteremmo uguali a coloro che critichiamo”.

 

Leonard ha deciso di non inginocchiarsi durante l’inno americano. Tu sei uno di coloro che hanno parlato con lui prima di scendere in campo. Cosa vi siete detti?

“Gli ho detto di non ascoltare ciò che gli altri pensano. Noi ragazzi lo conosciamo profondamente, e sappiamo che è una persona davvero a modo. Sono in molti coloro che urlano ‘Black Lives Matter’ e, subito dopo, smettono di pensare alla situazione, senza dedicare un singolo minuto o senza donare un solo centesimo a favore della causa. Leonard sta invece passando parte del suo tempo cercando di comprendere meglio: non è colpa sua se ha potuto usufruire del privilegio di essere bianchi per tutti la vita. Si sta impegnando per questa causa, non solo investendo il suo tempo per imparare, ma anche donando soldi.

È sbagliato attaccare le persone solo perché non conoscono le cose, penso sia il più grande errore che stiamo facendo. Dire ‘guarda, qualcuno non è dalla nostra parte’ è inutile, perché magari alcuni sanno poco di questa situazione e basta. C’è una grande differenza tra chi non sa le cose e chi non si interessa”.

Che progetti hai per continuare a farti sentire ancora fuori dal campo?

“Quando torneremo a casa mi riattiverò senza dubbio: la città di Miami mi ha dato troppo per fermarmi già ora. Mia sorella, ad esempio, lavora per il dipartimento di polizia, e questa è la cosa che mi rende più felice. Da quando mia mamma è mancata, sono stato io a dovermi prendere cura di lei. Ma non è l’unica della famiglia: anche mio zio e due miei cugini, infatti, sono poliziotti. Mia zia, invece, è una contabile.

In totale, sono circa 20 i miei familiari che lavorano per la polizia di Miami-Dade. Sono persone normalissime, come lo siamo io e te. Ma quando la gente comune vede un poliziotto, pensa subito male. ‘If you blue, you blue’. In futuro cercherò di attivarmi per provare a scavalcare questo ostacolo della società. C’è molto razzismo sistematico e troppi terribili poliziotti, ma a volte anche le persone comuni non sono da meno”.

Che rapporto hai con i membri della tua famiglia che lavorano come forze dell’ordine?

“Parlo con loro tutto il tempo. Sono molto aperti, onesti e diretti con me. Sono testimoni diretti delle intimidazioni subite dai poliziotti bianchi, che però spesso reagiscono in maniera irrazionale. È la verità, purtroppo. Dal canto mio posso solo cercare di colmare le lacune presenti oggi nella società, cosa che penso di fare anche assieme i Miami Heat grazie alla collaborazione con Miami-Dade”.

Hai presenziato alle Finals per ben tre decenni consecutivi. Che significato ha questo per te?

“Ha un grande valore. La gente parla spesso di ciò che io faccio per i miei compagni, ma i compagni stessi fanno molto di più per me. Se i ragazzi non mi ascoltassero e non fossero entusiasti di vedermi come guida e di imparare da me e dalle mie storie, dubito che oggi, a 40 anni, sarei in queste condizioni mentali, fisiche ed emotive. Mi affido a questi ragazzi proprio come loro si affidano a me. Ci diamo una spinta reciproca: ogni parte ha bisogno dell’altra”.

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FOTO: NBA.com

Qual è la chiave del rapporto tra te e Jimmy Butler?

“Io e lui ci piacciamo a vicenda. Entrambi siamo cresciuti vivendo di rabbia e frustrazione, e abbiamo lavorato pensando ai limiti fittizi che la gente comune ci attribuiva. Ci siamo proprio nutriti di questo, fino ad oggi, ed è per questo motivo che ora siamo qui. Se sfrutti frustrazione, rabbia e furore nella maniera corretta, allora si noteranno i risultati. Io e Jimmy ne siamo l’esempio”.

Ora che lo conosci così profondamente, cosa fa di lui quel ragazzo speciale che è?

“Non si vedono spesso giocatori che si battono in ogni partita, durante ogni possesso, cercando davvero di vincere ogni volta che scendono in campo. In questa Lega, ci sono molti ragazzi che dicono: ‘sarà per la prossima partita’; oppure: ‘durante questo possesso mi prendo una pausa’. Io non ho mai ragionato così, preferisco giocare ogni azione al massimo delle mie possibilità, su entrambi i lati del campo. Ed è questo che vedo anche in Jimmy: non gli importa davvero nulla delle condizioni di gioco, giocherà duro finché riuscirà. Non ho mai avuto il bisogno di andare da Jimmy e parlare del suo mancato impegno. Mai”.

Nella tua dispensa troviamo zuppe Chunky, scatolette di tonno e noodles, nonostante il cibo disponibile nei ristoranti. Perché hai fatto questa scelta?

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FOTO: Marc J. Spears

“Questo cibo fa parte del mio stile di vita, davvero. Qui nella ‘Bubble’ non conta solo il basket. Spero di uscirvi da uomo, marito, padre e uomo d’affari migliore. Ad esempio, sto imparando molto riguardo al mercato azionario, quando prima non mi importava davvero niente.

Ora, invece, ho comprato azioni Apple, poco prima che eseguissero lo stock split, così come ha fatto Tesla. Voglio terminare questa avventura con qualcosa in più rispetto a quando sono arrivato”.

È la tua ultima stagione NBA?

“Dipende da come finirà… in tutta onestà, ne parlerò in futuro con il coaching staff. Ho bisogno di stare in queso ambiente, ma non per forza come allenatore, solo perché molti pensano che sarebbe un ruolo migliore per me. Tengo molto allo spogliatoio, sono stato in grado di spostare l’ago della bilancia e aiutare la squadra a vincere varie volte. Ed è questo che conta: che io stia in campo o meno, mi basta trovare modi per dire ancora la mia e aiutare i ragazzi a trovare il successo”.

Come ti senti fisicamente?

“Benissimo. Ormai gli allenamenti sono come delle partite per me, do tutto ciò che ho. Sono anche riuscito a giocare 22 minuti in Preseason senza stancarmi, quando erano anni che non mettevo piede in campo.

Uno dei maggiori motivi per cui i ragazzi mi seguono è perché non solo parlo, ma dimostro anche con i fatti. Non sono quel tipo di uomo che si limita a guardare da fuori dal campo con patatine e bibite in mano, preferisco trovarmi nelle stesse situazioni dei ragazzi, sudare con loro in allenamento. Se riesco a fare qualcosa io, non c’è motivo per il quale gli altri non possano replicare”.

Come è andata la gestione dei tuoi affari durante la pandemia?

“Da questo punto di vista è stata dura. Ho alcuni ristoranti e mi è dispiaciuto tantissimo, perché il mio unico scopo nel gestirli è fornire lavoro per la mia comunità. Quando hanno chiuso tutto, io e Dwyane Wade ci siamo sentiti tristi per i nostri dipendenti, quindi abbiamo provato a sostenerli con gift card e beni alimentari. Ora non possono lavorare come prima, ma almeno stiamo riaprendo al 50% per quanto riguarda le parti esterne dei locali. Spero che tutto torni alla normalità il più presto possibile.

I miei progetti immobiliari, invece, stanno andando meglio, e sono molto felice, perché ora il quartiere di Wynwood sta diventando una parte importante per il turismo di Miami, quando sette o otto anni fa pochi la conoscevano. Alcuni miei amici vivono ancora lì, e avviare progetti in questo quartiere è un buon modo per non far sì che la gente si trasferisca”.

Vorresti restare nel mondo NBA, quando smetterai di giocare?

“In qualche modo, sì. Ma solamente con gli Heat, è l’unico vincolo che pretendo. Qui ho vissuto a pieno la cultura della squadra e sono stato in grado di formarla e modellarla in prima persona”.

Che impatto pensi di aver avuto sulla Heat Culture?

“Oggi non parlo molto, ma tutti devono sapere che, una volta entrati in spogliatoio, dovranno vedersela con me. Abbiamo avuto grandi leader durante gli anni, da LeBron a Wade, che ritengo il più grande simbolo della franchigia. Chi segna merita rispetto, ma in spogliatoio conta ben altro, e bisogna passare anche da me. Non tutti sarebbero in grado di rappresentare la Heat Culture come si deve”.

Se dovessi presentare questa cultura a chi non la conosce, cosa diresti?

“Se ho 40 anni, ho il 6% di massa grassa e faccio 10 serie di suicidio ogni volta che corro, allora cosa potrebbe fare un ragazzo di 22 anni? Non capisco come non potrebbe ALMENO eguagliarmi. Qui dentro, dire ‘non riesco’ è proibito”.