All’alba delle sue seste NBA Finals, Draymond Green ha parlato con Marc J. Spears in modo provocante, elettrico, ma anche sincero e molto profondo. Insomma, a modo suo.

Draymond Green nba around the game
FOTO: NBA.com

Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Marco Marchese e Alessandro Di Marzo per Around the Game.


Draymond Green è grato ed entusiasta di aver raggiunto per la sesta volta in carriera le NBA Finals con i suoi Golden State Warriors.


Ciò che lo rende ancor più felice è la gratitudine e la gioia che i suoi giovani compagni gli stanno dimostrando, essendo arrivati per la prima volta alle Finals . Proprio come aveva fatto lui stesso nel 2015. “Mi è già successo svariate volte, ormai”, ha detto Green a Andscape in un’intervista dopo un allenamento. 

“Vivo per questi momenti. Senti che tutto il lavoro che hai fatto ti ha portato qui, e poi tutto accade, arriva il momento che stavi aspettando. A questo punto si deve restare molto concentrati. Guardo alla riconoscenza e gratitudine che noto nei più giovani, che hanno raggiunto quest’obiettivo per la prima volta. Osservo i loro comportamenti, il loro entusiasmo per questa loro prima volta. Questo mi ha fatto pensare che il tempo ha cambiato un po’ le cose per me. Dovevo provare di nuovo certe emozioni, ma la prima volta è sempre unica, certe cose si provano una volta sola nella vita.. perciò, per quanto mi riguarda, mi rendo conto di aver avuto il mio spazio e adesso mi sento felice nel vedere questi ragazzi vivere il loro sogno.”

Green, 3 volte campione NBA, 4 volte All-Star e vincitore del Defensive Player of the Year 2017, adesso si prepara ad affrontare le Finals contro i Boston Celtics, freschi vincitori delle Eastern Conference Finals sui Miami Heat.

Nel corso della sua intervista ad Anscape, Draymond si è detto entusiasta di questo traguardo e ha poi discusso della legacy degli Warriors, ricordando vari momenti storici per lui e per la franchigia.

Quando ti sei trovato a osservare le reazioni dei tuoi compagni più giovani, che per la prima volta hanno raggiunto le NBA Finals, cos’hai notato in particolare?

Soprattutto la gratitudine che Jordan Poole e Nemanja Bjelica stanno dimostrando a chiunque. Ed anche Jonathan Kuminga. E vedere tutto ciò in questi ragazzi mi fa pensare che loro sono il motivo per cui gioco. Non puoi far altro che pensare a tutto ciò che ci ha condotto fin qui. Quanto ci è costato arrivare fin qui? Come ci siamo riusciti? Perciò, per me si tratta di concentrarmi e pensare a certe cose, per far provare a questi ragazzi ciò che io ed i miei compagni abbiamo già provato sulla nostra pelle, varie volte. Questa è la mia prima motivazione.

Dopo aver vinto il mio primo titolo nel 2015, il mio più grande timore era (e lo rivelai a Sekou Smith e Rick Fox) non riuscire a provare mai più quelle sensazioni. Tutto il percorso, arrivare in finale e poi scoprire cosa si sente a portare a termine il lavoro la prima volta: la sensazione più bella del mondo.

Nella tua mente sai che esiste un solo modo per provare nuovamente quella sensazione, ed è vincere ancora. Ma quando vinci per la seconda volta ti accorgi che c’è qualcosa di diverso rispetto a prima. Tuttavia, dopo aver lavorato così duro per centrare il tuo obiettivo, raggiungerlo e dimostrare il tuo valore dà ancora un’immensa soddisfazione. Adesso mi rendo davvero conto che provai sensazioni leggermente diverse, la seconda volta. La spinta che sento adesso è voler vedere vincere i miei compagni più giovani, farli sentire il centro dello sport che amano.

Tornando al 2015, Steph Curry di solito si presentava in conferenza stampa post-partita “scortato” da sua figlia Riley. Oggi, Draymond Green è accompagnato dal figlio DJ.

Adora stare qui. Gli piace assistere alle partite e nel suo piccolo far parte di tutto questo, seguire gli allenamenti e imparare. Mi dice spesso che un giorno diventerà un allenatore. Ama questo gioco.

Si siede persino a disegnare schemi sulla lavagnetta, oggi ne ha fatto uno. Osserva gli assistant coach Mike Brown, Bruce “Q” Fraser, Kenny Atkinson e anche coach Steve Kerr. Li osserva proprio come un vero allenatore, prende appunti e poi viene da me a spiegarmi che “Il n°30, Steph, prende palla, gli giri intorno e te la passa, tu gliela ridai, scatti e lui ti serve l’assist per schiacciare”. Gli allenatori sono sempre pronti ad ascoltarlo e mostrargli qualcosa. E a lui piace moltissimo stare qui e vale lo stesso per me, perché posso condividere con lui tutto ciò, e questo non ha prezzo.

La mia più grande paura era potermi trasformare in quel tipo di padre che spinge e forza il figlio a giocare a basket; e non voglio neppure essere il tipo di padre che “ho vinto questo, ho fatto quell’altro, e adesso tocca a te”. Preferisco che sia lui a scegliere: se gli piace il basket e vorrà farne parte, ottimo. Farò di tutto per trasmettergli ciò che so e che sono, per permettergli di esprimersi al meglio. E se volesse davvero fare l’allenatore, allora farò tutto ciò che sarà nelle mie possibilità per permetterglielo.

Ma ciò che conta di più è che sta scoprendo di amare questo sport da sé, che ritengo sia la cosa più importante; non voglio forzarlo solo perché tutto il mondo pensa che debba giocare a basket solo per il cognome che porta.

Gli piace tantissimo stare in palestra, e va fuori di testa quando torno dagli allenamenti e lui non è potuto venire. “Papà, sei andato davvero senza di me?”, mi ha detto un giorno. “Tutti mi vogliono, ma tu non mi hai portato”. Allora ho dovuto fermarmi a spiegargli che devo essere concentrato al massimo, adesso che siamo nei Playoffs, e che spesso non posso portarlo con me. Cerco di fargli capire che lo faccio perché ho bisogno di mantenere alta la mia concentrazione per prepararmi al meglio. Se lo capisce? Beh, capisce che è quello di cui ho bisogno, ma non capisce perché lo lascio a casa. Ma un giorno se ne ricorderà, e quando lo farà riuscirà a capire il perché delle sue attuali domande.

In ogni caso, averlo vicino e tutto ciò che comporta è una sensazione impareggiabile, sia per me che per DJ. E comunque so che, qualunque percorso decida di intraprendere, ciò che gli sto insegnando è importante. Che sia nel basket o no, osservare il duro lavoro quotidiano e comprenderne il valore è un dono importante.

Qual è la tua opinione sui Boston Celtics, avversari nelle Finals?

Sono un’ottima squadra. Sono davvero forti, sia in fase offensiva che difensiva. Hanno una cultura sportiva e cestistica in cui credono e che portano avanti, un fattore che ritengo molto importante. E sono davvero affamati.

Questa squadra è arrivata in fondo ai Playoffs in 4 occasioni negli ultimi 6 anni, e per poco non ha fatto il salto che adesso è riuscita a compiere. Adesso hanno tutta un’altra consapevolezza dei propri mezzi. Da gennaio ad oggi sono praticamente la miglior squadra della lega, perciò ci siamo chiesti cosa possiamo fare per eludere alcune delle loro migliori qualità, non restare in balia del loro gioco e sfruttare le loro debolezze. Questo è il nostro compito.

Si tratta di comprendere e limitare i loro pregi, e sfruttare le loro carenze. Hanno una grande difesa, davvero incredibile. Ma tutti hanno un punto debole, o sbaglio? È naturale, per quanto forte l’avversario possa essere, ci sarà sempre un modo per metterlo in difficoltà. Noi dobbiamo comprenderlo e metterlo in pratica. Funziona così.