Piccolo affresco della carriera di CJ McCollum, un “secondo violino” capace di vestire i panni del protagonista.

Quello del secondo violino, del braccio destro, del Robin di Batman, è un ruolo per pochi. Forse, per svolgerlo come si deve, sono tagliati in meno di quanti non lo siano per suonare il primo. Il basket, esatta via di mezzo tra sport di assoluto collettivo come il calcio e gli sport individuali o semi individuali come la F1, ha reso questa relazione tra protagonista e braccio destro evidente agli occhi del tifoso, esponendone un curioso – ma soprattutto delicato – lato umano; basti pensare a come dopo 30 anni ci siano ancora dei malcelati dissapori tra Michael Jordan e Scottie Pippen, che senza entrare nel dettaglio – è un articolo, non un libro – nascono e – forse – moriranno nel personale, perché sul campo funzionavano anzichenò.

Ma non è sempre così. Alle volte invece il rapporto funziona, l’amicizia e la complicità traspare, e i due – quando non tre – si adattano meglio alla definizione di socio, rispetto a quella di amico. E nella scelta di Christian James McCollum di andare a New Orleans, c’è qualcosa che rimanda al Socio di John Grisham.

Che poi si sia staccato – di comune accordo – dai vertici di Portland non per loro scelleratezza ma per loro incapacità, è un’altra storia. Come è un’altra storia che in NBA otto anni consecutivi ai Playoffs, in un Ovest selvaggio per davvero, con una Finale di Conference e nello stesso periodo dorato dei Warriors, ti valgano la definizione di good but not great. E’ una giungla.

Lehigh, l’upset, il draft

ph: SB nation

CJ McCollum nasce 29 anni fa a Canton, in Ohio, nota ai più per essere la sede della Pro Football Hall of Fame. Non essendo molto richiesto in uscita dal liceo, sceglie la Lehigh University in Pennsylvania, e i suoi Mountain Hawks. Ancora oggi, il giorno più glorioso di questo piccolo ma antico ateneo è il 16 marzo 2012, quando tutta la nazione venne a conoscere i bianconeri in questione – seed #15 – e soprattutto CJ: con una statline da 30 punti, 6 assist, 6 rimbalzi e 2 rubate, isolamento dopo isolamento il Nostro mandò a casa una nobile come Duke, testa di serie #2 che annoverava in quintetto i fratelli Plumlee, Austin Rivers e Seth Curry. Uno degli upset più assurdi nella storia del Torneo NCAA.

Purtroppo per CJ, a livello collegiale quello fu il suo canto del cigno, perché Lehigh fu eliminata da Xavier alle Sweet 16 e l’anno dopo una frattura al piede fece terminare la sua stagione dopo sole 12 partite. Eppure, quella prestazione, unita ai 29.3 punti di media in quella dozzina di gare da senior, convince i Portland Trail Blazers a sceglierlo con la chiamata n.10 nel Draft del 2013. Solo 5 prima di Giannis Antetokounmpo. Scelta tra l’altro coerente con il piano dell’allora GM Neil Olshey, che l’anno prima con la sesta aveva selezionato da Weber State, un’altra scuola di secondo piano, Damian Lillard. Il primo punto di contatto tra i due soci, il primo – allora probabilmente fu anche l’unico – ad aver visto in loro due un backcourt che sarebbe stato in grado di competere con chiunque.

Infatti, quando si dice che hai una sola chance per dare una prima impressione, alle volte è vero. Durante la sua prima gita per osservare McCollum, oltre alla neve per arrivare in Pennsylvania, Olshey assistette anche ad un errore del nostro sull’ultimo tiro, valido per vincere una partita in cui comunque era stato brillante. Ciò che colpì il GM fu come CJ rimase sul campo, proprio sulla stessa mattonella, per molto tempo dopo la sirena. Era chiaro che lì si stesse costruendo un senso del dramma di un certo tipo.

Dame, l’orologio e la panchina

FOTO: Blazers Edge

Non è stato facile, dopo 8 anni, lasciare The City of Roses. L’ha raccontato CJ – con la penna di chi si nutre di storie, e ci arriveremo – a The Players’ Tribune nella sua Dear Portland , che spazia dalle prime fughe – diurne, sia chiaro – in giro per gli States con l’amico Dame alla sofferenza dello stare in panchina. Eppure qualcuno oltre ad Olshey ci aveva visto lungo, e come i veri soci non solo per affetto, ma anche per stima. Lillard, che era stato da subito messo nelle condizioni di prendere in mano la franchigia, continuava a spingere il Nostro in allenamento, perché con lui non faceva mistero di quanto soffrisse il poco spazio in rotazione. Ed effettivamente non è un trattamento normale per uno che scegli in lottery, figurarsi per uno che ha sempre avuto bisogno di un discreto volume per risultare effettivo.

Immaginate ora Lillard e McCollum che girano per una qualunque città, o addirittura a Portland, con tuta d’ordinanza e senza nessuno che li riconosca. Prima erano così, e Dame arrivò per primo a capire il suo status, dando una mano a CJ anche qui. C’era questo orologio, sul listino figurava a 3000 dollari, e lui lo guardava sempre, discuteva col commesso, ma alla fine usciva sempre dal negozio: “Non vorrei finire in un documentario di quelli dove ti fanno vedere come finiscono subito i soldi”, diceva a Dame. Finché alla quinta volta quest’ultimo lo costrinse a comprarlo: “Basta, sei in NBA, compra il maledetto orologio”. E tornavano al bus della squadra senza rientrare in hotel, in ritardo, con ancora le buste dello shopping. E via alle occhiate di disperazione dei veterani, i quali ricordando la ‘cultura’ dei Jail Blazers usavano fare tardi di sera, e non frequentavano troppo i centri commerciali.

Tornando all’hardwood, durante il secondo anno nella Lega Portland firmò Aaron Afflalo, per avere profondità in vista della post-season: i 15 minuti a partita del Nostro scesero ulteriormente. Ma il suo momento stava arrivando, visti gli infortuni a Wesley Matthews e appunto ad Afflalo, toccò al nostro, che però al primo turno contro la Memphis di Marc Gasol e dell’ex Zach Randolph chiuse con 2 punti e 1/8 dal campo. Perso il posto nel quintetto in favore di un rampante Allen Crabbe, non si perse però d’animo e in Gara 5 incorniciò la sua prima memoria rossonera, con i 33 punti che rappresentano il primo capitolo di una storia personale con gli elimination game, nei quali ha sempre brillato particolarmente: un tratto in comune con i più grandi.

La maturità, i Playoffs, i Warriors

Come dicevamo, 8 stagioni consecutive ai Playoffs sono tante, soprattutto quando includono dei classici assoluti come il thriller in 4 overtime contro Denver in Gara 3, e poi la conseguente prestazione in Gara 7 di CJ. Nel suo primo anno da starter, il Nostro si prende gli onori del MIP, e giusto per far capire quanto Olshey lo stimasse, ebbe a commentare: “Non sarà il suo ultimo premio nella Lega”. Finora lo è stato.

I Classici, si diceva. E’ quello che sono stati per Portland lui e Lillard, perché ‘Dame & CJ’ scorrono così bene insieme, sono così eleganti da dire, superati soltanto da come giocavano insieme. Era come dire un nome solo; sul lato offensivo, sia chiaro.

Hanno scolpito, oltre a una cultura sempre complessa da instillare in uno small market, un’era almeno top 5 nella storia della franchigia, da mettere di fianco a quella di Bill Walton e Maurice Lucas sul finire dei ’70, ovviamente ai ’90 di Clyde Drexler e Terry Porter – fermati solo dai Pistons prima e dai Bulls di Jordan poi. Senza dimenticare l’ingresso nei 2000 con la tumultuosa eccellenza di Rasheed Wallace e Damon Stoudemire.

Oltre al breakout contro Memphis, ci sono stati dei momenti brillanti che hanno definito questa cavalcata, se non trionfale quantomeno memorabile: il primo risale al 2016, ed è anche la prima ferita per mano dei Warriors. Nessuna squadra era riuscita nella storia della NBA a buttare tre vantaggi superiori a 15 punti in tre partite consecutive, record ancor più doloroso calcolando che è stato registrato nelle Western Conference Finals del 2019. Aggiungiamo anche nel 2016 – complice un Kevin Durant ancora in Oklahoma – i Blazers avevano una chance ancora migliore, avendo condotto Gara 2 per 40 minuti, Gara 3 per 31, Gara 4 per 36 e Gara 5 per 29. Mettendo tutto insieme, viene fuori una vittoria.

Proprio in quella Gara 5, McCollum mise a segno 27 punti (11/23 dal campo): un altro elimination game. In quello precedente, si prese invece questo “lusso”:

Il thriller con Denver, dicevamo. E che thriller, una serie di cui si parlerà ancora tra 25 anni, e tra i motivi dovrà esserci anche questa statline della Gara 3 in 4 overtime che meglio di qualunque prosa può descrivere quanto fatto dal Nostro quella notte: 60 minuti – record di franchigia in post-season – 41 punti (16/39 FG), 8 rimbalzi, 4 assist.

Soltanto durante i supplementari ne mise 18 tra floaters, pull-up e i mid-range brevettati. “This is what i’m built for”. Nelle prime due serie di quell’anno, portò di media 26 punti, 6 rimbalzi e 3 assist, col 46% dal campo e il 41% dall’arco. ‘Robin’ potrebbe risultare riduttivo.

Un altro episodio di questa saga invece è occorso in Regular Season, e come ci ricordava sempre l’Avvocato parlando degli 81 di Kobe “servono anche degli avversari conniventi”.

Prendete questa parola per buona, i Bulls del 2018 lo erano eccome. E dunque via allo spettacolo, con 50 punti in 29 minuti: prima di lui ci era riuscito soltanto Klay Thompson, indovinate contro chi? I Chicago Bulls… del 2017. E giusto per sottolineare un certo qual legame, Lillard decise di unirsi al club giusto una settimana dopo, a Sacramento.

E arriviamo quindi al momento più alto della carriera di CJ, una partita tanto importante – Gara 7 sempre di quella serie epica contro Denver – quanto definitiva per lui, perché realisticamente ci sono due o tre momenti qui che vanno sopra a tutti gli altri finora. 10/17 dal campo solo nel secondo tempo, 37 con 9 rimbalzi alla sirena, con un repertorio vasto e raffinato nel mid-range da far cadere la mascella anche agli OG del mestiere:

Lascia Portland come quinto nello scoring all-time, dietro solo a Drexler, Lillard, Aldridge e Terry Porter; chiude ottavo invece per assist. Il punto è che in Oregon li ha fatti impazzire anche in un senso diverso da quello appena descritto, come ad esempio in Gara 2 delle WCF contro Golden State, quando ha preso una scellerata tripla in transizione invece di servire un compagno sotto canestro. Jason Quick di The Athletic chiese allora nello spogliatoio se quel tiro fosse stato preso per egoismo: “No” – rispose il giocatore rimasto senza nome – “per arroganza”.

In conclusione, forse con un paio di anni di ritardo, Portland ha deciso di ricostruire, e non è dato sapere se ciò avverrà con o senza Lillard, il quale in ogni caso può andarsene senza alcun rancore in caso di rebuild totale. Sempre ammesso che lassù possano portare rancore a Dame per qualsivoglia motivo. Ci sono andati vicini, a volte troppo poco, a volte così tanto che è stato ancora più frustrante. Ma nulla è eterno, specialmente nella NBA, e da un lato riprovarci con un nuovo GM perché “superteams ain’t my way”, e dall’altro andare a fare da mentore a Brandon Ingram e Zion Williamson, sono prospettive ottime per finire ciò che si è iniziato. Senza rancore, e non era per nulla scontato.

New Orleans, Pull Up e il futuro

New Orleans. “You wouldn’t understand”, diceva un magistrale Matthew McConaughey in una serie girata proprio da quelle parti. Una delle città più culturali degli States, a forte prevalenza nera – e resta infatti l’unica capitale mondiale del jazz – un’architettura da sogno di chiara eredità francese ma anche paesaggi spettrali, molto aiutati dalle paludi; ospita anche l’unica occasione nella quale – in cent’anni di saga – persino Zio Paperone fu fregato.

E poi ci sono i Saints, squadra locale di football che da mezzo secolo monopolizza le attenzioni sportive della città; con il loro SuperDome ne sono stati anche il simbolo della rinascita post Katrina. Al ritiro dell’Hall of Famer Drew Brees doveva compensare la pick con la 1 di Zion Williamson, ma finora ci sono stati più problemi del previsto, e la prossima sarà l’estate del supermax. Ad oggi, e la dirigenza dei Pelicans l’ha già messo in chiaro – secondo i ben informati – non si è visto abbastanza per proporlo.

CJ ha definito il suo trasferimento “un’accoppiata fatta in paradiso”. E infatti da un lato NOLA aveva un disperato bisogno di un ball handler (non che sia il suo tratto migliore), di qualcuno che potesse alzare le percentuali dall’arco, 28simi nella Lega fino al suo arrivo, ed anche di esperienza considerando che sopra ai 25 in rotazione c’erano i soli Valanciunas e Graham. Parole al miele anche per coach Willie Green, capace di farlo sentire a suo agio con dei set offensivi che amava a Portland, e che mai gli ha chiesto di modificare il suo gioco.

Come prima esperienza si è chiesto tanto al nostro, arrivando in una situazione disperata: senza Williamson, col Play-In lontano, un nuovo coach e magari anche qualche free agent da attirare. Eppure, anche arrivando ai Playoffs 2022 come unica squadra con record perdente, sono arrivate le vittorie tirate contro Spurs e Clippers al Play-In e un’ottima figura in 6 gare contro i Phoenix Suns campioni in carica della Western Conference.

Le due stagioni passate sono state invece piuttosto deludenti, ma anche segnate dagli infortuni di Zion Williamson nei momenti decisivi. Se dovesse reggere il fisico della prima assoluta al Draft 2019, la scelta del Nostro potrebbe rivelarsi oltremodo saggia.

C’è un ulteriore e finale aspetto del McCollum personaggio pubblico che vale la pena di approfondire: il suo podcast. The Pull-Up nasce in un periodo dove non è comune per un giocatore ancora in attività creare un prodotto mediatico, ma non solo: se avere ospiti di un certo livello è più facile, essendo nel giro, non è invece naturale come CJ riesca a spaziare su temi alle volte anche lontani dalla pallacanestro, e come ci sia sempre un lavoro di attualità approfondito e ben costruito. Come ad esempio quando ha ospitato Adam Schefter – uno dei reporter NFL più rispettati – e l’ha messo dietro al microfono, per dare una prospettiva del lavoro strettamente giornalistico. Oppure si può ricordare l’episodio con DeMar DeRozan, col quale la scaletta è andata molto fuori dal parquet toccando temi in comune a questo nostro storytelling.

In conclusione, CJ McCollum non è tra i Top 15 della Lega, ma può decisamente aiutarti a batterli. Ci ha provato e per almeno altri due o tre anni (uno dei 4 non All-Star a firmare un quinquennale a nord dei 110 milioni di dollari) continuerà a farlo.

Maybe we didn’t reach our ultimate goal. That’s basketball. That’s life. 

But dammit if we didn’t try, Jennifer.