L’head coach dei Los Angeles Clippers ha toccato tanti temi nella sua interessante chiacchierata con Marc J. Spears (Andscape).

Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape, tradotto in italiano da Anna Cecchinato per Around the Game.
L’head coach dei Los Angeles Clippers, Tyronn Lue, sta facendo colazione nel suo ufficio mentre da una finestra al piano di sopra si possono vedere i suoi ragazzi riscaldarsi per l’allenamento, in attesa del suo arrivo.
Beh, non proprio tutti. La maggior parte di loro. Kawhi Leonard, stella della squadra, è stato fuori per tutta la stagione per il problema al ginocchio patito nei Playoffs 2021; l’altra stella, Paul George, se n’è perso gran parte; e il nuovo arrivato Norman Powell è ancora fuori a causa di un infortunio al piede. Lue spera che tutti loro, e non solo PG, possano tornare per la post-season. I Clippers chiuderanno la RS al nono posto e si giocheranno l’accesso ai Playoffs nel Play-In.
“Speciali. Se tutti e tre rientrano in tempo, possiamo essere speciali,” ha detto Lue ad Andscape lo scorso 21 marzo. “E su questo non ho dubbi, vista l’esperienza che hanno acquisito gli altri ragazzi durante la loro assenza. Con due superstar e Norman Powell, che è un ottimo giocatore, può davvero succedere qualcosa… Tutto è possibile. Si, è possibile. Speriamo.”
Dall’allenare i Clippers alla sua gioventù a Mexico (Missouri), dai suoi giorni da stella collegiale a Nebraska fino a vincere due titoli NBA, nulla è stato facile nella carriera di Ty Lue.
Dopo aver avuto l’opportunità privilegiata di allenare i Cavaliers di LeBron James, vincitori dell’anello nel 2016, lo stress dell’impresa ha portato Lue a prendersi un periodo di riposo nel 2018. La sfida di oggi è mettere i Clippers nella posizione di poter ambire seriamente al titolo una volta tornati in campo tutti i loro migliori giocatori.
In questo Q&A con Marc J. Spears (Andscape), Lue ha parlato delle sfide più difficili che ha dovuto affrontare in tutti questi anni, dentro e fuori dal campo.

Prima di tutto: cosa ci dici degli infortunati?
Stanno migliorando, stanno facendo riabilitazione e stanno facendo progressi, ma ancora non sappiamo se torneranno o meno. Li rivogliamo sul campo, ne abbiamo bisogno, anche perché gli altri ragazzi hanno speso molte energie in loro assenza. Sono obbligati ad eccellere ogni sera, giocare “fuori posizione”, fare più di quello che sono abituati a fare, e lo hanno sempre fatto comunque. Ma abbiamo bisogno di altro, siamo un po’ stanchi.
Qual è stata la chiave nell’allenare i Clippers per mesi senza le sue stelle?
È stato frustrante perché in questi casi mi piace essere preparato. Mi piace provare vari schemi offensivi, e ho imparato a gestire la cosa solo quest’anno con il Covid, tra infortuni, contratti da 10 giorni e l’utilizzo dei ragazzi della G-League. Abbiamo dovuto semplificare tutto, giocando un basket il più semplificato possibile e rendendolo più facile per i nostri ragazzi. Chiedo loro di non pensare troppo. Chiedo di saper leggere le situazioni e giocare, e in questo hanno fatto un ottimo lavoro. Il nostro sistema era costruito attorno a due giocatori, PG e Kawhi, e quando sono entrambi fuori, bisogna essere in grado di cambiare e costruire attorno a quello che si ha.
Come hanno fatto i Clippers a rimanere con un buon record nonostante tutti questi infortuni?
Parte tutto dal nostro coaching staff, che ha preparato i nostri i ragazzi e ha potuto contare sul fatto che diano tutto ogni sera, soprattutto essendo a corto di uomini; merito, poi, ai nostri veterani come Marcus Morris, Reggie Jackson e Nicolas Batum, che ogni giorno danno l’esempio. Con tre dei nostri migliori uomini fuori, non ci siamo mai arresi. Come ho detto, merito anche dei nostri veterani, che ogni giorno si presentano al lavoro e danno l’esempio ai giovani. Luke Kennard, Terance Mann, Amir Coffey… è stato un lavoro di squadra. Lo è davvero. Tutti – allenatori, giovani, veterani – tutti hanno fatto la loro parte.
Come sei cresciuto in quanto coach, dovendo gestire tutto questo?
Sono cresciuto molto, perché mi piace essere preparato. E se non lo sono, non riesco a dormirci la notte. Devo finire il lavoro la sera prima o non riesco a prendere sonno, perché la mia mente impazzisce. Sono sempre stato in grado di fare aggiustamenti durante la partita, o dopo, ma quest’anno l’intera stagione è stata un grande aggiustamento, nell’inconsapevolezza di chi avrebbe giocato ogni partita, fino a mezz’ora prima. “Coach, deve star fuori, ha il Covid.” Tutto questo mi ha permesso di migliorare nel fare le cose sul momento. Non mi piace, ma mi ha aiutato a sviluppare questa capacità.
È pazzesco. Confronto spesso la mia età con quella di tutti gli altri allenatori, anche quelli più giovani. Io ho provato l’esperienza di vincere un anello ed arrivare alle Finals diverse volte con Cleveland, e mi piacerebbe essere d’aiuto per i più giovani allenatori NBA. Parlare con J.B. Bickerstaff, con Jamahl Mosley, con Chauncey Billups e Wes Unseld Jr, con Willie Green. Parlare con i giovani coach afroamericani e aiutarli a rimanere concentrati sulle loro carriere, far sapere loro come vedo le cose. So che loro non hanno avuto la fortuna che ho avuto io, che ho potuto allenatore subito una squadra da titolo. Quelle di Mosley, di Wes e Willie Green sono situazioni più complicate. Bisogna aiutarli e parlarci, fare un po’ da fratello maggiore, diciamo. Ed è ciò che cerco di fare.
Perché credi sia così importante fare da mentore ad altri head coach?
Per le opportunità. Come ho detto, io sono arrivato a Cleveland, ma non molti di loro ricevevano opportunità del genere… guidare una squadra con LeBron James, Kyrie Irving, Kevin Love. Chauncey Billups a Portland, prima che Lillard fosse indisponibile, aveva una bella squadra. Ime Udoka a Boston ha un’ottima squadra. Adesso i giovani coach afroamericani stanno avendo la possibilità di avere squadre forti, e guarda Jason Kidd… il lavoro che sta facendo a Dallas, o quello di Udoka a Boston. Abbiamo le competenze per farlo. Ed è bello veder data questa possibilità ai giovani.
Sette nuovi coach afroamericani sono stati assunti dall’NBA la scorsa stagione, dopo che soltanto un anno fa c’era grande preoccupazione sulla mancanza di rappresentazione sulle panchine, in una lega prevalentemente composta da afroamericani. Eri preoccupato della direzione in cui si stavano andando le cose?
Era difficile, sì, perché ai giovani afoamericani non veniva data realmente una possibilità. Abbiamo avuto Doc Rivers e Alvin Gentry, Dwane Casey, ma si sentiva la mancanza dei giovani. Earl Watson ci aveva provato, ma non è durato molto. David Fizdale, neppure. Non ci venivano mai date buone opportunità. Il cambiamento avvenuto la scorsa estate è stato bello da vedere. Sono sicuro che molti di questi giovani coach avranno successo in NBA.
Ci sono altri afroamericani da tenere d’occhio come possibili futuri head coach NBA, secondo te?
Il player development coach degli Utah Jazz, Keyon Doolin; l’assistant coach dei Toronto Raptors, Earl Watson; anche Dahntay Jones sarà molto bravo, ha l’atteggiamento giusto, così come John Lucas dei Lakers… Ci sono molti giovani che hanno giocato in questa lega e che hanno buone possibilità di diventare coach. Penso che anche Rajon Rondo, quando si ritirerà, potrebbe funzionare come coach. Vedremo.
Parlami del tuo rapporto con il proprietario dei Clippers, Steve Ballmer, e di come vedi il futuro con lui.
Ballmer non è come gli altri owner NBA. È davvero parte della famiglia, ed è così che tratta tutti all’interno dell’organizzazione. E la situazione non è “io sono il boss e voi dovete obbedirmi”. Per qualsiasi cosa di cui abbiamo bisogno, lui ci ascolta e ci viene incontro. E tratta tutti come qualcuno che ci tiene davvero, anche a livello umano. Si preoccupa di come sta la tua famiglia, da dove vieni, come si possono migliorare le cose… Prima di tutto si tratta di come stiamo in quanto persone, senza pensare al basket, ma di come siamo in quanto famiglie e individui, e credo che sia fantastico.
Guardando al futuro, avere la nostra arena per la stagione 2024/25 dimostra la fiducia che ha nella sua squadra, nei tifosi, e ciò che ha intenzione di fare qui a Los Angeles. Quando entreremo nella nostra arena, si coronerà un sogno che Ballmer ha avuto sin dal primo giorno qui. E finalmente ce l’ha fatta.

Cos’ha significato per te quel titolo NBA, mentre allenavi i Cavs, e quanto sei cambiato come coach da allora?
Ha significato molto per me. Tutto è iniziato con David Griffin, che credeva che avrei portato a termine il lavoro… forse anche più di me. È stata dura, dovevo prendere il controllo della situazione ed eravamo primi ad Est, con un record di 30-11 quando arrivò il mio momento (dopo l’esonero di coach Blatt). Volevo diventare head coach, credevo di poterlo fare, ma fino a che non sei seduto lì, non lo sai davvero. Quindi ero spaventato. Ho parlato con Doc Rivers a riguardo, ne ho parlato con Jerry West. Mi hanno detto entrambi di accettare, anche se ero spaventato all’inizio. Non ero sicuro che ce l’avrei fatta.
Eravamo arrivati alle Finals l’anno precedente. Eravamo primi ad Est e dovevo gestire una squadra con LeBron James, Kyrie Irving, Kevin Love e vincere il titolo. Probabilmente non ho mai sentito una pressione del genere in tutta la mia vita. La pressione era tanta perché si vuole avere successo, perché il lavoro che aveva fatto coach David Blatt era stato eccezionale.
Avevamo giocato sei partite contro Golden State, Kevin Love era fuori, Kyrie pure e comunque siamo arrivati a Gara 6. Non arrivare almeno a Gara 6 nelle Finals è considerato un fallimento, e c’era molta pressione su di me. È stata dura, ma mi ha reso più forte. Mi ha messo nella posizione in cui mi trovo oggi, di essere in grado di guidare la squadra che avevamo l’anno scorso con Kawhi infortunato e arrivare comunque a giocarci le Finali di Conference.
Quei giorni a Cleveland sono stati fantastici. Come dicevo, è iniziato tutto con la fiducia che David Griffin ha riposto in me. E poi il proprietario dei Cavaliers, Dan Gilbert, ha deciso che ero l’uomo che cercavano. Avevano più fiducia in me di quanta io ne avessi in me stesso, al tempo.
Cosa ti porti a casa dal periodo di pausa che ti sei preso nel 2018?
Per me era tutta una questione di dare il massimo nel ruolo di allenatore. Quando per la prima volta ho avuto un colloquio qui con Ballmer e Lawrence Frank, mi hanno chiesto: “Qual è la tua valvola di sfogo?” – e io gli ho risposto: “Non ce l’ho. Una volta che la stagione inizia, ci sono dentro. Non ho una valvola di sfogo.” E loro mi hanno risposto: “Non puoi continuare così. Devi averne una nel corso della stagione. Devi poter fare un passo indietro e divertiti, non solo basket, basket, basket.”
Soprattutto stando con LeBron a Cleveland, ero abituato così. Lui non perde un colpo, sa tutto. Devi essere sveglio, sapere di cosa stai parlando. A Cleveland era tutto solo basket, e non riuscivo a dormire la notte perché pensavo all’allenamento o alla prossima gara. Era davvero troppo.
Sono state utili quelle settimane di pausa per poter pensare solo a me stesso, concentrarmi su di me, allenarmi, mangiare meglio. E poi mi hanno diagnosticato un disturbo d’ansia e depressione. Dovevo occuparmene. La pressione c’era, eccome. Sputavo sangue, non potevo dormire, ho anche preso peso. A volte dovevo strisciare fino al bagno. È stato difficile, e ringrazio l’organizzazione per avermi permesso quella pausa, per prendermi cura di me stesso, per guardare a me stesso e rendermi conto di ciò che devo fare per stare meglio. Mi hanno davvero aiutato. Dopo quel momento ho capito qual era la causa e da allora sono stato bene.
Cosa fai per rilassare la mente, ora?
Vado a Las Vegas. Vado a casa. È questa la mia valvola di sfogo. Andare a casa a Las Vegas e vedere la Strip di notte, le montagne, la vista, e riflettere. E una volta a casa, non penso al basket. È la mia via di fuga, e lo è stata per questi ultimi due anni. Mi ha fatto bene.
Quant’è stata dura emergere nella piccola cittadina di Mexico, Missouri? E quanto spesso ti trovi a pensare “Wow, non posso credere di essere arrivato fino a qui”?
È stato difficile, crescere a Mexico, una cittadina di 11.000 abitanti. C’era molto spaccio di droghe, gioco d’azzardo, cose in cui non vuoi essere coinvolto. Avevo molti amici che erano in quei giri. E quando cresci con quelle persone da ragazzo, non le vedi in quel modo. Sono i miei amici. È mio fratello. Io stesso, quando torno a casa, non vengo visto come “T-Lue, coach e giocatore NBA”. Siamo cresciuti assieme ed è così che ci si vede: amici.
Ci sono state molte volte, molte notti in cui mi sono sentito di aver ricevuto una benedizione da Dio. Alcuni dei miei amici andavano in giro e io dicevo: “Non vengo con voi, stanotte.” E succedeva a volte qualcosa di brutto: ragazzi finiti in carcere, risse, addirittura dei morti. Non ci pensi da ragazzo, ma un singolo errore può cambiarti la vita. Possono essere solo 5 minuti e la tua vita cambia per sempre. Sono stato fortunato ad essermi perso molte di quelle situazioni. Ed è stato Dio a tenermene alla larga.
Ho avuto una madre single, con tre figli. Mio padre si drogava, era dipendente dal crack. È pulito da 21 anni da quando è uscito di prigione, da un bel po’ quindi, ma a lungo mi è mancata una figura paterna. Ho finito per dovermi trasferire a Kansas City il secondo anno di liceo per vivere con mio zio e trovarne una, ed è stata dura per mia madre. Ma se non l’avessi fatto, probabilmente non sarei qui oggi.
Ho poi ricevuto la mia borsa di studio per il Nebraska ed è finita la mia vita in quel posto. Ma crescere lì, sì, è stata dura. Nessuna scuola viene a cercare giocatori lì. Non ne hanno mai sentito parlare. Il basket si gioca all’aperto. Non avevamo palestre al chiuso, si gioca sul cemento per tutta la vita. Anche quando tornavo lì d’estate mentre giocavo in NBA, giocavamo fuori sul cemento.
Insomma, è stata un’infanzia difficile, ma mi ha reso la persona che sono oggi. Non posso prendermela.
È vero che non bevi né fumi?
Mai provato, non una volta. Mai, non un drink, non una sigaretta nella mia vita. Mai neanche provato.
Perché?
L’unico alcolico che io abbia mai assaggiato è stato lo champagne, perché Shaquille O’Neal, quando abbiamo vinto il titolo con i Lakers, mi ha tenuto fermo e ha tentato di aprirmi la bocca con la forza. Quindi ne è entrato un po’ e l’ho assaggiato.
Penso che sia perché quando ero più giovane a tutti i miei amici piacevano quelle cose, e io volevo essere diverso. Non volevo essere come loro, bevendo a 12-13-14 anni, fumando e facendo cose del genere. E poi, raggiunta una certa età, mi sono detto: Beh, perché iniziare ora? Ormai è una sorta di medaglia d’onore, non aver mai bevuto o fumato. Compirò 45 anni tra poco, quindi è una cosa seria.
E poi mio nonno, che io adoravo e ammiravo, era solito bere molto. Vedendo come cambiava quando beveva o meno, era brutto, non volevo essere quella persona. Anche questo me ne ha tenuto alla larga.
Ad un ragazzo cresciuto in circostanze simili alle tue, che consigli daresti?
È un cliché, ma non permettere mai a nessuno di dirti: “Non ce la puoi fare.” È pazzesco, perché un sacco di persone della città da dove vengo, gli adulti, dicevano sempre che non ce l’avrei fatta, ma questo mi dava la carica. Mio cugino, il suo patrigno e poi il padre di uno dei miei migliori amici, dicevano sempre: “Oh, è troppo piccolo. Non ce la farà. È sempre nei guai.” Poi mi sono trasferito a Kansas City. “Oh, tornerà fra un paio di mesi. Non ce la può fare in città.”
E invece ce l’ho fatta.
E poi ancora: “Non riceverà mai una borsa di studio per la Division I. È troppo piccolo.” Ed eccomi andare a Nebraska. “Non ce la farà mai ad arrivare in NBA.” E poi finalmente arrivo in NBA, e gioco 11 stagioni…
È stato ciò che mi ha motivato. Puoi farcela se ci credi. Non succederà sempre, ma più lavori duro, più ne vedrai i frutti, non importa cosa tu faccia. Quindi lavoro, lavoro e lavoro: è tutto quello che so.
Cosa significherebbe per i Clippers e Los Angeles vincere un titolo NBA, con così tanta attenzione riservata ai Lakers?
Beh, probabilmente non cambierebbe molto per i Lakers, perché hanno vinto 17 titoli… Ma sarebbe una svolta per la nostra franchigia, considerato da dove viene, tutto ciò che è successo negli ultimi anni, l’essere “lo zimbello dell’NBA” per tanto tempo.
Quando Doc Rivers e Ballmer sono arrivati qui, hanno cambiato il modo in cui viene vista l’organizzazione. Ed è incredibile. Ora è un team di “Classe A”. L’arrivo di Doc qui è stato l’inizio, e poi Ballmer l’ha portata a tutto un altro livello. Vincere il titolo cambierebbe le cose per i veri tifosi dei Clippers a LA. E per la cultura, per Ballmer… sarebbe grandioso.