Doug Smith, firma illustre del Toronto Star, ci ha raccontato com’è seguire una squadra dalla sua nascita e cosa si impara lungo il percorso.
È sempre il primo a fare domande in ogni conferenza stampa dei Raptors, come decano del nostro organo stampa è stato in prima fila per ogni sviluppo negli ultimi venticinque anni. Non c’è nessuno più indicato di lui per scrivere la storia del primo quarto di secolo del nostro team.
Nick Nurse
Doug Smith era lì a coprire i primi passi della squadra alla sua fondazione nel 1995, era lì a seguire la cavalcata del primo storico titolo ed è lì tuttora, a prendersi la domanda iniziale dalla prima fila di sedie del Media Center della Scotiabank Arena.
È il giornalista sportivo canadese più conosciuto nella NBA, il volto a cui rivolgersi in materia dei Toronto Raptors; è il primo non americano a ricoprire la carica di presidente della Professional Basketball Writers Association; ha seguito sette Olimpiadi e cinque campionati Mondiali. Insomma, come dice lui stesso: “Ho visto una cosetta o due”.
Nel libro “We The North” ha raccontato il percorso dei Raptors in termini molto personali, condividendo ricordi, aneddoti e dando particolare risalto non solo al progresso della franchigia nel corso degli anni ma anche alle figure che lo hanno reso possibile, dai giocatori più iconici a chi si è mosso dietro le quinte.
Nella tranquillità della sala stampa dell’OVO Athletic Centre, il nuovissimo campo di allenamento fortemente voluto da Masai Ujiri, Smith ha scambiato quattro chiacchiere con noi davanti a una tazza di caffè e qualche cookie appena sfornato.
- Come ci si sente ad essere il punto di riferimento dei Raptors, giornalisticamente parlando, anche a livello globale?
Ne sono molto orgoglioso, molto onorato e devo dire che è anche strano in un certo senso. Ormai seguo la squadra da più di vent’anni ma non smetto di essere grato quando qualcuno intorno al mondo si avvicina ai Raptors anche grazie a quello che scrivo, mi fa sentire piuttosto bene.
- Parlando di globalità, è evidente l’aspetto estremamente internazionale della squadra. Quanto è importante questo fattore nel far sentire i Raptors così parte di una comunità multietnica come quella di Toronto, specialmente in una città in cui è l’hockey ad essere lo sport di punta?
Ho sempre pensato che fosse qualcosa che ha dato un vantaggio alla squadra. I giocatori che vengono qui da ogni parte del mondo possono trovare qualcuno che parli la loro lingua, possono continuare ad avere contatti con il loro paese d’origine. Quando Vincenzo (nde: Vincenzo Esposito, giocatore italiano e primissimo membro del roster dei Raptors nel 1995) è arrivato qui il primo posto in cui è andato è stato il Columbus Club, un circolo italiano molto centrale in città, pieno di expat italiani.
Ovviamente la squadra può approfittarne per ampliare il suo mercato a livello mondiale, ma è anche un segnale per i giocatori dall’Europa, Asia o Africa che possono sentirsi a casa anche qui. Parlano la loro lingua, ritrovano il loro cibo tradizionale, possono trovare attività culturali che gli sono vicine. Penso che i Raptors siano unici da questo punto di vista, grazie alla città che offre tutto questo e grazie al fatto che abbiano deciso di farne un punto di forza.
Gli piace trovare talenti da altre nazioni. Ovviamente viene tenuto conto delle loro capacità prima di tutto ma se c’è anche un senso di confort da parte del giocatore nel venire qui diventa anche più facile fargli raggiungere il massimo potenziale. Adesso abbiamo Siakam e Koloko dal Camerun, Anunoby dall’Inghilterra, Hernangomez dalla Spagna. Un anno al Draft avevamo selezionato tre giocatori dall’Europa: non tutti hanno sfondato in NBA ma penso sia stata una scelta molto facile per loro venire a Toronto. I Raptors continueranno su questa strada, specialmente in Africa. Masai ovviamente ha molti contatti laggiù e grazie a quello che ha mostrato ora ci sono giocatori in Camerun, Nigeria o altre parti del continente che sanno che venendo in Canada si sentiranno comunque a casa.
- Rimaniamo un momento su Koloko. Christian è stato scelto per dare ai Raptors qualcosa che mancava da molto, ossia un centro puro. È quello che serve a Toronto per tornare ad essere una contender al titolo in futuro?
È un’ottima aggiunta di cui in effetti sentivamo la mancanza. Non ricordo neanche quando è stata l’ultima volta che abbiamo avuto un giocatore con le sue qualità: uno stoppatore molto fisico, un lob threat in attacco; certo, è un rookie perciò avrà bisogno di un paio d’anni per svilupparsi ma può diventare un fattore che non aveva neanche la squadra del titolo. Gasol e Ibaka sono stati eccezionali in termini difensivi ma il loro gioco era differente, dovuto anche ad un’età diversa. Christian è giovane, atletico, occupa bene l’area ma dovrà imparare a gestire la sua fisicità stoppando tiri senza commettere troppi falli come gli sta accadendo adesso, ma le sue capacità sono sotto gli occhi di tutti e vuole continuare ad imparare e migliorare.
- Per questo motivo sono stati chiamati anche veterani come Thaddeus Young e Otto Porter Jr, per dare una mano ai giovani a trovare la loro dimensione.
Esatto, anche loro vedono cosa possono offrire questi ragazzi e non si tirano indietro dall’insegnare e consigliare perché far salire di livello i giocatori meno esperti porta alla vittoria e tutti in questa squadra vogliono vincere. Thaddeus sta giocando in maniera esemplare, ha risposto molto bene all’assenza dei titolari: per lui era stato pensato un ruolo da comprimario ovviamente, intorno ai 18/20 minuti a partita, nessuno si aspettava di vederlo nella starting lineup anche perché alla sua età tenere questo ritmo tutte le sere può essere difficile da reggere, anche se lo sta facendo molto bene. Quando Pascal e Scottie torneranno potrà dare un contributo molto più funzionale guidando la second unit e lui è perfetto per questo, come abbiamo detto è un insegnante che vuole aiutare i compagni.
- Torniamo invece al libro: verso la fine c’è un capitolo molto profondo sul rapporto con Dwane Casey e quanto avete condiviso durante i suoi sette anni qui. Quanto è importante costruire una relazione del genere e quanto è difficile mantenere l’oggettività a riguardo in questa linea di lavoro?
Tutte le relazioni sane sono basate sul rispetto reciproco e lui sapeva che, se avessi dovuto scrivere qualche critica, non sarebbe stato personale. Buona parte delle persone qui come Dwane, Sam (Mitchell), Nick (Nurse), DeRozan, Kyle Lowry, sapevano quando allenavano male o giocavano male, non era niente che gli dicessi io per la prima volta. Ma fintanto che scrivi in maniera rispettosa, riportando solo la notizia, guadagni la loro fiducia: non ho mai indorato la pillola a nessuno ma non ho mai sentito il bisogno di scrivere titoli eclatanti o folli, una partita negativa può essere immediatamente seguita da quattro positive e viceversa, così va il gioco. Nel momento in cui mostri rispetto puoi costruire una relazione solida, loro sanno che non hai intenzione di fregarli o di rivoltargli contro i tifosi.
- Ha menzionato DeMar DeRozan. Dev’essere stato difficile vederlo partire, soprattutto tenendo conto che lui non avrebbe mai voluto lasciare Toronto.
La sua partenza ha fatto arrabbiare non poche persone. Anche io ammetto di esserne rimasto turbato, lui voleva davvero rimanere qui e chiudere qui la carriera e non ha potuto farlo. Mi ricordo di aver ricevuto la chiamata alle quattro del mattino mentre stava avvenendo la trade e di esserne rimasto scioccato, mi è sempre piaciuto DeMar, ho sviluppato un rapporto di amicizia con lui e al momento dello scambio era ancora un ottimo giocatore.
Se devo guardarla da un punto di vista prettamente cestistico, era purtroppo una mossa da fare: Kawhi Leonard era un Top 5 nella lega sui due lati del campo perciò hanno dovuto cogliere l’occasione. Ma personalmente ero distrutto, ed ero distrutto perché sapevo che lo sarebbe stato anche lui. Ancora adesso si sente a casa qui, pur non giocandoci più; quando torna è felice di vedere tutti, dal supporting staff ai cronisti fino alle guardie di sicurezza. Lo abbiamo visto crescere, è arrivato qui che era un ragazzo di diciannove anni timido, quasi non parlava con nessuno, e lo abbiamo visto diventare un uomo eloquente e profondo. Sono stato felice di essere parte di questo processo, praticamente ogni giorno per nove anni della sua carriera.
- Lui, così come Vince Carter prima ancora, è ormai un simbolo della città. C’è qualcuno tra i giocatori attuali che può diventare un simbolo a quel livello?
Forse Fred VanVleet può relazionarsi con i tifosi come faceva DeMar: un ragazzo sotto misura, undrafted, che si è costruito da solo ed è diventato campione NBA e All Star. Potrebbe essere lui quello più simile, ma è più consapevole che questo è un business, sa che potrebbe andare via da un momento all’altro e lo accetta, a differenza di DeRozan. Non sono sicuro che quel tipo di connessione esista in questo gruppo, non al livello di DeMar, e non credo che ci si arriverà mai perché quel tipo di fedeltà alla squadra non esiste praticamente più.
Per quanto riguarda Vince parliamo di un giocatore che ha messo Toronto sulla mappa, nel suo prime nel 2001 era stato messo sullo stesso livello di Kobe, e tutti si chiedevano chi fosse più forte tra i due. Tutti ovviamente ricordano le schiacciate iconiche ma era molto più di questo, un giocatore all-around in grado davvero di cambiare le sorti di una squadra. Poi certo, era quel tipo di performer in grado di farti saltare dalla sedia ad ogni partita, perfino noi che eravamo abituati a vedergli fare prodezze rimanevamo sconvolti. Ho avuto il piacere di assistere in prima persona alla sua schiacciata scavalcando Weiss alle Olimpiadi del 2000, era qualcosa a cui era impossibile abituarsi e diventare indifferenti.
- Al di fuori della franchigia quali sono i giocatori che l’hanno impressionata di più?
LeBron James, direi. È sensazionale che dopo quasi vent’anni nella lega sia ancora un giocatore di questo livello. Una forza fisica incredibile accompagnata a quelle abilità, non si può non esserne impressionati. Senza dubbio Kobe. E so che suonerà molto canadese da parte mia ma devo dire che Steve Nash è stato sicuramente qualcosa di speciale da vedere: un giocatore piccolo, poco atletico con una visione e un QI cestistico fuori scala. Se fosse stato più egoista probabilmente sarebbe stato anche uno tra i migliori scorer, ma il bello è che non voleva; con A’mare (Stoudemire) e Shawn (Marion) hanno cambiato il gioco nel ritmo così come Steph Curry ha fatto col tiro. Il seven-seconds-or-less rimarrà uno dei giochi più belli da vedere in assoluto.
- Avendo visto tutto questo e anche di più a questo punto mi chiedo quale sia il ricordo migliore e il ricordo peggiore legato alla squadra.
Il peggiore è molto facile. È l’ultima partita della nostra terza stagione. Sedici vittorie, sessantasei sconfitte, Isiah Thomas (allora vice presidente esecutivo della squadra) allontanato a novembre. Quell’ultima partita si era giocata al Maple Leafs Garden e i fan non facevano altro che fischiare la squadra. A questo punto ci siamo trovati tutti a pensare se la squadra potesse effettivamente continuare ad esistere qui, si poteva arrivare a parlare di ricollocare la franchigia in un’altra città. La domanda era diventata “Può funzionare davvero tutto questo?”. Quello è stato sicuramente il punto più basso.
Il migliore, escluso il titolo, penso sia la prima vittoria di una serie ai Playoff nel 2001 contro i Knicks. Batterli a New York credo abbia dato finalmente legittimità alla squadra. I Raptors erano sicuramente difficili da affrontare ma non avevano ancora mai vinto in post-season. Arrivare al Garden e uscirne vittoriosi? Penso che quello sia sicuramente il ricordo più bello della mia vita intorno ai Raptors.