Quanti ne farà incazzare il buon Rudy Gobert, purtroppo. Sì, purtroppo, perché questi Playoffs, soprattutto parlando di Minnesota Timberwolves, per adesso sono quelli della crisi della narrativa, e non piacerà a nessuno. La crisi della narrativa sull’assenza delle difese NBA, della narrativa sulle prestazioni ai Playoffs di quelli con la faccia brutta e cattiva anziché dei Karl-Anthony Towns col sorriso stampato in faccia pre-partita, la crisi – se volete, da questa serie – della favoletta per cui Nikola Jokic non è competitivo, dopo 7 gare all’insegna delle reazioni stizzite contro gli arbitri, delle inusuali schiacciate violente, degli sguardi impietriti verso il parquet nel bel mezzo dei blowout. La crisi, infine e finalmente, di quella narrativa intellettualmente disonesta per cui il lungo francese non possa stare in campo ai Playoffs, nata un po’ per mezze verità spacciate per sentenze, un po’ perché – e non c’è vergogna ad ammettere di essere influenzati da certi fattori – non è che proprio The Stifle Tower si impegni per farsi volere bene. Soprattutto da quei tifosi italiani che non hanno ancora digerito la schiacciata a 360° in campo aperto a Tokyo, inveendo contro di lui o schernendone la goffaggine (come è lecito) sui social, ma anche da tutta la NBA, fra la palpata ai microfoni ironizzando sul COVID-19, ai gesti agli arbitri e a milioni di altre cose dietro le quinte. Di cui non abbiamo conoscenza, purtroppo, ma che devono esserci, o così non si spiegherebbe l’esito dei sondaggi – votati dai giocatori stessi – che lo hanno eletto il più sopravvalutato della Lega, classifica che tende a dominare:
Il problema alla base di queste argomentazioni è che… non ce ne sono. O, meglio, l’insofferenza nei confronti di Rudy Gobert parte da stereotipi figli, nella maggior parte dei casi, dello shitposting sopraffino sui social media, dalle grasse risate dello Shaquille O’Neal o del Charles Barkley di turno, dai meme e poco più. Questo perché giocatori di questo tipo, che li possiate chiamare antipatici, ingenui, stupidi, insomma raggruppabili nell’insieme degli “antagonisti” (talvolta del giullare), sono bersagli facili: hanno limiti evidenti, ma impattano il gioco in maniera impercettibile dal punto di vista degli highlights, non si vendono e hanno bisogno di sistemi perfetti attorno per poter vincere – di conseguenza, per finire sotto i riflettori, rompere la finzione scenica fattasi realtà per chiunque segua a spizzichi e bocconi. I Dillon Brooks o i Patrick Beverley quantomeno ricoprono il ruolo attivamente, hanno indossato una maschera e non vogliono togliersela, il francese è semplicemente goffo e bravo a inciampare sui suoi piedi – sul campo e fuori – per natura. Il trattamento riservato a Gobert non è troppo diverso da quello dei media americani per Nikola Jokic fino allo scorso anno, per i Domantas Sabonis, i Deandre Ayton, i Karl-Anthony Towns di questo mondo, basta mezza parola senza fondamento da parte di una voce reputata autorevole ed ecco che si erge un castello dalle apparentemente solide fondamenta. Grazie al cielo, questi Playoffs hanno dimostrato che quelle costruzioni non siano altro che cartapesta.
Arrivato a Minneapolis fra scherno e aspettative bassissime, causa il prezzo pagato dai Timberwolves per ottenerlo – a tutti gli effetti eccessivo – la sua prima stagione è stata deludente, fra problemi alla schiena che ne hanno limitato la già non troppo fluidissima mobilità e un roster arrivato ai Playoffs senza il miglior difensore perimetrale, Jaden McDaniels, con Towns reduce dall’infortunio e Naz Reid fuori. 4 a 1 per Denver, la solita storiella sull’incapacità di marcare Jokic e tutti felici e contenti a sghignazzare (fun fact: nessuno può marcare Nikola Jokic). Ma fingiamo di stare al gioco, fingiamo che negli anni ai Utah Jazz sia stato a tutti gli effetti un bluff, che lo scarso rendimento di squadra ai Playoffs dipendesse da lui e non dal vuoto difensivo attorno, fingiamo che per difendere sistemi 5-out come quelli dei Clippers e dei Mavs, motion come quello dei Golden State Warriors o eliocentrici come quello dei Rockets non serva una difesa perimetrale quantomeno neutra. Fingiamo che sia normale affidare al francese le colpe delle 7 triple in Gara 6 di Terance Mann nel 2021 quando era previsto da piano partita battezzarlo in modo da lasciare l’unico difensore di livello nel pitturato, o che nella drop coverage sul pick&roll dei Nuggets le uniche responsabilità siano del lungo e non dell’incapacità di navigare su mezzo blocco. Dicevamo, facciamo finta che il contesto circostante non esista e che negli anni passati sia stata sua totale responsabilità il mancato rendimento dei Jazz ai Playoffs: adesso, il muro inizia a scricchiolare.
Rudy Gobert ha il secondo miglior on/off per i Minnesota Timberwolves in questa post-season, cioè ha un impatto sulla squadra di +28.8 punti/100 possessi quando in campo rispetto a quando è fuori, per l’esattezza siamo a +18.6 in attacco e a 10.2 punti concessi in meno in difesa. Cifre ben al di sopra il 90esimo percentile, fra il top assoluto della Lega. Al di là della stagione clamorosa – premiata con il DPOY nonostante sia meno appariscente di gente come Davis e Wembanyama, l’uno nel mercato preferito dal mondo NBA, l’altro nuovo gioiellino della Lega – i suoi Playoffs sono finora stati perfetti su tutte e due le metà campo. Si trova al secondo posto in questa post-season per screen assist a partita (5.8), ha imparato a mantenere di più la calma sullo short roll e produce 1.42 punti-per-possesso da rollante, miglior dato dei Playoffs fra i giocatori con almeno 5 partite (altrimenti 2°). Ma se non bastasse questa robaccia da nerd, sia fatta lode all’NBA League Pass nonostante tutti i problemi tecnici che si porta dietro.
Non esiste solo Gara 7, certo, ma nemmeno Gara 5, come molti sembravano pensare dopo la prestazione – pur for the ages – di Nikola Jokic. Draymond Green in persona, sul suo podcast, sembra essersi divertito particolarmente a sparare una serie di menzogne sul fatto che non abbia senso che non sia il DPOY a marcare l’MVP, come se questo fosse un videogioco e si debbano affrontare i due boss finali. KAT ha fatto un lavoro eccellente sulla superstar dei Nuggets spalle a canestro, ma non avrebbe avuto la metà dell’impatto – anche sulle percentuali di Denver – se non fosse per i tanti stunt aggressivi, con conseguente rotazione, dei difensori perimetrali e soprattutto per la presenza del lungo francese nel pitturato. I problemi sono derivati dalle ottime percentuali di Gordon nella parte intestina della serie, ma erano tutti tiri con cui Minnesota si accontentava di convivere. Il lavoro di Gobert è stato preziosissimo specialmente nel negare moltissime ricezioni all’ex Magic nel dunker spot nei giochi a 3 di Denver, fra cui bisogna segnalare la clamorosa lettura in Gara 1 nel quarto periodo, in un momento importantissimo. Questa palla rubata richiede un livello di interpretazione del gioco e un senso della posizione che in pochissimi hanno in NBA, forse nessuno a questi livelli all’interno del pitturato, dal momento che si tratta di influenzare la giocata di Jokic fintando di uscire e poi di indietreggiare una volta letto il lob. Tutto in una frazione di secondo, tutto con un tempismo perfetto.
Ma non finisce qui. Già nella serie contro i Suns, si era iniziato a vedere molta più attività su qualche cambio, anche su scorer di altissimo livello come Kevin Durant o Devin Booker, ma contro le incursioni di Jamal Murray al ferro il francese ha letteralmente dominato. Finalmente, la sua copertura profonda sul pick&roll è stata supportata da difensori perimetrali di alto livello (McDaniels, Edwards, Conley, Alexander-Walker), permettendogli di spazzare via di tutto dal ferro. Ma sarebbe riduttivo porla così: Gobert ha cambiato quando doveva farlo e ha retto benissimo, con Jokic da playmaker non ha lasciato un tiro che fosse uno a Jamal Murray sul taglio, ha alterato un miliardo di floater del canadese costringendo o ad alzare la parabola o a ripensarci e tentare il fadeaway. Un deterrente non solo al ferro, ma nell’intero pitturato.
Anche se la sua Gioconda (a proposito di polemiche contro i francesi) resta la sequenza clamorosa che ha spaccato le gambe ai Nuggets nel quarto periodo. Al di là del fadeaway contestato – ormai parte del repertorio – che ha quasi fatto svenire Jokic e probabilmente fatto infartare il povero Josh Minott sulla panchina di Minnesota, ha vinto l’ennesima battaglia contro Gordon al ferro sullo scarico, valorizzando ulteriormente il gameplan perfetto ideato da coach Chris Finch e soci. Vedi, Dray? Ecco perché non c’è Gobert in marcatura primaria sull’MVP, perché è impegnato a vincere Gara 7 nell’esatto posto in cui deve stare. L’oracolo dei Golden State Warriors ha colpito ancora.
Le scuse a Rudy Gobert nell’anno del Signore 2024 sono qualcosa che nemmeno il sottoscritto aveva previsto a inizio stagione, anche dopo una certa severità verso gli asset impiegati per la trade. Ma che i Jazz si tengano Walker Kessler e qualche pick, i Timberwolves sono bellissimi e nessuno come loro si merita di essere alle Conference Finals. Anzi, forse proprio il francese più di tutti è finalmente dove gli spetta, dove chiunque può vederlo e capire il perché di quei quattro premi, il perché nessuno segni nel pitturato quando è in campo anche senza fare 5 stoppate a partita, il perché sia utilissimo in attacco pur avendo le mani quadrate. Le scuse, da chi scrive in primis, sono partite. Adesso comincia il difficile, perché non solo manca il resto della community NBA, ma ci sarà anche una buona parte, uno zoccolo duro che non aspetterà altro di vedere Dallas tirarlo dentro quel dannato pick&roll facendo segnare due punti difficilissimi a Luka Doncic con un tiro che solo Luka Doncic può segnare. Non vediamo l’ora di sentire le invettive avvelenate di Barkley contro un centro che siamo sicuri non gli avrebbe dato nessunissima difficoltà. Nel frattempo, Rudy Gobert se la gode sul campo, e per fortuna ad affiancarlo ha qualcuno che rispetta non solo lui, ma la pallacanestro.