Un elenco impressionistico di dieci momenti per cui è valsa la pena di seguire la NBA negli ultimi trent’anni.

Woody Allen, sdraiato sul divano in perfetto cliché psicanalitico, parla a un registratore, cercando di esorcizzare il pessimismo e la depressione che lo affliggono, elencando le cose per cui vale la pena vivere.
Allo stesso modo, con quel fastidioso quanto inesorabile sentimento nostalgico di chi sta per scollinare oltre il trentesimo anno di età, chi vi scrive, l’altro giorno, dopo aver rivisto il film “Manhattan”, rifletteva su quali fossero le cose legate al mondo NBA per cui valga la pena vivere.
Sì, fare i conti con la propria passione per il basket è più semplice che fare i conti con la vita reale…
Tra singoli giocatori, singole partite e singoli episodi l’elenco sarebbe pressoché infinito, anche in un lasso di tempo minore di qualche decennio. Per sua stessa natura, un elenco del genere è la cosa più soggettiva che esista, quindi rispedisco subito al mittente eventuali accuse per aver tralasciato quel determinato momento o quel determinato campione.
THERE’S A STEAL BY BIRD!
In questi pochi secondi c’è tutto Larry Bird: quello che ha rappresentato per la pallacanestro, il suo spirito competitivo secondo a nessuno, quella atavica capacità di uscirsene sempre con qualcosa di speciale e decidere le sorti di una gara. Sono tante le occasioni in cui Bird è sembrato una sorta di deus ex machina, venuto al mondo appositamente per rendere possibile l’impossibile.
Pochi secondi alla fine, i Celtics sono sotto di un punto e i Pistons hanno una rimessa a favore. Detroit è ha un passo dall’andare sul 3-2 nella serie, con il match point sul proprio campo, dopo aver vinto Gara 3 e 4 di 18 e 25 punti di distacco. Isiah Thomas è curiosamente impaziente di effettuare la rimessa, nonostante coach Daly gli intimi di chiamare timeout. Zeke, senza pensarci troppo, getta il pallone verso Laimbeer, con grande sufficienza, ed ecco che si manifesta la divinità. Larry compare dal nulla, ruba il pallone e in un solo movimento, prima di uscire dal campo, riesce a servire Dennis Johnson, che con grande presenza sta già tagliando verso il canestro, appoggiando i due punti della vittoria.
A rendere il tutto più indimenticabile, la voce commossa del leggendario telecronista dei verdi Johnny Most. Boston finirà per vincere la serie in sette partite, conquistando l’ennesima finale, per l’ennesima volta contro i Lakers.
MAGIC BABY-HOOK
Così, qualche settimana dopo il furto con scasso di Bird, Lakers e Celtics si ritrovano ancora volta una di fronte all’altra nelle Finals. Coi gialloviola avanti 2-1, Game 4 è il momento chiave della serie.
Boston chiude il primo tempo con un vantaggio di 16 punti, ma la tenacia di Magic e compagni li porta a dimezzare lo svantaggio a 3 minuti dalla fine e a un solo punto a 7 secondi dalla fine. Un rimessa dal fondo è la speranza dei Lakers: Cooper cerca un ricevitore, Worthy si smarca bene sotto canestro ma il numero 21 non riesce a servirlo. Magic si libera in angolo, riceve e vorrebbe lasciar subito partire un jumper, ma McHale fa buona guardia.
Parte in palleggio verso il centro dell’area, raddoppiato da Parish, triplicato da Bird: sembra essersi cacciato in un vicolo cieco. Prima che la morsa dei Celtics lo stritoli in una presa mortale, Johnson lascia partire un curioso gancio in corsa, proprio sotto gli occhi del proprietario dei diritti d’autore di quel tiro, Jabbar. È un tiro impossibile, con McHale e Parish che lo ostacolano, eppure è solo rete. Bird sbaglia allo scadere il tiro della possibile vittoria: i Lakers si portano sul 3-1 e finiranno per vincere il titolo in sei partite.
“Puoi anche aspettarti di perdere una partita coi Lakers per un gancio cielo, di certo non mi sarei aspettato che fosse Magic a realizzarlo…”
(Larry Bird)
LA RIVINCITA DI DRAZEN
Quando Drazen sbarca oltreoceano, il continente europeo tutto non ha dubbi: farà la differenza. Prima dell’estate del 1989, anno in cui raggiunge Portland tre anni dopo la scelta al Draft, Petrovic ha vinto già tutto con le maglie di Cibona e Real Madrid, sia a livello di squadra che individuale.
Ma trent’anni sono un eternità, il muro di Berlino era ancora in piedi – per dirne una – e la NBA non era neanche l’antenata di quella dei nostri giorni, dove all’All-Star Game uno dei due capitani viene dalla Grecia, un serbo è due volte (forse tre) MVP e un promettente sloveno a Dallas ha appena dato il cambio a un tedesco che ha dominato 21 stagioni.
I dubbi e i pregiudizi degli americani sugli europei sono ancora forti e radicati, relegando Drazen sul fondo della panchina. E causandogli una frustrazione indicibile: un vincente come lui, ossessionato dal gioco, che ha bisogno di stare in campo per vivere, non può sopportare tutto questo. Nel gennaio del ’91, la svolta: Drazen viene ceduto ai New Jersey Nets. Il suo minutaggio a East Rutherford triplica, e il croato chiude la stagione a quasi 13 di media.
L’anno seguente diventa inevitabilmente titolare: è l’occasione che Petro tanto aspettava e non ha alcuna intenzione di sprecarla. La produzione sale oltre i venti punti, le percentuali sono stellari e cosa più importante la squadra vince, tornando ai Playoffs dopo diversi anni di assenza. Nella stagione 1992-1993, quella dopo le Olimpiadi di Barcellona e che purtroppo si rivelerà l’ultima della sua carriera, Drazen è il leader assoluto dei Nets, chiude l’anno come undicesimo marcatore della Lega e viene premiato con l’All-NBA Third Team.
Quel tremendo incidente all’altezza di Denkendorf ci ha privato di ammirare l’ulteriore e scontata crescita della carriera statunitense di uno dei più forti giocatori europei di tutti i tempi.
Ma i due anni in New Jersey non verranno mai cancellati dalla memoria: a Drazen serviva solo un’occasione, al resto ci avrebbe pensato il suo amore incondizionato per il gioco.
L’INVITO ALL’ATEISMO DI MJ
Francamente, non esiste una definizione migliore dell’ultimo tiro in maglia Bulls di Michael Jordan se non quella dell’Avvocato Buffa. Paradossalmente, però, MJ si è manifestato sulla terra come un deus ex machina – anche lui – in un numero incalcolabile di occasioni, lasciando smarriti i miscredenti e mandando in estasi i fedeli seguaci della sua dottrina: altro che ateismo… Di quella Gara 6 delle Finals del 1998 si tende a ricordare sempre ed esclusivamente l’ultimo, scenografico tiro, con il povero Bryon Russell ancora alla ricerca di un senso. Ma il disegno – ateo o divino che sia – di His Airness comincia a 40 secondi dalla fine, quando una tripla di Stockton porta i Jazz in vantaggio di tre lunghezze.
Jordan penetra, Russell difende forte, quasi al limite del fallo, ma il 23 ne mette comunque due, riducendo a un solo punto lo svantaggio. A questo punto Utah vuole andare da Malone, che riceve in post basso con il solito Rodman alle calcagna. Ma tutto quello che sta avvenendo non ha nessuna importanza, perché la sceneggiatura del destino targata MJ deve fare il suo corso, inesorabile, niente e nessuno potrà fermarla. Compare dal nulla, strappa la spicchia dalle mani del Postino, si porta in attacco, aspetta che l’universo intero gli abbia messo gli occhi addosso e chiude nel più poetico dei modi possibili, regalando ai Bulls il sesto titolo in otto anni. Un tiro, uno sport: dovessi riassumere il basket in una singola giocata, non avrei dubbi.
THE ANSWER ALLO STAPLES
Gara 1 delle Finals del 2001 è la partita che spedisce di diritto Allen Iverson nella leggenda. Oddio, non che ci saremmo dimenticati di lui, ma senza quel match sicuramente mancherebbe un pezzo importante.
Una delle più clamorose prestazioni da parte di un singolo giocatore in una finale NBA senza dubbio alcuno, a coronamento di una stagione da MVP, chiusa da capocannoniere della Lega a 31 punti a uscita. Fermo subito tutti quei non-romantici che vogliono sottolineare come i Lakers abbiano vinto comunque il Titolo quell’anno, e come quella Gara 1 del 6 giugno sia stata l’unica sconfitta di quella devastante campagna Playoffs. I Sixers non avrebbero mai potuto superare i giallo-viola, mai neanche in un universo parallelo. I quintetti recitano O’Neal, Bryant, Grant, Fisher, Fox contro Iverson, Mutombo, Aaron McKie, Tyrone Hill e Jumaine Jones… c’è bisogno di aggiungere altro? The Answer ne segna 48 in faccia a chiunque: a turno ci provano Fisher, Shaw, Kobe ma è davvero una di quelle sere in cui AI è assolutamente inarrestabile.
La partita si protrae ai supplementari, con i Sixers sul più due a 50 secondi dalla fine. Iverson è in angolo, stavolta sulle sue tracce c’è Tyronn Lue: lo scherza, muove il perno, lo prepara a quello che sta per arrivare, cioè una letale partenza verso il fondo, un crossover omicida e un jumper appena dentro la linea da tre punti. La palla è dentro, la partita praticamente si chiude lì e a rendere il tutto più speciale, quel gesto di educatissimo disprezzo nello scavalcare Lue, finito per terra in stato confusionale. A dire: “Apprezzo lo sforzo Tyronn, ma davvero pensavi di poterti mettere tra me e la storia?”
THE GREATEST SHOW ON COURT
Si può dire la miglior squadra a non aver mai vinto un Titolo? Si può e si deve: poche squadre hanno giocato così bene, coralmente e in maniera spettacolare come i Sacramento Kings dei primi anni 2000. Privati del riconoscimento ultimo dell’anello dai Lakers del Threepeat, nessuno può togliere ai Kings il ruolo di squadra che ha portato la Lega nel futuro, fornendo a David Stern la miglior pubblicità che si potesse desiderare. La prima versione, quella con Jason Williams in regia, è una sorta di dichiarazione d’intenti, un messaggio di rottura rispetto agli anni precedenti, in cui il gioco nella NBA era stagnante e noioso; la seconda versione, quella con Bibby al suo posto, dimostra che con il bel gioco si può anche ambire alla vittoria finale.
Un quintetto eccezionale, un meccanismo quasi perfetto: la regia e la presenza nei momenti importanti di Bibby; la difesa e l’intelligenza di Doug Christie; il tiro semi-divino di Peja Stojakovic; il talento devastante di Webber; l’esperienza e la sagacia balcanica di Divac. Cinque passatori celestiali, dall’altruismo innato, una panchina all’altezza delle aspettative e un allenatore che lascia tutti liberi di esprimersi.
Coach Adelman era affiancato da Pete Carrill, inventore del cosiddetto Princeton Offense, basato sul costante movimento di uomini e palla, tanti passaggi, tagli back door e pick & roll, che ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione del mito dei Kings, oltre a vantare numerosi tentativi di imitazione negli anni a venire.
Come direbbe il celebre telecronista dei Kings Grant Napear: “If you don’t like that, you don’t like NBA Basketball”.
“IT’S OVER”
Ovvero di come raggiungere l’apice dello Slam Dunk Contest, rendendo vane le manifestazioni successive. L’attesa per Vinsanity, prima di quel Sabato ad Oakland, è altissima, visto che in una stagione e mezza tra i professionisti ha già dimostrato di viaggiare a un altezza di crociera diversa rispetto a tutti i suoi colleghi.
Schiacciata n°1: un windmill 360° di grazia e fluidità mai raggiunte e, come dice giustamente Kenny Smith, sarebbe già da chiudere baracca e burattini e andare a casa. Schiacciata n°2: windmill 180° partendo da dietro il canestro, di devastante potenza e pulizia. Schiacciata n°3: passaggio schiacciato a terra del cuginetto McGrady, cattura la palla in volo, la incrocia sotto le gambe e schiaccia perfettamente. Al primo tentativo in carriera. Ecco che si alza un solo coro: “It’s over”, enfatizzato dal gesto alla telecamera di Carter. La crème della crème della Lega a bordo campo non crede ai propri occhi – e stiamo parlando di gente abituata a un certo tipo di prestazioni. Arriveranno anche un gomito infilato dentro al canestro per intero e una bimane staccando un passo dopo la linea del tiro libero. Non ce ne voglia chi ancora oggi partecipa allo Slam Dunk Contest, inventandosi pagliacciate sempre più complesse con droni, travestimenti e tortine per attirare l’attenzione: rinunciate, non sarete mai come Vince.
13 PUNTI IN 33 SECONDI
Il ricordo di questo miracolo mi tormenta ancora oggi, oltre ad avermi insegnato una lezione preziosa: le partite si guardano fino alla fine, sempre, cascasse il mondo. Quanto vorrei poter avvertire il me stesso di 14 anni fa, dicendogli di non spegnere il televisore, non andare a finire i compiti di latino, ma di restare lì, incollato alla TV per assistere all’intervento divino di Tracy McGrady, che quella sera ha semplicemente deciso che non avrebbe perso contro gli Spurs. 13 punti in 35 secondi, cioè 0.38 punti al secondo: proiettati su 48 minuti sarebbero circa 1100, giusto per dare un’idea della follia della faccenda.
La prima tripla vale il meno cinque. Dopo due liberi di Devin Brown, gli Spurs tornano sul +7, ma T-MAC va dall’altra parte, fa saltare Duncan su una finta, subisce fallo, manda per aria il pallone e segna: con un libero riporta i suoi a meno 3. Altri due liberi di Duncan, Spurs sul +5. McGrady riceve una rimessa dopo un timeout, resiste alla difesa arcigna di Bowen, si alza per un altra tripla: -2 a 11 secondi dalla fine. Nel possesso successivo, Brown viene chiuso nell’angolo dalla difesa Rockets, va in confusione, perde equilibrio e palla: McGrady la acchiappa, si porta in attacco, si arresta e ne mette un’altra per il sorpasso. “Il più incredibile finale di sempre al Toyota Center”.
E io stavo ripetendo la coniugazione del verbo difettivo coepi…
WARDELL STEPHEN CURRY
Quando è cominciato tutto ciò? Quella perenne sensazione che qualcosa di incredibile stia per succedere ogni volta che Curry prende in mano un pallone? Difficile a dirsi, avvisaglie ce ne sono state già all’università presso Davidson e nei primi nebulosi anni NBA. Per quanto mi riguarda, credo di aver preso del tutto coscienza del fenomeno Curry solo dopo il terzo quarto di Gara 1 delle semifinali della Western Conference 2013. 22 punti, 9/12 al tiro con 4 triple e la sinistra percezione che niente e nessuno potesse fermare quella valanga staccatasi dalla montagna.
Tiri raccogliendo la palla da terra, finendo sulle sedie dei tifosi a bordo campo, in penetrazione contro tutta la squadra avversaria o da pochi passi oltre il cerchio di centrocampo. Le reazioni di compagni e avversari in panchina, come per i voli di Air Canada, la dicono lunga sul grado di difficoltà e sulla eccezionalità dell’evento. Peccato che prestazioni del genere siano diventate la norma, da quel giorno. Sono quattro titoli NBA e due di MVP. E il tassametro corre ancora.
GLI SPURS 2013-2014
Ci ricordiamo tutti come sono finite le Finals del 2013, giusto? Il pugnale di Ray Allen nella carne degli Spurs in Gara 6 e l’errore di Duncan in Gara 7, con l’anello consegnato direttamente nelle mani di LeBron e compagni: non molte squadre possono riprendersi da una batosta del genere.
Semplicemente i San Antonio Spurs non sono come molte squadre.
L’organizzazione più solida e vincente dell’era moderna accetta l’esito doloroso del campo e ricomincia qualche mese dopo, esattamente dove aveva lasciato, ma stavolta con una motivazione extra, quella necessità quasi fisica di cercare il riscatto.
Come? Sempre attraverso il gioco di squadra, l’altruismo, fare sempre la cosa giusta e spingere ogni giocatore a vivere per il gruppo, mai per se stessi. Dire che sono andati oltre le aspettative è un eufemismo grande come il Texas.
“Sono perfetti in attacco e in difesa, vederli giocare è come ascoltare Mozart, sono straordinari.”
(Marcin Gortat)
La motion offense degli Spurs, già eccezionale nella stagione 2012-2013, sale ulteriormente di livello, diventando una vera e propria sinfonia di tagli, passaggi e movimenti finalizzati alla ricerca del miglior tiro possibile. La sublimazione avviene nei primi due quarti di Gara 3 sul parquet dell’American Airlines Arena, dove il gioco bello ed efficace degli uomini di Popovich viene portato all’esasperazione: all’intervallo il punteggio recita 71-50 (41-25 nel primo quarto). Sono 24 minuti da mostrare ad ogni scuola basket, da tenere come patrimonio dell’umanità cestistica, in cui gli Heat sono in indicibile difficoltà, travolti e frustrati da un collettivo così ben preparato, così perfetto da diventare ingiocabile.
“Non sono mai stato più orgoglioso di una squadra, mai avuto più soddisfazione da una stagione. Tornare dopo la tremenda delusione dell’anno scorso e fare quello che avete fatto in queste Finals: non riesco a esprimere quanto significhi per me”.
(Gregg Popovich, negli spogliatoi dopo la vittoria del titolo)