Dal collasso polmonare alla nascita fino alla mancata scelta al Draft, José Juan Barea ha sempre dovuto lottare contro un mondo che sembrava non riconoscerlo. Fino a raggiungere il tetto della NBA.

Porto Rico – nonostante la sua apparente ininfluenza – è sempre stato al centro di alcune delle più importanti manovre politiche e militari del mondo.

L’isola è stata, ad esempio, l’ultima colonia perduta dal potentissimo Impero Spagnolo nel 1898. Una sconfitta che ha portato la Castiglia a riflettere su sé stessa e a partorire la più grande generazione letteraria della sua storia.

Nel Novecento, invece, ha visto da vicino la Crisi Missilistica di Cuba, diventando l’ultimo baluardo statunitense in America Latina e andando pericolosamente vicino ad una violenta guerra civile che avrebbe potuto rappresentare la scintilla finale tra le due superpotenze.


È come se quest’isola così apparentemente pacifica e innocua non riuscisse ad evitare i riflettori della Grande Storia.

Una caratteristica, pur limitata all’ambito cestistico, che condivide con uno dei suoi cittadini più noti: José Juan “J.J.” Barea.

La Nascita: Il Miracolo e Mayagüez

JJ nasce il 29 giugno 1984 a Mayagüez, meravigliosa perla della costa Ovest portoricana. I suoi genitori sono Jaime, ingegnere ed ex-nuotatore, e Marta, coach di tennis all’Università del Porto Rico – che ha una delle sue sedi proprio in città.

Già dai primi momenti della sua vita, José Juan incarna perfettamente quella che sarebbe stata la frase -simbolo della sua vita: lui non sarebbe dovuto essere qui.

Durante il parto, infatti, ingerisce parte del liquido amniotico, causando il collasso del polmone destro. Un grande spavento per tutta la famiglia – completata dai fratelli maggiori Jason e Jaime Javier – che però viene prontamente rassicurata dal pediatra.

Il dottor Jaime Viqueira Mariani, infatti, salva il piccolo per un pelo e annuncia la buona notizia ai genitori vestendo i panni del profeta.

“Marta, qui non muore proprio nessuno. Non hai idea di come sia forte tuo figlio. È un luchador, un combattente”.

Uscito dall’ospedale, il piccolo Barea mostra dopo pochi anni come la diagnosi del medico fosse corretta. Immerso in una famiglia di sportivi, non perde tempo e inizia a sfidare continuamente i fratelli a quello che sta piano piano diventando il gioco di casa: la pallacanestro.

A stupire, tuttavia, non è la naturale voglia di un fratello minore di mostrare il proprio valore ai più grandi, ma l’ostinatezza con cui J.J. cerca di migliorarsi dopo le sconfitte e di superare i propri limiti. Una tenacia che Jaime Javier, figlio di mezzo di Marta, ancora fatica a spiegarsi.

“Quando giocavamo in giardino José Juan odiava perdere e continuava a farci giocare finchè non riusciva a batterci”.

I genitori decidono di assecondare la precoce passione del loro terzogenito, iscrivendolo al primo corso di minibasket. A soli 4 anni, José Juan si allena già due volte al giorno: una con il gruppo dei bambini della sua età e una con la squadra del fratello più grande. Tutti gli allenatori che lo vedono sono concordi: questo bambino ha un talento fuori dal comune.

Nonostante ciò, papa Jaime desidera che il figlio non perda mai la componente di divertimento nello sport.

Per questa ragione, rifiuta con forza le richieste di far giocare il piccolo in categorie superiori, facendo in modo che J.J. possa creare dei rapporti di amicizia con i coetanei grazie alla pallacanestro. Una scelta ponderata, che il futuro numero 5 dei Mavs non dimenticherà mai, tanto da dichiarare recentemente:

“Io gioco perché mi diverto. Da quando avevo 5-6 anni ad oggi il basket è stato il mio primo pensiero. È da quando sono piccolo che ho capito che il basket è prima di tutto stare bene e divertirsi con gli amici”.

La scelta dell’ingegnere, però, ha ovviamente un lato negativo. JJ è ormai troppo superiore a compagni ed avversari, tanto da portare molti allenatori ad opporre continue lamentele circa la sua presenza in campo. Nel 1992, con il benestare della famiglia, si arriva quindi ad un compromesso: il bambino potrà continuare a giocare nel campionato di categoria a patto che non segni più di 6 punti a partita.

Una limitazione che, come dirà lo stesso José Juan, si rivelerà provvidenziale per lo sviluppo cestistico del futuro campione NBA.

“Quando avevo 8 o 10 anni iniziavo a spiccare sugli altri bambini. Per questo si sono decisi a mettermi un limite: non potevo segnare più di 6 punti a partita. Fu una scelta che mi aiutò moltissimo, imparai a migliorare i miei compagni, a passare la palla, a gestire i possessi e segnare solo nei momenti finali della partita. Si potrebbe dire che proibendomi di segnare mi hanno insegnato a giocare.”

L’Adolescenza: dai primi passi in Porto Rico al salto in America

Con l’eliminazione del limite di punti, il talento di Barea esplode definitivamente e il figlio di Marta e Jaime inizia a dominare tutti i campionati giovanili portoricani, facendo alzare parecchie sopracciglia all’interno del movimento cestistico nazionale.

Tra gli estimatori di J.J. c’è sicuramente Flor Melendez, leggendario commissario tecnico di Porto Rico e allenatore degli Indios di Mayagüez, la squadra professionistica locale. Il coach, dopo aver osservato il numero 5 in una sfida del campionato nazionale Under-21, non ha dubbi: questo ragazzo deve giocare da professionista.

La prima comparsata nel basket che conta non è portatrice di grandi riconoscimenti per José Juan, che colleziona unicamente 27 presenze in un paio di stagioni, con una media di poco più di due punti e mezzo a serata. È proprio durante questa esperienza, tuttavia, che il giovanissimo tiratore riceve il consiglio che gli cambierà la vita.

Tra i suoi compagni negli Indios, infatti, spicca la guardia Giddel Padilla, fratello del più noto Edgar. Giddel, conscio di star finendo i suoi giorni da giocatore, sta iniziando a lavorare come intermediario nei trasferimenti dei talenti dell’isola verso le High School e le Università statunitensi. Interessato alla questione, dice a J.J.:

“Un giocatore come te, bianco, basso può farsi conoscere a quelli di là solo andando a giocare da loro. Non sperare che arrivi nessuna Università alla tua porta stando qui”.

Il più giovane di casa Barea decide quindi di compiere il grande salto.

A volerlo con sé negli Stati Uniti è Arturo ‘Pilin’ Alvarez, allenatore cubano in quel momento impiegato presso la Miami Christian High School.

I primi mesi in Florida sono durissimi per José Juan, sfiancato dalla lontananza da casa e dai pregiudizi dei compagni, fermamente convinti che un giocatore così basso non potesse incidere in America.

Al lottatore J.J., tuttavia, basta una sola partita per zittire le critiche: 32 punti e 8 assist nella sua gara inaugurale danno il via ad una stagione trionfale, terminata dall’High School della Dade County con 38-2 di record e il titolo statale in bacheca.

Nonostante un’annata da dominatore assoluto, però, nessuna delle grandi Università vuole correre il rischio di offrire una borsa di studio ad un giocatore così gracile fisicamente. Alvarez, convinto del talento del proprio pupillo, decide quindi di prendere in mano la situazione, chiedendo un incontro con Frank Martin, assistant coach di Northeastern University e suo grande amico.

Il primo approccio con il recruiter non è dei migliori. Tuttavia, dopo pochi minuti sul campo, Martin corre a chiamare coach Everhart, che dà il proprio assenso. José Juan Barea giocherà per gli Huskies.

“Appena sono arrivato mi sono ritrovato davanti questo ragazzino e ho pensato ‘Questo non ce la farà mai al nostro livello’. Poi però l’ho visto giocare: era il più competitivo che avessi mai visto su un campo da basket. Non ha paura, è coraggioso, ha fiducia nei propri mezzi. È un vincente”. (Frank Martin)

La Maturità: dal College al Titolo NBA

Il cambio d’opinione del coaching staff di Northeastern nei confronti del Base di Mayagüez è perfettamente visibile nelle parole che Everhart rivolge a J.J. nel loro ultimo incontro prima della scelta finale del portoricano – che ha ricevuto nel frattempo un altro paio di proposte:

“Se vieni da noi la palla è tua. Dal primo anno, dal primo minuto”

Per la prima volta José Juan non vede davanti a sé dubbi o limiti al proprio gioco, ma una fiducia totale del coaching staff, che lo rende libero di creare.

Il numero 5 diventa quindi immediatamente il leader della squadra, guidando gli Huskies alla prima stagione con record positivo dal 1995. I suoi 17 punti di media, tuttavia, sono solo l’inizio di un’esplosione che vede il proprio apice in estate.

Nei mondiali Under-19, in Grecia, infatti, Barea sfida per la prima volta giocatori del calibro di Deron Williams e J.J. Redick.

José Juan guida la sua nazionale a 3 vittorie, chiudendo la competizione con 27 punti, 6 assist e 4 rimbalzi di media. Molti scout NBA rimangono incantati dal talento del giovane portoricano e iniziano a chiedere informazioni sul suo conto.

Il lottatore si è guadagnato ancora una volta un posto ad un tavolo a cui non era stato invitato.

I successivi tre anni alla corte di Everhart sono un crescendo per il playmaker caraibico, che chiude la stagione da senior da miglior giocatore della sua Conference.

Nonostante ciò, Barea non ha alcuna certezza di essere scelto al Draft del 2006, per cui si rende eleggibile. Molti, infatti, sono ancora i dubbi sulla sua capacità di reggere fisicamente una stagione corrosiva come quella NBA e nessuno sembra voler correre il rischio.

L’unico a mostrarsi interessato al talento portoricano è Joe Dumars, al tempo plenipotenziario dei Pistons. In uno dei classici colloqui pre-Draft arriva a promettere a JJ:

“Se non ti sceglie nessuno prima ti prendo io con la numero 60”.

La realtà, come è noto, sarà ben diversa. Dumars prenderà il rivedibile Will Blalock, mentre José Juan non sentirà pronunciato il proprio nome né da David Stern durante il primo turno, né da Adam Silver durante il secondo.

JJ, tuttavia, continua a non perdersi d’animo, comprendendo immediatamente come le sue ormai esigue speranze di un contratto nella Lega vadano riposte in un unico evento: la Summer League di Las Vegas e Salt Lake City.

A chiamarlo per il torneo estivo sono due franchigie, i Golden State Warriors di Don Nelson e i Dallas Mavericks, il cui General Manager è… Donnie Nelson.

La famiglia cestistica più anticonformista d’America ha già compreso da tempo come il futuro del Gioco sia unicamente nel tiro da tre punti e vuole portarsi avanti firmando uno dei migliori specialisti della NCAA.

José Juan gioca quindi le sue prime 5 partite di Summer League con i Warriors. Donnie, tuttavia, non molla il pressing sul caraibico, che alla fine cede e decide di terminare il torneo coi Mavs. Al primo incontro con la franchigia texana, però, JJ mette subito in chiaro quali siano le priorità:

“Io vengo ma posso fare solamente tre partite: dopo ho promesso di andare in Colombia a giocare il campionato Centroamericano con la Nazionale.”

Una scelta che agli occhi di chiunque altro sembrerebbe folle, ma che spiega perfettamente il legame tra Barea e la sua terra. Il front office di Dallas accetta la scommessa e, dopo tre partite da assoluto protagonista, offre a JJ un contratto garantito per tutta la stagione.

Una volta rientrato dagli impegni internazionali, José Juan si presenta al training camp di Dallas deciso a guadagnarsi un posto nella rotazione.

Il primo anno, però, è molto difficile e dopo un inizio altalenante l’allora numero 11 viene spedito nella squadra di D-League affiliata ai Mavs: i Forth Worth Flyers.

La Lega di sviluppo dell’epoca era ben diversa dalla rampa di lancio che conosciamo oggi. Perdersi nel mare magnum della mediocrità e non venire più richiamati al piano di sopra era un rischio più che concreto, tanto da affossare molte carriere promettenti.

José Juan, tuttavia, non si spaventa, riuscendo a suon di grandi prestazioni – segnerà 218 punti in sole 8 partite – a tornare ad allenarsi con la prima squadra. Nei suoi giorni da aggregato ai Mavs inizia a prendere ispirazione da un altro Underdog che aveva provato alla franchigia e al mondo il proprio valore: Dirk Nowitzki.

“Abbiamo da subito avuto un buon rapporto. Non ho mai visto nessuno allenarsi così, pensavo bastasse fare un quarto di quello che faceva lui per essere pronti a giocare.”

Coach Avery Johnson – ancora legato ad una pallacanestro fisica e di statura – è però poco convinto delle capacità difensive del portoricano e decide perciò di schierarlo raramente.

Tutto cambia nell’offseason del 2008, quando sbarca in Texas coach Rick Carlisle.

L’ex-coach degli Indiana Pacers porta con sé coach Dwayne Casey per curare la difesa e Terry Stotts per organizzare l’attacco.

I tre hanno un’idea di basket meno legata alla ricerca delle sfide individuali tipiche degli Anni Novanta e iniziano a muoversi verso una pallacanestro difensiva di squadra, con addirittura qualche principio di Zona in determinate circostanze.

Un contesto di questo tipo espone in misura minore gli oggettivi limiti di Barea, permettendo al portoricano di esaltarsi in attacco.

J.J., da riserva di Jason Kidd, gioca quindi una delle migliori stagioni della sua carriera, chiusa con 79 presenze e quasi 8 punti di media in oltre 20 minuti.

Ai Mavs, però, manca ancora qualcosa per raggiungere l’Anello, unicamente sfiorato nel 2005/06. Molti commentatori – viste anche le ripetute sconfitte della Nazionale tedesca – iniziano a indicare Dirk come la causa del fallimento dei texani.

Il gioco atipico del tedesco, infatti, si rivelerebbe inefficace nei Playoffs, dove la fisicità sale vertiginosamente. Il teutonico, come sempre, liquida la questione in conferenza stampa con dei sorrisi, ma il suo fastidio è evidente.

Nel leggere la previsione che Bleacher Report fa della squadra nel 2010, si capisce anche l’origine dell’irritazione del numero 41.

“Il cadavere di Jason Kidd sarà sostituito da Rodrigue Beaubois prima della fine della stagione. Sono vecchi, hanno speso un sacco di soldi per dei lunghi mediocri e hanno il miglior proprietario dello sport americano. Non c’è assolutamente nulla di nuovo o di sorprendente di cui parlare.”

I Mavericks approcciano quindi la stagione 2010/11 da underdogs con qualcosa da dimostrare. La situazione che José Juan Barea Mora ha vissuto per tutta la propria esistenza.

La stagione regolare, in linea con le precedenti, viene chiusa con 57 vittorie e la terza piazza ad Ovest.

Barea – per la stampa terzo playmaker dietro al “cadavere” e al francese – gioca 81 partite da sesto uomo, sfiorando la doppia cifra di media e chiudendo con quasi 2 punti di plus-minus in Regular Season.

Ai Playoffs i primi avversari sono i Portland Trail Blazers di LaMarcus Aldridge e Wesley Matthews. La difficile vittoria in 6 partite, tuttavia, rappresenta solo la punta dell’Iceberg per i Mavericks. Al secondo turno, infatti, ci sono i Los Angeles Lakers, due volte campioni NBA in carica.

Per la narrativa giornalistica i Mavs altro non sarebbero che le comparse della seconda “Last Dance” di Phil Jackson, il quale ha già confermato che, al di là del risultato finale, lascerà le panchine NBA al termine della postseason.

Il lottatore Barea, tuttavia, non si trova bene nei panni della vittima designata e sembra avere altri piani.

Già dalla tiratissima Gara 1 – vinta con due liberi decisivi di Jason Kidd – il caraibico inizia a pungolare la difesa dei Lakers.

I gialloviola, che sui pick-and-pop cercano soprattutto di evitare le conclusioni da tre di Nowitzki, non hanno risposta per le continue incursioni nel pitturato di José Juan, che conclude la prima sfida con 8 punti e 5 assist.

In Gara 2 e 3 il nativo di Mayagüez alza ancora i giri del motore, guidando, soprattutto nella seconda partita, i Mavericks ad altre due insperate vittorie.

Il capolavoro, però, arriva l’8 maggio 2011.

I Lakers, desiderosi di rimontare, partono forte, ma i Mavericks riescono a contenere i primi attacchi del gruppo di Phil Jackson. Con 2 minuti e 25 ancora da giocare nel primo quarto, Barea entra in campo sul 19 pari.

Da qui comincia la fuga di Dallas: ribaltamenti, triple – saranno addirittura 20 a fine partita – palle rubate e coast-to-coast in velocità. A guidare l’arrembaggio insieme al solito Nowitzki e ad un Jason Terry da 32 punti c’è José Juan, che chiude con 22 punti e 4 assist una partita che i Mavericks vinceranno di 36 lunghezze. Ha anche il tempo, a fine partita, di iniziare una discussione con Andrew Bynum dopo un fallo di chiara frustrazione del numero 17.

La vittoria dei Mavs non rappresenta solamente il trionfo dello sfavorito sul vincitore annunciato: un basket dalle posizioni meno rigide e che usa in maniera intensiva il tiro da tre punti ha appena battuto 4-0 il sistema di gioco che ha dominato i vent’anni precedenti. La pallacanestro dei Curry e dei Trae Young ha per molti le sue radici in quella serata.

Se tanti “piccoletti” vengono oggi giudicati per i loro fondamentali e non per i risultati alla pressa, parte del merito va data al lottatore dal Carribe.

Il riconoscimento più grande per J.J., però, non arriva dai giornali o da qualche commentatore, ma dal leader della squadra avversaria. Kobe Bryant, infatti, non gira intorno alla questione, sentenziando dopo Gara 4.

“J.J. Barea ci ha preso a calci nel culo.”

Le Finali di Conference sono un’altra formalità per Dallas, che si sbarazza di Oklahoma City in sole 5 partite. Dopo 5 anni i Mavericks sono tornati in Finale, e ad aspettarli c’è l’avversario più atteso: i Miami Heat dei Big Three.

Ancora una volta, Barea e i suoi vestono per la stampa il ruolo degli sfavoriti, se non quello di meri figuranti. Il gruppo, però, si è compattato intorno al totem Nowitzki, e ha fin da subito la convinzione di poter smentire le critiche.

“Credevamo di essere noi i favoriti. Sapevamo di essere nella nostra forma ideale. Dopo la serie contro i Lakers ci siamo guardati e ci siamo detti: ‘Questo è il nostro anno’. Il migliore giocatore della NBA era con noi, non con loro.” (José Juan Barea)

Le prime quattro gare, molto combattute, mostrano come la convinzione dei Mavs fosse fondata. Gli Heat, infatti, non appaiono come il Superteam imbattibile annunciato dai più.

La squadra di Carlisle, con ritmo e pazienza, riesce quindi a costruirsi una chance di vittoria finale in una Gara 5 decisiva per le sorti della serie.

A fornire ulteriore benzina alla squadra texana, tuttavia, sono indirettamente proprio James e Wade.

Le due stelle di Miami, infatti, vengono riprese nel tunnel mentre fingono di tossire. Una chiara presa in giro a Dirk, vittima di una sindrome influenzale nei giorni di Gara 4, poi vinta dai Mavs per pareggiare la serie.

Nowitzki – da anni accusato di essere il classico “europeo soft” – è molto infastidito dall’imitazione. Come ricorda lo stesso Barea, infatti, i tre avevano avuto negli anni diversi dissapori.

“Odiava Miami. Odiava LeBron, Wade e Bosh. Non lo dirà mai, ma non li sopportava.”

I Mavs vinceranno quella partita 112-103 con 29 punti del teutonico e 17 di un Barea per cui nemmeno Spoelstra sembra avere soluzioni. Dallas è a una sola vittoria dal primo Titolo della Franchigia, conquistato con l’ormai notissima Gara 6 del 12 giugno 2011.

La fine del viaggio: Minnesota, la beneficienza, il ritorno

Pochi giorni dopo essere stato il secondo portoricano dopo Butch Lee – campione nel 1980 con i Los Angeles Lakers – a vincere un anello NBA, José Juan Barea incontra il front office dei Mavericks per discutere il contratto per la stagione successiva. Il colloquio con Mark Cuban, tuttavia, non va come previsto:

“Non ero semplicemente nei piani. Mark mi ha parlato faccia a faccia, con grande onestà; voleva aggiungere una superstar nell’offseason del 2012 e per questa ragione non poteva offrirmi più di anno, anche se sapeva che ne meritassi di più.”

Pur controvoglia, perciò, JJ accetta di lasciare Dallas per firmare il contratto più ricco della sua carriera NBA, destinazione: Minnesota Timberwolves.

Gli anni a Minneapolis, pur abbastanza soddisfacenti nei numeri, sono molto difficili per José Juan: il rapporto con Kevin Love, stella della squadra, è pessimo e i risultati sportivi lasciano decisamente a desiderare.

Così, alla scadenza naturale dell’accordo nell’estate del 2014, accetta di tagliare il proprio salario per tornare in una Dallas che, con Rondo, Stoudemire e altre aggiunte, vuole tornare a sognare come nel 2011.

Il progetto naufragherà, nonostante qualche comparsata ai Playoffs dei Mavericks – mai comunque oltre il primo turno. Concluderà la propria esperienza ai Mavs nel 2020, concedendosi un passaggio nella parte latina del vecchio continente, alla corte dell’Estudiantes.

Ad allietare gli ultimi anni della carriera del Luchador saranno, quindi, soprattutto le vittorie con la nazionale, ormai stabilmente nel novero delle migliori al mondo.

Proprio pochi giorni dopo una decisiva vittoria contro il Messico per le qualificazioni all’ultimo Mondiale di Cina, l’isola viene devastata dall’Uragano Maria, che porta con sé la vita di quasi 3000 portoricani. Anche nella tragedia, però, JJ mostra il proprio attaccamento al paese e la propria forza d’animo.

Con l’aiuto di Mark Cuban, carica l’aereo di squadra di cibo e generi di prima necessità, ripetendo il viaggio più volte nei giorni successivi e rimanendo in continuo contatto con famiglia e amici. Un apporto decisivo per l’isola, che ci mostra ancora una volta quanto, talvolta, sia prematuro dire a qualcuno che non dovrebbe essere qui.