Sopravvissuto ad un’adolescenza difficile, Marvin Barnes sembrava destinato ad un futuro radioso. Ma il carattere istrionico e l’abuso di droga hanno compromesso la sua carriera (e la sua vita).
È la sera di lunedì 8 settembre 2014 quando, in una modesta abitazione alla periferia di Providence, si spegne Marvin Barnes, stroncato da un cocktail di eroina e cocaina.
La notizia, la brutta notizia, fa rapidamente il giro della città in cui è nato e cresciuto, dove ha dominato al liceo di Central High, dove ha frequentato il college per quattro anni prima di passare tra i professionisti, con grandi speranze riposte sul suo futuro.
“Bad news” era anche il soprannome che gli era stato ironicamente attribuito negli anni, quando era ormai chiaro a tutti che il suo talento era stato completamente offuscato dalle pessime abitudini.
Nonostante le pagine nere, gli alti e bassi nella assurda vita di Marvin Barnes, chiunque l’abbia incontrato ne ha sempre sottolineato il lato umano, la generosità e la spontanea simpatia. Come quella volta che fermò la sua auto davanti a un campetto pieno di bambini che giocavano per regalare loro scarpe da basket e dolciumi.
Non era solo il suo talento sul campo a rendere unico Barnes, anche la sua debordante personalità lasciava il segno, tra quella sicurezza a là Muhammad Ali, quelle uscite da poeta di strada, miste a battute da comico professionista, sempre senza filtri.
“Parlando dei suoi problemi di droga mi chiese se era vero che la cocaina uccidesse le cellule cerebrali. Gli risposi che era una cosa piuttosto assodata. Lui fece una pausa e rispose – Beh allora dovevo essere un genio quando ho cominciato a farmi! ”(Bill Reynolds, giornalista del Providence Journal)
Da tempo le persone a lui più vicine erano preoccupate per il suo stato di salute, dopo che l’ennesima disintossicazione era stata vanificata dal ritorno dei fantasmi che lo hanno portato continuativamente a fare la scelta sbagliata.
22 ricoveri in cliniche specializzate, 22 fallimenti.
Una parabola fulminea, quella di Barnes, che in soli 6 anni di basket ad alto livello passa da potenziale hall of famer a ennesimo what if, trascinato nella mediocrità dalla sua immaturità e la perenne lotta perdente contro la droga.
“Fin dal primo momento che l’ho visto ho capito che Marvin era speciale, forse uno dei miei giocatori preferiti. Oltre le sue evidenti abilità, aveva un incredibile istinto naturale per il gioco.”(Larry Brown)
Barnes cresce nel South Side di Providence ed è, senza ombra di dubbio, il giocatore più forte mai uscito dalla capitale del Rhode Island.
La storia è sempre la stessa: infanzia e adolescenza drammatica, con un padre alcolizzato e violento, con la conseguente necessità di crescere in fretta e cercare altrove gli esempi da seguire.
Ma nei sobborghi di Providence è difficile trovarne.
“Ero giovane, arrogante e completamente fuori controllo. Non credevo sarei arrivato a compiere trent’anni. Il mio motto era Live fast, die young, volevo quello stile di vita.”
Per sua fortuna però esiste la pallacanestro, e Marvin è un atleta scandalosamente dotato: 2 metri e 5 centimetri di rabbiosa efficacia sotto canestro, che porteranno Barnes e il suo liceo a vincere da imbattuti due titoli statali consecutivi.
Il lato oscuro, quello che gli porterà il soprannome Bad News, viene a galla già in questi anni quando, insieme ad un gruppo di amici, tentò di rubare un autobus.
Non andarono molto lontano, principalmente perché Barnes indossava un giubbotto commemorativo della vittoria alle finali statali con il suo nome stampato sopra…
Dopo l’high school, la scelta dell’università sembra obbligata: l’ateneo di casa, Providence College, guidato da coach Dave Gavitt.Il suo impatto è subito devastante, ma è nel biennio finale del suo percorso universitario che fa registrare numeri da superstar, guidando la nazione per rimbalzi e stoppate, bruciando anche i record scolastici di punti segnati (52, pareggiato solo qualche anno fa dall’ex milanese MarShon Brooks), rimbalzi e stoppate in una sola partita (ancora imbattuti).
“Marvin è stato uno dei giocatori di college più forti di sempre, tutti i suoi compagni si affidavano a lui quando erano in difficoltà. Avrebbe potuto diventare uno dei migliori 50 giocatori di sempre, se avesse avuto la disciplina che serve”.(Al Skinner, guardia dei rivali di University of Massachusetts)
Nel 1973 i Friars raggiungono clamorosamente le Final Four. In semifinale contro Memphis State, Providence va in vantaggio anche di più di 10 punti. Barnes atterrando dopo un rimbalzo preso, si gira il ginocchio, dovendo abbandonare la partita. Senza il loro leader, i Friars non reggono il confronto sotto canestro e finiscono per perdere 98-85.
Nel frattempo Barnes si fa riconoscere per un’altra delle sue “gesta”.
Durante un allenamento, il compagno Larry Ketvirtis lo colpisce inavvertitamente con una gomitata a rimbalzo, facendogli saltare due denti. Marvin decide di aspettare Ketvirtis fuori dal refettorio dell’Università, per colpirlo con una chiave per i bulloni dell’auto. Inutile dire che si becca una bella denuncia per aggressione.
L’ultimo anno di università lo vede crescere ulteriormente, rivelandosi come uno dei prospetti più interessanti del Paese, chiudendo la stagione a 22 punti e quasi 19 rimbalzi di media.
“Ero un 18enne, Marvin era nel suo anno da senior…giocare con lui era il massimo. Ricordo questa partita contro St. Bonvaenture, siamo sotto di uno e Marvin è in lunetta con due tiri liberi. Il palazzo è una bolgia e cerca di distrarlo. Fa 2 su 2 con una freddezza mostruosa, mi prende sotto braccio e mi dice – Questi imbecilli pensavano davvero di vincere? – ”(Joe Hassett, freshman a Providence nel 1974)
Arriva il momento del passaggio tra i Pro. Viene scelto con la seconda chiamata assoluta dai Philadelphia 76ers, dietro solo a Bill Walton. Marvin rinuncia alla chiamata della NBA, per accettare un migliore contratto da 2.5 milioni di dollari dai neonati Spirits of St. Louis, mitologica squadra della ABA.
Già, perché in quegli anni c’è ancora una concorrenza tra leghe nel basket americano. L’American Basketball Association è decisamente più progressista rispetto alla più istituzionale cugina, facendo di tutto per attirare l’attenzione.L’intrattenimento è al centro, quindi il gioco è più veloce, le partite sono più spettacolari, anche per le non eccelse difese: ad esempio, si gioca spesso e volentieri sopra al ferro, cosa che in NBA stenta ancora a diffondersi.La palla tricolore, il tiro da tre introdotto già nel ’67 (12 anni prima della NBA!), il primo Slam Dunk Contest nel 1976, i grandi show agli intervalli: sembra la lega cucita attorno a Marvin.
Barnes domina in quei due anni di ABA. Vince a mani bassi il premio di rookie dell’anno, tenendo una media di oltre 24 punti e 13 rimbalzi a partita, ma è proprio dall’approdo in ABA che inizia a fare uso assiduo di cocaina e continua a distinguersi per i comportamenti non proprio professionali.
Dopo neanche un mese dall’inizio della stagione, lascia misteriosamente la squadra, venendo ritrovato solo diversi giorni dopo in una sala da biliardo di Dayton, Ohio. Si giustificò dicendo di essere seccato dal nuovo contratto…
Tornò in squadra, ma i problemi tornarono con lui.
Una delle storie più celebri è quella in cui doveva prendere un aereo di squadra da Louisville alle 8 in punto che sarebbe arrivato a St. Louis alle 7:56, dato il fuso orario diverso.
Dopo una rapida occhiata al biglietto, Barnes esclamò “Non salirò su una cazzo di macchina del tempo!”, noleggiando un’auto per il rientro a casa…Un’altra volta perse un volo per la Virigina per non essersi svegliato, dopo una notte particolarmente selvaggia in quel di New York.
Noleggiò un aereo privato e arrivò a Norfolk per giocare contro i Virginia Squires, poco prima dell’inizio della partita. Era accompagnato da due ragazze, compagne della serata precedente, e un sacchetto di McDonald’s pieno di hamburger. Sotto la pelliccia era già cambiato però, almeno quello…Seduto per tutto il primo quarto, entra dal secondo: 43 punti e 19 rimbalzi!
Perché nonostante gli stravizi, le sue prestazioni sono comunque leggendarie. Nei Playoffs del 1975, segna 41 e 37 punti nelle prime due partite della serie contro i favoriti New York Nets, guidati da un certo Julius Erving: gli Spirits vinceranno la serie per 4-1.
La cosa più incredibile, tecnicamente, è che in campo, come nella vita, Barnes è un selvaggio, trasforma tutto quello che tocca in oro, noncurante degli schemi o della sua posizione.
Quando riceve palla, si volta, tira e segna. Sempre.
Certo, non con una grande selezione di tiri, direbbero i puristi.
“La verità è che molte sere anche se c’era Dr. J in campo, il miglior giocatore sul parquet era Marvin”.
Queste le parole dello storico giornalista Bob Costas, il cui primo lavoro uscito dall’università fu come radiocronista degli Spirits.
“Un giorno arrivai in ritardo a una partita per colpa di un volo annullato. Parlavo con i giocatori di come fossi preoccupato per il mio lavoro e i ragazzi cercavano di consolarmi. Marvin mi abbracciò e disse – Hey fratello, non preoccuparti. Stavo giusto cercando un piccoletto bianco per farmi da chaffeur…”
Marvin Barnes e gli Spirits of Saint Louis durarono solo due anni, ma in quel breve lasso di tempo cambiarono per sempre il basket professionistico, una franchigia e un personaggio che racchiudevano tutto ciò che di folle c’era nella ABA e negli Stati Uniti degli anni ’70.
Nel 1976 ci fu la fusione tra NBA ed ABA, in grave crisi finanziaria soprattutto per la mancanza di un vero contratto televisivo. Dalla cugina per bene vennero assorbiti New York Nets, Denver Nuggets, Indiana Pacers e San Antonio Spurs. La NBA offrì 3 milioni agli Spirits per farsi da parte, ma i proprietari, i fratelli Silna, rifiutarono, cercando con i loro avvocati un altro accordo. Ottennero, a distanza di molti anni, un risarcimento vicino ai 300 milioni di dollari: davvero niente male per una squadra che non esiste da 40 anni!
Dalla diaspora degli Spirits, Marvin finì ai Detroit Pistons dove, prima ancora di scendere in campo, si cacciò in guai molto seri. Venne arrestato perché portava con sé una pistola, ancorché scarica, all’aeroporto. Con questo gesto violò i termini della libertà vigilata imposti dall’incidente con Ketvirtis e fu spedito in carcere per più di cinque mesi.
Tornò a giocare per i Pistons, ma a fine stagione venne tagliato senza pietà. Nei tre anni successivi, tre squadre diverse: Buffalo, Boston e San Diego. Proprio Boston sembrava un’occasione da non perdere. Nato a meno di un’ora di auto dal Garden, Marvin è tifoso Celtic da tutta la vita.
“Sono cresciuto con il Celtic Pride, nel mito di Bill Russell e Red Auerbach. Ma ad un tossico non frega niente di tutto ciò, volevo solo farmi, punto. La cocaina si era completamente impossessata di me.”
La dipendenza di Marvin ha raggiunto un punto di non ritorno molto pericoloso: arriva a portarsi la cocaina in panchina e sniffarla durante le partite, cercando in modo maldestro di nascondersi sotto un asciugamano, lasciando i compagni basiti.
Inutile dire che il suo gioco, come la salute, è compromesso per sempre e non riuscirà più a mostrare neanche una scintilla del talento che lo aveva contraddistinto. A meno di 30 anni è un giocatore finito.
In NBA, ovviamente, non lo vuole più nessuno. Così nel 1980 arriva l’esperienza italiana. Firma un contratto annuale con l’allora Hurlingham Trieste di coach Lombardi, accogliendolo in Friuli in pompa magna, convinto di aver concluso l’affare del secolo.
Alterna sprazzi di genio a momenti quasi imbarazzanti. Resta famosa la partita in casa in cui viene a sapere che la Rai trasmetterà in diretta solo il secondo tempo. Risultato: un fantasma nei primi 20 minuti, dominante nella frazione a telecamere accese.
Simili atteggiamenti non fanno certo bene alla squadra, che sprofonda in classifica e a fine anno vedrà la retrocessione. Ma Barnes non arriva alla fine dell’anno. Anzi, dopo sole 7 partite la sua avventura triestina finisce- ma non prima di essere stato coinvolto in uno scandalo di festini a base di coca e prostitute…
Tornato di volata negli States, raccatta qualche pessimo contratto in CBA, tra cui uno a Detroit, dove viene sospeso dopo una rissa con un compagno.
“Semplicemente non è affidabile e non lo sarà mai, sono stufo. Il problema con lui, come con molti altri atleti, è che sono abituati, al liceo, al college e tra i professionisti, ad avere sempre persone che si occupano di loro e provvedono a qualunque loro richiesta. Immagino sia quello che ormai Marvin si aspetta da tutti.”(Sam Washington, GM dei Detroit Spirits)
Il signor Washington ha colto nel segno.
Appena lascia il basket per sempre, Marvin è da solo contro il mondo, e non è equipaggiato per affrontare una vita normale. Negli anni a seguire si trova senza casa, a vagabondare per le strade di San Diego, della Virginia o di Houston. L’unica ragione di vita è la droga, che comincia anche a spacciare per poter sopravvivere.
È proprio in Texas che viene arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti e condannato a 7 anni di reclusione, in un carcere particolarmente violento, dove a suo dire i secondini non sedavano le numerose risse tra detenuti ma si limitavano a raccoglierne i corpi quando tutto era finito.
La pena viene ridotta a tre anni con la condizionale e Marvin decide di tornare a Providence, dove ha lasciato gli unici veri affetti della sua vita. L’ex proprietario degli Spirits si offre di pagargli le cure nelle costose cliniche di riabilitazione; il giornalista Mike Carey, autore della sua biografia, gli apre le porte di casa ospitandolo; parallelamente Marvin comincia a tenere conferenze ai ragazzi di Providence, raccontando tutti gli errori della sua vita, invitandoli ad agire all’opposto.
Nel marzo del 2008 Providence College ritira la sua maglia numero 24 in una emozionante cerimonia al Dunkin’ Donuts Center.
Le cose sembrano migliorate, dunque.
Ma la droga ha una carica attrattiva troppo forte per il debole Marvin, che ci ricasca nel 2007 e nel 2009, quando viene ancora arrestato per possesso di cocaina. Nel 2012 viene accusato di aver adescato una ragazza di 17 anni in un bar di Cranston. Dalla sua testimonianza e dalla lettura del rapporto della polizia, le accuse risultano poco chiare e probabilmente capziose. Fatto sta che il caso deve andare di fronte a un giudice e il solo pensiero del processo fa ripiombare Marvin in una spirale depressiva e all’uso di droghe.
È la ricaduta fatale, che lo porta alla sua triste scomparsa a soli 62 anni. Una crisi dopo l’altra, hanno portato Marvin alla totale autodistruzione, arrivata ben più tardi rispetto alle previsioni. Autodistruzione che è sempre stata la quintessenza di Barnes, un’anima disperata, mai riuscita a trovare un minimo equilibrio nella vita.
“Sono un giocatore di basket, non un prete. ‘Gioco’ le donne, i vestiti, le macchine, qualunque cosa mi faccia divertire. Al mondo ci sono due tipi di persone: i giocatori e quelli che vengono giocati. Io sono un giocatore.”