Silas riflette sulle lezioni apprese da suo padre, la sua eredità e il dolore lasciatosi alle spalle

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Questo contenuto è tratto da un articolo di Marc J. Spears per Andscape.com, tradotto in italiano da Niccolò Scquizzato per Around the Game.


SACRAMENTO – La pallacanestro viene spesso usata da giocatori e allenatori NBA come scappatoia dalle difficoltà quotidiane. Ma Stephen Silas non riesce a pensare alla pallacanestro senza pensare a suo padre, Paul, ex ala e coach di lunga data. Con la recente perdita impressa nella mente, il coach degli Houston Rockets aveva gli occhi in lacrime un’ora prima della palla a due contro i Sacramento Kings.


“Mi manca moltissimo. Mi mancano le nostre conversazioni. Le nostre chiacchierate quotidiane. Mi sembra come… non come se stessi cadendo, ma come se non avessi i piedi per terra. E provo un enorme vuoto nel mio cuore, perché era così buono con me. Mi manca la sua risata”, ha detto Stephen Silas prima della sconfitta 135-115 contro i Kings l’11 Gennaio.

Paul Silas è stato un due volte All-Star e rinomato difensore nel corso di 16 stagioni della sua carriera NBA, che include due titoli con i Boston Celtics e uno con i Seattle Supersonics. Il National Collegiate Basketball Hall of Famer era ben conosciuto per la sua carriera da allenatore. Ha vinto 387 gare da Head Coach nell’arco di 12 stagioni con i San Diego Clippers, Charlotte/New Orleans Hornets, Cleveland Cavaliers e Charlotte Bobcats. Silas è stato anche capo allenatore dei Cavs durante l’anno da Rookie di LeBron James.

Silas è morto all’età di 79 anni il 10 Dicembre 2022 a Denver, in North Carolina, di arresto cardiaco. Il nativo di Oakland, California, lascia la moglie Carolyn, la figlia Paula Silas-Guy, la figliastra Donna Turner, il figlio Stephen e tre nipoti. La famiglia Silas ja ospitato privatamente il “Paul Theron Silas Celebration of Life and Legacy” a Charlotte, North Carolina, sabato scorso.

L’ex guardia dei New Orleans Hornets Robert Pack, presente alla cerimonia dedicata, ha detto: “Era una persona seria ed esigente, ma ci teneva a te come giocatore. Ti trasmetteva quella sensazione di voler giocare duramente per lui. È rimasta esattamente la stessa persona da quando l’ho conosciuto per la prima volta come giocatore. Mi ha sempre cercato per una chiacchierata quando mi trovavo a Charlotte. Gli importava sempre di te, perciò tu non vedevi l’ora di incontrarlo quando eri a Charlotte”.

Il seguente è un Q&A con Silas, che di recente ha parlato ad Andscape su cosa significava suo padre per lui, dentro e fuori dal campo.

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Qual è stata la persona che ti ha chiamato o messaggiato dopo la perdita di tuo padre che più ha significato per te?

Il Commissioner NBA Adam Silver è stato uno dei primi che si è messo in contatto con me. Anche Jalen Brunson (guardia dei Knicks), che ho allenato a Dallas, mi ha contattato subito. Doc Rivers (Head Coach dei Philadelphia 76ers) mi è stato vicino settimana dopo settimana. Mash, non parlo con Jamal Mashburn da sempre. Elden Campbell, non gli parlavo da sempre.

È sempre la stessa storia: tuo padre era come se fosse il mio, o tuo padre era uno dei miei allenatori preferiti. Lee Nailon, Baron Davis, Kemba Walker. Raccontano tutti la stessa versione. Era un duro, una persona seria, aveva un sorriso che illuminava un’intera stanza, gli importava dei suoi giocatori e tutti lo amavamo. Lo amavamo. Anche i ragazzi che non adorava, quando giocava, come Ira Newble. Sono diventati tutti così intimi. Quindi, sì, era un uomo grandioso.

Quanto era diverso il Paul allenatore dal Paul padre? In che modo ha gestito la cosa diventando addirittura tuo collega?

Crescendo, volevo stargli vicino. Inizialmente lo facevo assistendo ai suoi allenamenti. Guardando i filmati. Stando nel suo ufficio quando lavorava. E quando allenava, stavo al suo fianco sul parquet, anche solo per fare due tiri. Il tempo che passavamo insieme durante la mia crescita l’abbiamo condiviso sul campo. C’era un particolare mix tra padre e allenatore, e non mi ha mai allenato perché non voleva mettermi pressione. Ma è stato un grande papà. Era premuroso, dalla risata facile, severo quando necessario, ma un po’ meno con me rispetto a quanto lo fosse con i suoi giocatori.

Ho visto come trattava i suoi giocatori, sicuramente una grande persona da cui imparare. Il modo in cui interagiva con te o il modo in cui interagiva con i giocatori che ha allenato. Che fosse Patrick Ewing, Charles Oakley ed Anthony Mason, oppure Derrick Coleman e Kenny Anderson e quel gruppo, o Baron Davis e Jamal Mashburn e questi altri ragazzi.

Una volta iniziato a lavorare con lui, è diventato più paterno, del tipo, ‘Ti mostrerò come funziona.’ E all’epoca non realizzavo quanto fossi fortunato ad avere qualcuno che mi aiutasse all’età di 27 anni, ad entrare in questo business e a permettermi di fare domande, riunioni e imparare da tutto ciò. Le persone generalmente non concedono questo genere di cose a chi non ha legami di parentela come me, quindi mi ritengo molto fortunato.

Eri un bambino piccolo alla fine della carriera NBA di tuo padre. Cosa ti ricordi di lui come giocatore?

Mi ricordo quando sono andato a Kingdome (a Seattle) per le NBA Finals, ed era così rumoroso che mi sono dovuto tappare le orecchie ed andare nel retro per quelle partite. Mi ricordo di aver attraversato il campo da football per arrivare al campo da basket. Sono più questi i ricordi, rispetto alle partite in sé. Mi ricordo di aver partecipato a qualche allenamento. L’Head Coach dei Sonics Lenny Wilkens mi permetteva di fare qualche tiro. Ma ricordo di quanto fosse rumoroso durante quelle gare delle Finals.

Mi ricordo di aver guardato Gus Williams e pensare tipo, ‘Hey, voglio diventare come lui. È forte.’ E Dennis Johnson. Erano grandiosi. E Downtown Freddie Brown, Jack Sikma e tutti i ragazzi. Non avevano una vera e propria stella. Erano però un team tosto. Allora non me ne resi conto, ma ricordo fossero molto uniti. Erano soliti fare delle feste nel nostro seminterrato. Lenny ovviamente era il fulcro di tutto ciò. Ma la mia prima reminiscenza è stata probabilmente quella squadra.

Ci sono tante persone che hanno provato così tanto amore per quell’uomo. Non so nemmeno se è ancora così, avere una figura paterna come coach, che ti prende, ma che rispetti comunque. La sua eredità giace tra il gruppo di giocatori che gli hanno voluto molto bene, me compreso.

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Cosa speri che si ricordino le persone di tuo padre come giocatore NBA?

Spero si ricordino che, al momento del suo ritiro, è stato il secondo giocatore con più partite giocate (1254) di sempre nella storia della lega (dietro John Havlicek all’epoca). È stato 10° di sempre in rimbalzi totali. Direi abbastanza buono. E un tre volte campione NBA. Un po’ di tutto ciò viene dimenticato. Era una grande persona e un duro; tutti pensano alla personalità, ma si dimenticano di ciò che era come giocatore. Era parecchio bravo.

La mia speranza è che diventi un Hall of Famer. È già nella Hall of Fame del college. Gli mancavano 17 partite per diventare il giocatore con più gare all’attivo di sempre. Era come, ‘Non posso farlo. Non posso più giocare. Non lo farò.’ Quindi ha deciso, con 17 gare rimanenti, che avrebbe smesso. Quel record non gli importava affatto.

Qual è stata l’eredità di tuo padre come coach NBA?

La sua eredità come coach risiede in tutti i giocatori che ha allenato. Tutte le persone a cui ho parlato, come Patrick e Oak, che fu assistente allenatore con noi a Charlotte. Lionel Hollins, che ha allenato a San Diego. E poi Baron Davis, Stephen Jackson, LeBron e Mike Finley. Ci sono così tanti che provavano grande affetto per lui. Non so nemmeno se è ancora così, avere una figura paterna come coach, che ti prende, ma che rispetti comunque. La sua eredità giace tra il gruppo di giocatori che gli hanno voluto molto bene, me compreso.

Come ha cresciuto te e tua sorella, essendo coach NBA a tempo pieno?

Mia madre, era lei quella inflessibile, era lei che faceva il quotidiano. Mio padre era quello che tornava da una trasferta e ti portava a prendere il gelato, e ti diceva ‘dove andiamo al cinema?’ e questo genere di cose. Lo capisco ora cosa si prova, da coach, ad essere lontano dai miei figli. Lo capisco. È difficile essere quello severo quando sei fuori casa per così tanto tempo.

Ma la sola cosa che voleva da me, che mi vedesse giocare o altro, era sempre, ‘Devi essere aggressivo.’ E c’erano volte, siccome mi piaceva passare sempre la palla, che me lo faceva subito notare dicendomi, ‘Devi essere aggressivo. Quando giochi, aggressivo’.
Quella volta, era una partita di semifinale in high school, mi sembra. Stavo facendo il mio, passavo, passavo e ancora passavo la palla durante la prima metà di gara. Lui venne da me, all’intervallo lungo, e mi prese in disparte. Mi disse ‘Basta. Devi essere aggressivo, smettila di passare sempre la palla.’ E ad un tratto mi sentivo come un suo giocatore. Perciò, sono rientrato in campo ed ho segnato un mucchio di punti…

Ha significato tanto per me che fosse presente alle mie partite. Quando ero al college alla Brown University, era assistente allenatore ai New Jersey Nets. Noi stavamo giocando a Princeton, e stavo attaccando briga con Sydney Johnson. Ogni possesso, lui colpiva me, ed io colpivo lui. E alla fine, l’ho preso e buttato a terra. Non è da me, ma era un momento acceso. Mio padre era alla partita, e fui espulso. È venuto nello spogliatoio insieme a mia madre e John Wetzel (assistente allenatore ai Nets).

E mio padre non era mai stato più orgoglioso di me. Era così orgoglioso. Era tipo, ‘ Ecco di cosa parlavo, dammi un abbraccio’. Non lo dimenticherò mai. È divertente perché Sydney Johnson è diventato un allenatore al college. Mio padre è stato così orgoglioso del fatto che mi sono azzuffato con qualcuno, e che poi sono stato espulso. E dopo l’intervallo, se ne andò. Sì, è stato sicuramente un momento memorabile.

Usi qualche strategia di allenamento che usava anche tuo padre?

L’amore che provo per i giocatori, le conversazioni con i ragazzi. Adesso è cambiato, perché non si impreca ai giocatori come faceva lui, ma si può trasmettere la stessa energia e far capire ai tuoi ragazzi che ci tieni a loro, così come facevano i ragazzi allenati da mio padre con lui.

Il rispetto. Diceva sempre, ‘Sapere quando girare le viti. È quel momento della stagione in cui devi sapere quando allentare le viti.’ Io sto sicuramente imparando, essendo ancora un giovane coach. Ma era una dote innata in lui. E quella cosa che ripeteva era, ‘I giocatori lo sanno.’ Sanno se ci tieni a loro, sanno se sei preparato, sanno se sai quello che dici e quando invece non lo sai. ‘ Devi rispettare l’intelligenza dei giocatori. Devi essere preparato e genuinamente interessarti a loro come persone, e parlare onestamente.’ Era un maestro in questo genere di cose.

Verso la fine della sua vita, era la persona più positiva del mondo. Diceva sempre ‘Le belle cose capitano quando meno te lo aspetti.’
Cerco sempre la cosa giusta da fare ora. E siamo ad un punto della stagione nel quale stiamo avendo difficoltà. Questo sarebbe stato il tipico momento in cui avrei fatto una videochiamata con lui, e avremmo fatto questo genere di conversazione. Ma non potrò più farlo
.

Come te la stai cavando ora?

Sai com’è. Hai giornate buone e altre meno. E non voglio che queste ultime prendano il sopravvento e contagiare negativamente la squadra. Ed è ciò che ho detto ai miei giocatori, e mi hanno risposto, ‘Coach, siamo sorpresi che sei tornato così presto’. E mi ha fatto sentire bene. Questa è la vita.