Un pensiero sul perché Michael Jordan non abbia ancora superato il rancore verso Detroit.

Questo contenuto è tratto da un articolo di Jerry Bembry per Andscape, tradotto in italiano da Alberto Pucci per Around the Game.


Per Bill Cartwright, sono tanti i dolci ricordi della vittoria dei Bulls contro i Pistons nelle Finali della Eastern Conference del 1991: dai festeggiamenti nello spogliatoio al senso di realizzazione per aver battuto la squadra che per anni aveva negato loro l’accesso al livello più alto, tutto vive ancora nella mente del centro del primo threepeat della squadra dell’Illinois.


Bill, però, a differenza dei compagni, non sembra fissarsi troppo sulla scena dei Pistons che lasciano il campo senza stringere la mano ai vincitori.

“Non li avevamo solo battuti, era stato uno sweep senza appelli, vuoi andartene senza salutarmi? Non potrebbe fregarmene di meno”.

É chiaro, però, che l’ex lungo ed ex assistente di Phil Jackson è uno dei pochi a sentirsi in questa maniera. Diversa è, ad esempio, l’opinione del suo compagno di frontcourt Horace Grant, che all’interno di The Last Dance ha dichiarato:

“Bambini spaventati, ecco cosa sembravano mentre uscivano così.”

Uno dei Bulls tutt’ora più amareggiati dalla vicenda è certamente Micheal Jordan. Il suo sentimento d’odio, però, non è tanto rivolto ai Pistons in generale quanto ad Isiah Thomas, che di quei Bad Boys era il leader.

“Non mi convincerete mai che quello non sia un comportamento da vigliacco” – dice, con termini coloriti, His Airness durante il documentario.

Se il tempo è stato in grado di far riappacificare molte stelle NBA – da Kobe e Shaq a Magic e lo stesso Thomas – le due icone NBA anni Novanta sembrano ancora in contrasto, nonostante Isiah, qualche anno fa, avesse definito “amichevole” la relazione tra lui e MJ. Jumpman, sempre all’interno del documentario, si è decisamente discostato da questa visione.

L’ex Bull e attuale head coach di Lourdes University, Dennis Hopson, non è per niente stupito dal risentimento di MJ:

“Conoscendo quanto Micheal sia competitivo, non mi sorprende per niente che si senta ancora così. MJ ce l’ha sempre avuta con Isiah”.

E dunque, cosa ha fatto nascere la faida tra i due?

Per molti il “Freeze-Out Game”, l’All-Star Game 1985 in cui, probabilmente, Thomas ha guidato la congiura interna al gruppo dell’Est per far sfigurare il rookie MJ.

L’allora numero 10 dei Pistons ha sempre negato qualunque ruolo nella brutta partita di Jordan quella sera (2/9 dal campo e 7 punti in 22 minuti). Lo ha ribadito prima dell’All Star Game del 2001: “Non è mai successo”.

Che la storia sia vera o meno, da lì Michael ha iniziato a essere diffidente nei confronti di Isiah, come ricorda anche Brad Sellers, a Chicago dal 1986 al 1989 e poi analyst dei Cleveland Cavaliers.

“Tutti sappiamo cos’è successo all’All-Star Game, ma il problema nasce dal fatto che Isiah era di Chicago e aveva lavorato duro per rappresentare la città. Era stizzito dal fatto che un forestiero fosse arrivato e si fosse preso tutto l’amore della città.In questo gioco c’è molta gelosia, e gran parte di questa è data dal favore dei tifosi in un determinato territorio. Non posso immaginare cosa sia stato per Thomas vedere l’intera città dietro a MJ. Non c’era più amore per Isiah a Chciago”.

Nonostante la rivalità tra i due si possa datare all’approdo di MJ in NBA nel 1984, è certo che il vero e proprio punto di rottura sia del 1988, anno in cui le due squadre si sono incontrate ai Playoffs per la prima volta.

Jordan si presentava a quella Serie da MVP, Difensore dell’Anno e MVP dell’All-Star Game. I Pistons, tuttavia, portarono a casa agevolmente (4-1) la serie grazie ad una difesa violentissima sul 23, che ne uscì innervosito, tanto da tirare un pugno a Bill Laimbeer dopo un colpo violentissimo ricevuto in Gara 3. “Ho imparato giocando poi a Detroit” – ricorda ancora Sellers – “che affrontavano Mike in quella maniera perché avevano paura di lui; vedevano il suo talento e pensavano che l’intimidazione fosse l’unico modo per fermarlo”.

Anche i Pistons contattati per The Last Dance appaiono d’accordo con la visione di Sellers: Thomas, ad esempio, adotta nell’intervista un approccio lusinghiero:

“Sapevamo che Jordan fosse un grande giocatore e per questo dovevamo fare quanto possibile dal punto di vista fisico per fermarlo”.

John Salley, membro cardine dei Bad Boys e vincitore di almeno un titolo sia con Jordan che con Thomas, appare invece più diretto:

“Il piano era semplice, tutte le volte che entrava nel pitturato lo dovevamo colpire”.

Per resistere a queste intimidazioni i Bulls pensavano, servendosi di Charles Oakley come guardaspalle di MJ, di rispondere al fuoco con il fuoco; una tecnica che non ha portato altro che fallimenti, come dichiarato con franchezza sempre da Bill Cartwright:

“Non avremmo dovuto giocare fisici come loro, dovevamo giocare il nostro basket. Loro erano un team di veterani, più furbi, più fisici, con più realizzatori”.

Cartwright ricorda poi come Phil Jackson, allora assistant coach di Doug Collins, avesse già una soluzione in mente:

“Tutti sapevamo di avere con noi il miglior giocatore della Lega, ma comunque abbiamo aggiunto sempre nuovi talenti alla squadra. Ricordo che Phil dopo la sconfitta al secondo turno del 1988 ci ha detto che per vincere avremmo dovuto piegarci senza spezzarci. Alla fine è quello che è successo”.

Jackson sarebbe diventato capo allenatore dopo la sconfitta nelle Finali di Conference del 1989. Il primo anno, di transizione, vedrà l’ennesima sconfitta per mano di Detroit. Ma all’inizio della stagione 1990/91 i Bulls si presentano pronti e con l’attacco triangolo ormai assodato.

Chicago, alla fine della stagione regolare, aveva vinto 61 partite ed era chiaramente la miglior squadra della Eastern Conference. Dopo aver battuto 3-0 i Knicks nel primo turno di Playoffs e aver agevolmente superato anche i Sixers (4-1), i Bulls si ritrovarono di fronte i Pistons nelle terze Conference Finals consecutive tra le due compagini.

Le sensazioni, però, questa volta sono ben diverse:

“Eravamo riusciti a comprenderli, sapevamo che dovevamo giocare il nostro basket. Tutti lodano Laimbeer, ma la verità è che se non stavi al suo gioco non era in grado di giocare a pallacanestro”.

(Bill Cartwright)

I Bulls decidono quindi di mettere i Pistons davanti ad accoppiamenti per loro sfavorevoli: Pippen avrebbe difeso su Laimbeer, cercando di portare il legnoso centro di Detroit sul perimetro in entrambe le metà campo, mentre Cartwright si sarebbe accoppiato con il futuro perno del secondo threepeat, Dennis Rodman.

“L’idea era giocare a basket, non renderla una sfida troppo fisica. Ma alla fine è più semplice di così: nei tre anni in cui ci hanno battuto erano migliori, passato quel periodo eravamo noi ad esserlo; dovevamo passare attraverso la sconfitta per essere pronti a batterli”.

(Bill Cartwright)

I Bulls vinceranno 4-0 la Serie del 1991, portando i Pistons ad uscire dal campo alla fine della decisiva Gara 4 senza complimentarsi con gli avversari e prima che il tempo finisse.

“Avevamo vinto, perciò mi interessava poco. Ma col tempo ti rendi conto di che mancanza di eleganza denoti fare una cosa del genere – come un bambino nel parco che porta via la palla se non fa il capitano. Voglio pensare che se potessero tornare indietro, non lo rifarebbero”.

(Dennis Hopson)

Per Hopson, la docu-serie dello scorso anno è stata un’opportunità per rivivere il suo anno, il 1991, con quei leggendari Bulls.

“Non sono stato a Chicago a lungo, ma è stato fantastico. Giocare con Mike è stato incredibile, era maturo già da giovanissimo, non ho mai visto nessuno con quel tipo di mentalità così giovane”.

Sellers, invece, ha avuto la sfortuna di lasciare i Bulls poco prima del ciclo vincente di Phil Jackson e i suoi, accasandosi ai Pistons proprio quando la potenza di Detroit ha iniziato il proprio declino. Nel guardare il documentario, però, non c’è il rimpianto, ma la gioia di vedere finalmente MJ aprirsi di più.

“Pensavo romanzassero la storia, invece è tutto accurato. Cattura perfettamente l’ossessione di Micheal per la vittoria e il mantenere un vantaggio sugli avversari, oltre alla sua sete di informazioni e conoscenza. Alla fine sono queste le cose che lo rendono speciale”.

A quanto pare Mike è speciale anche nel covare rancore. “Li odiavo e li odio ancora oggi”.