Da undrafted alla conquista delle Finals. Storia di Matthew Dellavedova: quando la motivazione conta più del talento.
Forrest Gump, Billy Elliot o, per stare al passo coi tempi, Jon Snow de “Il Trono di Spade”; tutti personaggi molto amati, che partono dal nulla per diventare eroi quasi senza rendersene conto.
Se la vita di Matthew Dellavedova fosse un film, apparterrebbe senza dubbio a questa categoria.
«All’epoca delle Olimpiadi di Sidney 2000 avevo 10 anni. Ho scritto su un foglietto che mi sarebbe piaciuto, un giorno, rappresentare l’Australia ai giochi olimpici e giocare nella NBA. Il mio insegnante pensava fossi matto».
Certo, Dellavedova non avrebbe mai potuto essere il giocatore più veloce della NBA, neppure il più forte e, con i sui 190 cm, non era certo il più alto e probabilmente non sarebbe mai stato in grado di competere con i giocatori della lega statunitense dal punto di vista atletico.
Come ha fatto allora a vivere da protagonista assoluto le Finals NBA?
Beh, come disse Mike Brown (suo ex allenatore ai Cavs e attuale vice di coach Kerr nella baia): «Non è atletico, ma Matt può tirare fuori dal suo corpo tutto quello che un allenatore spera e chiede, che è tutto quello che si possa desiderare da un giocatore». Insomma, quello che la natura non gli ha dato, lui riesce a tirarlo fuori grazie alla sua forza mentale.
È qualcosa che ha imparato presto, quando studiava all’Australian Insitute of Sport: lesse un libro in cui si diceva che l’etica del lavoro era importante tanto quanto – o forse di più – il talento. Un saggio che qualche anno dopo aveva prestato a Mary True, la sua professoressa di psicologia al St. Mary, un’università in California. Aveva un ottimo rapporto con questa insegnante, le mandava mail con i suoi TED Talks favoriti e video che trattavano vari temi psicologici. True era molto colpita dalla sua curiosità e dalla sua “fame” di lettura al punto di dire:
«Avrebbe potuto tenere all’università un corso sulla motivazione. Non è un modo di dire: aveva letto sull’argomento quasi tutto quello che avevo letto io».
Ecco, la forte motivazione, l’abilità di cogliere con intelligenza ogni opportunità, la capacità di sfruttare al massimo ogni centimetro del proprio corpo: è ciò che ha permesso a Delly di diventare non solo un buon giocatore del NBA, ma a suo modo un leader.
Facciamo un passo indietro. Matt nasce la notte dell’8 settembre del 1990 a Maryborough, una cittadina che conta a mala pena 20 mila abitanti e si trova in uno dei punti più a est dell’Australia, da una famiglia di agricoltori innamorati del basket – il papà giocava ogni venerdì sera nella squadra locale.
Se il cognome “Dellavedova” vi suona familiare, non vi state sbagliando: i suoi avi si trasferirono nel lontano 1860 da Tirano (nei pressi di Sondrio, in Lombardia) nella grande terra dei canguri, l’Australia.
Nel 2006 Matt inizia la sua carriera, come la maggior parte degli sportivi del suo Paese, nell’Australian Institute of Sport, ovviamente giocando per la squadra di basket, uno sport che una buona parte degli Aussie neppure conosce.
Tre anni dopo “Delly” cerca di rendere più vicino il suo sogno. Nel 2009 approda in un college vicino Oakland, la St. Mary School, famosa per le sue squadre sportive, in particolare quella di pallacanestro, una delle più forti di tutti gli Stati Uniti. È proprio qui che conoscerà la sua professoressa di psicologia e anche la sua futura moglie, campionessa di pallavolo: Anna Schroeder.
Nel 2012 una fetta del suo sogno si avvera: Olimpiadi di Londra.
L’Australia, vincitrice dell’Oceania Championship del 2011, fa una buona figura con tre vittorie e tre sconfitte; una squadra guidata da un Joe Ingles allora ancora giocatore del Barcellona, da un immenso Patty Mills – che realizza addirittura 29 punti contro i padroni di casa – e dal più giovane tra i giocatori convocati: Matthew Dellavedova, non ancora entrato nel basket professionistico.
Ora il sogno può diventare realtà.
«Ci siamo sentiti travolti dalla gioia, orgogliosi di lui, sapendo tutto il lavoro, la fatica, i sacrifici che ha fatto per raggiungere questa meta» hanno detto i genitori Mark e Leanne, che con le due figlie hanno volato per la prima volta in Europa per vedere il figlio dal vivo a Londra.
Dopo quelle Olimpiadi da protagonista e 4 anni di college, Delly si candida eleggibile al Draft 2013.
È il 27 giugno 2013 al Barclays Center di New York: la sera in cui nessuno avrebbe voluto essere Matt Dellavedova.
Il primo a essere chiamato è Anthony Bennett – che non avrà una felicissima esperienza in NBA – poi Oladipo e così via fino alla fine (alla 15ma scelta viene chiamato Giannis Antetokounmpo).
David Stern, al suo ultimo anno da commissioner NBA, e quindi al suo ultimo Draft, non chiama Dellavedova né al primo né al secondo turno.
«Il mio obiettivo era di giocare nella NBA. Prima del draft avevo avuto buone offerte oltreoceano, ma volevo a tutti i costi andare in America. Non avevo un piano B. Quella sera ero tremendamente deluso, lo ammetto. Ma questo mi ha dato in realtà una motivazione in più».
Come si suol dire, “la fortuna aiuta gli audaci” e Delly riesce a trovare un posto con la maglia Cavaliers per la Summer League: l’ultima spiaggia. Dieci giorni e poche partite per guadagnarsi un posto in NBA.
Sfondamenti presi, tuffi su palloni vaganti e copertura di ogni centimetro del campo. Qualsiasi cosa pur di dimostrare la propria utilità alla squadra. Non avrebbe dovuto prendere 20 tiri a partita, anzi: non avrebbe dovuto tirare mai. L’unica cosa importante era aiutare i compagni.
Chris Grant, General Manager di Cleveland nel 2013, e Mike Brown, il coach, rimangono fulminati dal suo fuoco interiore. E il 13 settembre 2013 Matthew Dellavedova diventa ufficialmente un nuovo giocatore NBA. Sogno raggiunto.
Fin dall’inizio è il primo sostituto di un altro ragazzo nato in Australia: Kyrie Irving.
Nella stagione da rookie – come ci si poteva aspettare – non realizza grandi numeri, ma comunque calpesta i parquet americani per 72 partite, con una ottima media di quasi 18 minuti a match.
Come noto il mercato della stagione 2014/15 segna la rinascita in casa Cavs. Tanti volti nuovi, molti scambi e soprattutto il ritorno a casa di LeBron James. Solo cinque giocatori rimangono in Ohio: ovviamente tra questi c’è Matt.
Nel secondo anno Dellavedova migliora solo nei minuti giocati (che passano a 20), ma lo abbiamo già detto: non è un giocatore da numeri. Dalla decima posizione della stagione precedente i Cavaliers passano al secondo posto nella Eastern Conference, quindi Playoffs.
Primo turno 4-0 contro Boston, secondo in 6 gare contro i Bulls e Conference Finals in 4 contro Atlanta per andare in Finale contro i Warriors. NBA Finals che si riveleranno indimenticabili per il numero 8.
Gara 1 va a Golden State. La partita si dilunga fino agli over-time, ma oltre la sconfitta Cleveland ha un’altra brutta notizia: ancora una volta il ginocchio di Irving fa crack: ai supplementari torna negli spogliatoi. Ora chi gioca?
Nella partita successiva i Warriors sono stra-favoriti dopo che i Cavs hanno perso una delle tre stelle della squadra, ma sappiamo tutti che calcoli del genere nel computo di una Finale valgono sino ad un certo punto.
Gara 2 va ancora ai supplementari, ma stavolta hanno la meglio i Cavaliers.
Com’è stato possibile senza Kyrie? Semplice: un super LeBron, ma soprattutto un piccoletto australiano partito in quintetto: Matt Dellavedova. Una partita incredibile dove ha limitato Curry ad un irreale 5/23 dal campo, mettendo il punto esclamativo alla sua prestazione con un vitale rimbalzo offensivo a 10 secondi dalla fine e sigillando il match con due pesantissimi liberi.
Una notte che l’Aussie non si dimenticherà mai.
In Gara 3 Cleveland si porta sul 2-1, con un canovaccio simile al secondo match della serie. Un super Lebron e ancora Dellavedova scatenato: è presente su ogni singola palla vagante, limita nuovamente Steph Curry con una difesa asfissiante, oltre a gestire magistralmente i tempi dell’attacco dei Cavs e a condire la sua prestazione con 20 punti.
Forse è qui che si ferma il magico momento alle Finals di Matt. Gara 4,5 e 6 sono tutte vinte dai Golden State, con Curry che torna formati MPV e la stanchezza che mette in ginocchio i Cavaliers distrutti dagli infortuni a rotazioni ridotte all’osso.
Finisce la serie, GSW è campione. Casualmente – ma forse non troppo – LeBron alla fine dell’ultima partita abbraccia per primo quel ragazzo che a 25 anni diventa inconsapevolmente un eroe, senza mai esprimere un basket degno degli dei dell’Olimpo, ma mettendoci una cattiveria agonistica ai limiti del commovente. Talmente accesa che alla fine di una gara viene portato d’urgenza al pronto soccorso per disidratazione e sfiancamento.
L’anno dopo Matt fa un ulteriore step avanti, migliorando in punti (7.5), minuti (24) e assist (4.5), ritrovandosi di nuovo all’ultimo atto con i Cavs. E, ironia della sorte, ancora contro Golden State.
Questa volta Kyrie c’è. LeBron e compagni prenderanno l’anello, dopo una bellissima serie in sette partite. Il rientro di Irving limita la presenza di Delly in campo, impossibilitato dunque ad esprimere il proprio gioco come l’anno precedente. Bello o brutto che vogliamo, l’NBA è anche questo: storie fantastiche possono avere una durata limitata.
Dellavedova cambia aria: rimane a Est, ma si sposta a Milwaukee.
«Siamo una squadra più giovane di Cleveland, per questo ho assunto un ruolo più da leader parlando della mia esperienza e di quello che ho imparato giocando con i Cavaliers di LeBron».
Ha accanto un altro gigante della NBA: Giannis Antetokounmpo. Nello spogliatoio cerca di trasmettere ogni minimo dettaglio estrapolato dal King.
Del greco Matt dice: «ha ancora molto da imparare, ma può già essere un MVP. Ho giocato con LeBron quando aveva trent’anni, già formato. Sarà eccitante scoprire che cosa Giannis riuscirà a fare i prossimi anni. Sono contento che sia nella mia squadra».
Dellavedova passa gli anni nel Wisconsin nella penombra, ma d’altronde è il suo ruolo. È sempre stato quel genere di giocatore amato dai propri tifosi e detestato dagli avversari per essere un difensore rognoso e al limite. Lo sottolinea il suo ritorno in maglia Cavs: standing-ovation da parte dei tifosi di Cleveland, reduci dal divorzio con il Re.
«In realtà la cosa più importante è che i tuoi compagni di apprezzino. Io sono australiano, i miei genitori mi hanno trasmesso un valore importante: essere sempre il migliore compagno di squadra».
Come detto, alla trade deadline 2019 lascia il Wisconsin per fare il suo ritorno a Cleveland, quella che per il ragazzo sorridente di Maryborough è divenuta quasi una seconda casa.
Delly risulta un giocatore speciale perché in una Lega sempre più dominata da super-atleti ha dimostrato che, con il duro lavoro e con un impegno maniacale, limiti tecnici e fisici possono essere trasformati addirittura in valori, arrivando a risultati quasi insperati. Ed entrando di diritto nel cuore di chi ama il Gioco perché capace di essere anche democratico, non premiando sempre e soltanto i più dotati ma anche chi dimostra di onorarlo al massimo delle proprie possibilità e competenze.
Perché “se non ami Matthew Dellavedova, non ami lo sport.”