La storia di Arvydas e Domantas Sabonis, membri della famiglia lituana più famosa della NBA. Un’opera teatrale che rimane ancora incompiuta.
Se il nome di Arvydas Sabonis non vi dice molto, e magari avete molta più familiarità con il figlio Domantas, lungo attualmente ai Sacramento Kings, non preoccupatevi, siete comunque nel posto giusto.
Il lungo di Kaunas è infatti una leggenda, un giocatore che è riuscito a occupare quasi senza sforzo quel trono dorato riservato alle stelle del basket europeo. Sabas – come lo chiamavano amici e avversari sui parquet di tutto il mondo – non ha mai avuto fretta. Forse è anche per questo che, quando è finalmente approdato in NBA, sembrava più un monumento che un rookie. Troppo tardi, si diceva, troppo vecchio. Ma andiamo con ordine, perché la storia della dinastia Sabonis non è una di quelle che si possono riassumere in poche righe.
Capitolo 1: Le radici di una leggenda
Nel 1964, Kaunas, una città dell’allora Unione Sovietica e oggi considerata la capitale del basket lituano, era già una fucina di talenti. È qui che nasce e cresce Sabonis senior, in un contesto in cui la pallacanestro stava prendendo sempre più piede. Il giovane Arvydas si distingue rapidamente, tanto che a soli diciassette anni, nel 1981, riesce a portare lo Žalgiris Kaunas alla conquista del campionato sovietico. È solo l’inizio di una carriera straordinaria. Nel 1982, durante un tour di esibizione contro alcune squadre di college USA, Sabonis si fa notare a livello internazionale. In una partita memorabile, riesce a dominare Ralph Sampson, centro titolare di Virginia, all’epoca era uno dei prospetti più quotati del basket americano e futuro numero uno del Draft NBA del 1983. Nonostante Sampson fosse più alto di Sabonis, con i suoi 2.24 m contro i 2.21 di Arvydas, il lituano sottomise letteralmente l’avversario, suscitando l’ammirazione di allenatori e scout. Il leggendario coach di Indiana Bob Knight dichiarò che Sabonis «potrebbe essere il miglior giocatore non americano che io abbia mai visto.» Dale Brown, allenatore di Louisiana State, cercò persino di fare pressioni per portarlo a giocare nel campionato NCAA. Quella straordinaria prestazione spinse ulteriormente una carriera che avrebbe riempito una bacheca di trofei, tanto da rivaleggiare persino con quella di His Airness, Michael Jordan. Tuttavia, c’è una lacuna nel suo curriculum vitae: un titolo NBA.
Di chi è la colpa? Del destino? Dell’URSS, che ha limitato le sue opportunità di giocare in America durante gli anni migliori della sua carriera? O degli infortuni che hanno logorato il suo fisico, rendendo il suo arrivo in NBA tardivo e compromesso? Forse la risposta è un insieme di tutti questi fattori. Eppure, nonostante questa mancanza, Sabonis resta un’icona che ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del basket mondiale.
Capitolo 2: La Cortina di Ferro e gli infortuni
La carriera di Arvydas avrebbe potuto essere molto diversa se il mondo fosse stato un po’ più giusto, se i politici sovietici non avessero trattato la sua vita come una risorsa del KGB, e se i suoi allenatori avessero compreso che un gigante di 2.21 metri e 130 chili non è una macchina da guerra, ma un uomo con tendini e ossa che necessitano di riposo. Invece, lo hanno spremuto come un limone, e lui, da bravo soldato, ha obbedito. Nel giugno del 1985, il baltico viene scelto dagli Atlanta Hawks al quarto giro (scelta numero 77), ma non avendo ancora raggiunto il ventunesimo anno d’età la scelta viene dichiarata non valida per la gioia dell’URSS che così può continuare a ghermire il suo asset più prezioso. Il 1986, l’anno dopo la finale di Eurolega persa contro il Cibona Zagabria, è segnato invece da un terribile infortunio che sembra pregiudicargli il prosieguo della carriera: rottura del tendine di Achille. Nel 1988, due anni dopo essere stato scelto di nuovo al Draft NBA, questa volta per mano dei Portland Trail Blazers con la chiamata numero 24, si disputano le Olimpiadi di Seul: ripresosi da poco dall’infortunio (si era operato proprio nella città dell’Oregon per volere dei Blazers), Sabas, che avrebbe preferito starsene a casa, costretto dal regime comunista a un rientro forzato, finisce per giocare sul dolore per tutto il torneo Olimpico. Risultato? Oro per l’URSS che in finale piega la Jugoslavia di Dražen Petrović. Ma il prezzo di quell’indicibile sforzo finirà per costargli molto caro.
Capitolo 3: Gli anni d’oro in Europa
Con la caduta dell’Unione Sovietica Sabonis è finalmente libero di prendere in mano il proprio destino, ciò nondimeno per il salto negli Stati Uniti si dovrà aspettare ancora. Il momento, infatti, non è propizio, il fisico è logoro, e lui, che non ha mai fatto le cose a metà, sa benissimo di non poter rischiare. Così, invece di volare oltreoceano come il compagno di nazionale Šarūnas Marčiulionis, si trasferisce in Spagna. Il suo primo approdo è a Valladolid, una squadra di seconda fascia, dove la sua sola presenza porta entusiasmo e competitività a livelli mai visti prima.
Gioca con la grazia di un playmaker intrappolato nel corpo di un colosso, e fin da subito è evidente che nessuno in Europa può competere con la sua visione di gioco e abilità tecnica. Sabonis non solo riporta Valladolid ai vertici della Liga spagnola, ma regala anche momenti di pallacanestro da manuale, lasciando a bocca aperta gli spettatori con passaggi no-look e tiri da tre punti che non dovrebbero appartenere a un uomo della sua stazza.
Dopo aver sedotto i tifosi di Valladolid, nel 1992 passa al Real Madrid. È in questa fase che Sabonis consolida la sua leggenda europea, guidando il club spagnolo alla vittoria di due campionati e, soprattutto, dell’Eurolega del 1995. In quella stagione, il lituano gioca praticamente da solo, portando sulle spalle un Real Madrid che sembra nettamente inferiore alle corazzate europee dell’epoca come l’Olympiacos e il Panathinaikos. Durante le Final Four, nonostante sia già limitato fisicamente, Sabonis non è arginabile: la sua combinazione di tecnica sopraffina, forza e intelligenza cestistica è tale da far sembrare i suoi avversari completamente impotenti.
Uno dei momenti più iconici di quella stagione è la finale contro l’Olympiacos, dove Arvydas non solo domina sotto canestro, ma orchestra l’intera manovra offensiva della squadra. Alla fine, il Real Madrid alza il trofeo grazie a una prestazione indimenticabile del principe del Baltico, che si guadagna pure il titolo di MVP.
Poi, finalmente, a trent’anni suonati, decide di dare una chance all’America. Ma a quel punto il suo corpo è una specie di museo delle cere: magnifico da ammirare, un’opera d’arte in apparenza, ma terribilmente fragile, pronto a rompersi al minimo tocco.
Capitolo 4: L’arrivo nella NBA e la magia mancata
Nel 1995, a 31 anni, Sabonis è impaziente di scendere in campo con la maglia dei Portland Trail Blazers. Le visite mediche certificano che le ginocchia del lituano sono quelle di un ottuagenario ma Bob Withsitt, il GM di Portland, vuole comunque correre il rischio. E fa bene: Arvydas, infatti, pur non essendo più il giocatore esplosivo di un tempo, possiede un talento, un’intelligenza cestistica e un tiro dalla distanza così affidabili che lo rendono ancora uno dei migliori centri in circolazione.
Come ha osservato Mike Dunleavy, che lo ha allenato dal 1997 al 2001, «se solo Sabonis fosse arrivato nella NBA qualche anno prima, staremmo parlando di uno dei migliori centri di tutti i tempi.» E comunque, con 12 punti e 7,3 rimbalzi di media nei suoi sette anni trascorsi in America, impiega davvero poco tempo a diventare il veterano di cui Portland aveva bisogno e a sfiorare un titolo NBA nel 2000, arrendendosi in Gara 7 di finale di conference solo ai Lakers di Shaq e Kobe.
L’anno seguente, la franchigia dell’Oregon aggiunge Shawn Kemp, in uscita dai Cleveland Cavaliers, ad un roster ultra-competitivo (Rasheed Wallace, Scottie Pippen, Zach Randolph, Damon Stoudamire e Bonzi Wells, per citarne alcuni). I risultati però non vanno nella direzione sperata e, nel quadriennio successivo, si parlerà di Rose City più per i problemi dei suoi giocatori con le forze dell’ordine che per le vittorie sul campo, dando vita all’ormai leggendario soprannome (ma per le ragioni sbagliate) di Jail Blazers. Arvydas, non senza qualche rimpianto, lascia la NBA nel 2003 ma per la pensione è ancora presto.
Capitolo 5: the Last Dance e l’eredità di una dinastia
A trentanove anni, quando la maggior parte dei giocatori ha già detto addio al parquet da tempo, Arvydas Sabonis decide di concedersi un’ultima stagione con lo Žalgiris Kaunas, la squadra della sua città natale. Non lo fa per mancanza di opportunità o per inseguire un ultimo contratto, ma piuttosto per un atto d’amore verso il basket lituano e per ricordare a tutti, in Europa, chi fosse il vero Re. Il suo ritorno a ‘casa’, quasi vent’anni dopo il suo esordio nel 1981, viene accolto con una sorta di venerazione.
Nella stagione 2003-2004 dell’EuroLeague, Sabonis dimostra di essere ancora capace di prestazioni straordinarie. Con un fisico ormai ben lontano dall’essere integro, sfrutta la sua ineguagliabile visione di gioco, il tocco e la saggezza maturata in anni di battaglie sui campi di tutto il mondo. È un’annata magica per lui che, nonostante l’eliminazione ai quarti di finale contro il Maccabi Tel Aviv, culmina con la vittoria del premio di MVP della regular season dell’EuroLeague.
Sabonis non è solo un simbolo del basket lituano, è un’istituzione. Dopo ogni partita, i tifosi dello Žalgiris, e persino quelli delle squadre avversarie, gli tributano standing ovation interminabili. Lui ringrazia sul campo con una naturalezza e una classe che sembrano ancora intatte, tanto che persino i giovani avversari si dichiarano grati di poter dividere il campo con una leggenda vivente. «Ogni minuto che passo in campo con Sabonis è un onore» dichiarò un giovane Nikola Peković, all’epoca emergente stella del Partizan Belgrado, «perché non si tratta solo di giocare a basket, ma di essere testimone di un pezzo di storia.» Nel 2005, infine, appende le scarpette taglia 52 al chiodo per diventare, seduta stante, presidente ad honorem del ‘suo’ Žalgiris.
Così, mentre Arvydas concludeva il suo viaggio da giocatore, una nuova generazione di talenti stava già emergendo.
Capitolo 1: L’inizio di un sogno – Il debutto NBA a Madrid
Preseason NBA, 3 ottobre 2016. Il Barclaycard Center di Madrid ribolle di energia, ma non è per un concerto dei Rolling Stones. Stasera il palco è tutto dei Sabonis. Solo che questa volta il protagonista non è il principe del Baltico. Arvydas, in abiti civili, entra al palazzetto con l’aria di chi ha visto tutto e sa già come andrà a finire, perché i riflettori in campo oggi sono tutti per Domantas, il figliol prodigo, che fa il suo esordio con la maglia degli Oklahoma City Thunder in una gara di pre-season. ciò nonostante, Madrid accoglie Arvydas come una vecchia star del cinema. Trasferitosi in Spagna per godersi il meritato buen retiro, un attempato Sabonis osserva, mentre in campo va in scena il passaggio di consegne.
Domantas, nato a Portland nel ‘96 mentre il papà si stava spaccando le ossa in una serie playoff contro gli Utah Jazz, è una combinazione esplosiva: metà spirito americano, metà anima lituana. Da piccolo sgambettava sul parquet dei Trail Blazers diventando presto la mascotte della franchigia dell’Oregon.
A distanza di pochi anni, fa uno strano effetto vederlo fare la ruota sul campo del Real Madrid. Il giovane Domantas appare piuttosto nervoso. Nervosismo che invece non sembra intaccare il papà che, dalla tribuna, conserva l’atteggiamento serafico di chi ha tutto sotto controllo. «Thunder? Suona bene, è la squadra giusta per lui», dice a un giornalista, come se stesse scegliendo una camicia dall’armadio. Durante una pausa, con il solito sorriso ironico da uomo navigato, commenta: «Io preoccupato? Sono qui per vedere mio figlio, non per rovinarmi il cuore.» Le risate scorrono, ma i suoi occhi da falco non mollano un secondo il campo. Domantas parte subito in quintetto. E Madrid esplode di gioia. L’ovazione più rumorosa però arriva al l’intervallo ed è ancora per Arvydas: Clifford Luyk, il suo vecchio allenatore ai tempi di Madrid, lo chiama in campo per consegnargli una maglia speciale del Real, ed è tutto un ‘olé’ e lacrime di nostalgia.
Capitolo 2: Dall’Europa all’America – L’educazione cestistica di Domantas
In realtà, ben prima di arrivare in NBA, Domantas aveva già costruito una solida base di basket pro. E il suo viaggio tra l’Europa e l’America, degno di un romanzo d’avventura, rappresenta soltanto una tappa di un percorso più ampio che lo aveva vista debuttare trai i ‘grandi’ già a sedici anni con l’Unicaja Malaga. E lì che comincia a farsi notare. Leggenda vuole che la federazione spagnola abbia tentato di sedurlo con una maglia della Roja.
Ma Arvydas, in perfetto stile ‘Greta Thunberg’, avrebbe risposto: How dare you?! Quest’estate il ragazzo torna in Lituania con me. Intanto a Malaga, tutto è apparecchiato per un triennale da 600.000 dollari. Malgrado ciò, la voglia di Domas di cimentarsi col basket NCAA è grande. Troppo, anche per prendere i soldi dall’ Unicaja e veder sfumare quel sogno. Sabonis Senior tituba ma poi lascia che Domas segua il suo cuore. Comincia così l’avventura di Sabonis Jr a Spokane, Washington, la città dove sorge il campus della Gonzaga University. Sotto coach Mike Few (e con Riccardo Fois nello staff tecnico) gioca un primo anno solido per poi sbocciare nel secondo e disputare una March Madness eccellente nonostante la sconfitta alle Sweet Sixteen per mano di Syracuse.
Nemmeno il tempo di riprendersi dalla cocente eliminazione al torneo NCAA che per la famiglia Sabonis è subit dejà vu: Domantas viene selezionato con l’undicesima scelta dagli Orlando Magic, ma la sua permanenza in Florida dura pochissimo. Nel giorno del Draft, viene coinvolto in una trade che lo spedisce agli Oklahoma City Thunder, assieme a Victor Oladipo, in cambio di Serge Ibaka. Per la cronaca, la sua prima stagione NBA è puro apprendistato, sotto la guida di un indemoniato Russell Westbrook in formato MVP. Nonostante le sue statistiche modeste (5,9 punti, 3,6 rimbalzi e 1 assist di media in 81 partite) e la mancata inclusione nei migliori quintetti Rookie, l’opportunità di confrontarsi quotidianamente con il livello NBA gli permette di comprendere i ritmi e le esigenze della lega più competitiva al mondo.
Capitolo 4: Indiana e l’esplosione
La grande svolta nella carriera di Domantas arriva nell’estate del 2017, quando i Thunder lo scambiano con gli Indiana Pacers per fare spazio a Paul George. È a Indianapolis che il figlio di Arvydas inizia a mostrare davvero il suo potenziale. Ancora al fianco di Victor Oladipo, l’altro pezzo dello scambio, Sabonis diventa un pilastro del gioco dei Pacers, migliorando esponenzialmente il suo contributo su entrambi i lati del campo. Nella sua terza stagione a Indianapolis (2019-2020), complici anche i guai fisici di Oladipo, Domas fa registrare numeri impressionanti: 18,5 punti, 12,4 rimbalzi e 5 assist a partita, guadagnandosi la prima convocazione all’All-Star Game. L’abilità di Sabonis come facilitatore e rimbalzista lo rende uno dei lunghi più completi e versatili della lega. La sua capacità di orchestrare l’attacco dal post alto, con passaggi illuminanti e un’intelligenza cestistica fuori dal comune, diventa la cifra stilistica del suo gioco.
Capitolo 5: Sacramento – La svolta
Nel febbraio del 2022, arriva un’altra svolta nella carriera di Domantas. I Sacramento Kings, una franchigia che sognava un giocatore così da una vita, lo prende a metà stagione in uno scambio ormai storico con la rising star Tyrese Haliburton. Pronti via e i Kings, da squadra anonima, diventano un’orchestra sinfonica a colpi di triple doppie made in Lithuania. Nella stagione 2022/2023 Sabonis viaggia a 19,1 punti, 12,3 rimbalzi e 7,3 assist. Numeri che abbagliano e che avvicinano persino i fenomeni Nikola Jokić e Luka Dončić. Assieme a De’Aaron Fox, Sabonis rompe la maledizione e, finalmente, dopo diciassette lunghissimi anni, trascina i Kings ai play off. In post-season, poi, solo un leggendario Steph Curry da 50 punti in Gara 7 del primo turno riesce a frenare la loro corsa.
Nell’anno appena passato qualche infortunio di troppo (su tutti quello patito da Malik Monk) ha impedito ai Kings di qualificarsi direttamente ai play off ma, è opinione comune, che nella capitale delle stato della California la musica sia cambiata. Come dimostra lo status di All-Star di Domas (già tre apparizioni), e una striscia di doppie doppie consecutive che si è fermata solo a ‘61’ gare, oltre alla sua prestigiosa inclusione negli starting five All-NBA (nel terzo quintetto assoluto sia nel 2023, sia nel 2024).
Tuttavia, per il figlio di Arvydas c’è ancora tanto da fare per diventare il giocatore dominante che è stato il padre. Il suo talento nella metà campo offensiva è indiscusso: la sua gravity e la capacità di incidere come facilitatore per i compagni lo rendono uno dei lunghi più versatili della NBA. Ma è il lato difensivo del campo che rappresenta la sua vera sfida. Sabonis ha spesso mostrato difficoltà a proteggere il ferro con costanza, soffrendo contro i centri più atletici e dinamici. La mancanza di una vera presenza intimidatrice sotto canestro limita la difesa dei Kings, che subiscono troppo contro squadre dotate di lunghi fisici. Inoltre, il suo posizionamento nelle rotazioni difensive e la capacità di contenere gli avversari sul perimetro sono aspetti su cui dovrà lavorare per fare il salto di qualità. Per i Kings, che hanno già dimostrato di poter competere ai massimi livelli, la crescita difensiva di Sabonis sarà cruciale. E Sacramento ci crede, come dimostrano le ultime mosse di mercato: blindati i loro big Fox e Sabonis (oltre a Monk), infatti, è stato firmato il pluri-All Star DeMar DeRozan.
L’obiettivo è puntare dritti ai play off, svestire i panni da pretender e diventare contender a tutti gli effetti. Domantas ha raccolto la torcia dalle mani del padre e ora prova ad alzare l’asticella, con l’ostinazione di chi ha il basket nel sangue e un futuro da plasmare.