Cosa comporterebbe l’aggiunta di due franchigie nella Lega in futuro prossimo, ma non troppo.

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“Non voglio stabilire delle scadenze temporali precise, anche perché ad oggi non siamo pronti, ma penso che un’espansione della lega, presto o tardi, sarà inevitabile.”

Queste le parole pronunciate qualche anno fa dal commisioner Adam Silver, interrogato in merito alla possibilità di assistere ad un’espansione della NBA, quindi di vedere l’aggiunta di due squadre (una per Conference?) in un futuro indefinito. Silver aveva anche detto che esiste una “short list” di candidate principali per questo tipo di progetto.

Da anni a questa parte uno degli slogan più utilizzati dalla Lega è “NBA Global Game”, forte segnale della strada che è stata presa ormai da tempo: Europa, Asia, Africa, Oceania, ormai con il League Pass la pallacanestro a stelle e strisce raggiunge ogni angolo del Pianeta.

La NBA, tra le “big four” dello sport americano (NBA, NFL, NHL, MLB), è di certo la più Global: negli ultimi anni abbiamo assistito ad una “globalizzazione interna” della lega, tanto da vedere sempre più giocatori-franchigia di passaporto internazionale. In generale, la percentuale di giocatori extra-USA comincia ad essere sempre più rilevante. Allora, il prossimo passo potrebbe essere una “espansione esterna”, con l’apertura di franchigie fuori dai confini americani? Idea affascinante, ma meglio restare coi piedi per terra: l’idea dell’espansione è concreta, ma le alternative USA sono ancora le più gettonate.

COME SCEGLIERE IL POSTO GIUSTO?

È comunemente accettato che sono tre le leve ritenute fondamentali nella scelta di una nuova città:

1. Le infrastrutture: si parla dell’arena, asset fondamentale che deve avere la città ospitante. La media della capacità dei palazzi NBA è ad oggi di circa 20.000 spettatori. È bene non sottovalutare questo aspetto, chiedere a Seattle per conferma.

2. Fanbase: Quando una squadra è situata in mercato piccolo, quindi ha problemi a rientrare dei costi, oppure non dimostra di avere un progetto vincente per parecchi anni, è fortemente soggetta ad una ricollocazione – vedere Charlotte Bobcats e Vancouver Grizzlies. Muoversi verso un luogo che ha le potenzialità per garantire una folta base di tifosi è fondamentale.

3. Il mercato di riferimento. Questo terzo punto la Lega lo ha imparato molto bene sulla propria pelle: l’esperimento fallito a Vancouver e Charlotte ha messo tutti davanti all’evidenza che la città deve essere in grado di permettersi una squadra NBA, soprattutto nei primi tempi di ovvia difficoltà – sia economica che sportiva – rispetto alle restanti squadre già consolidate.

Piccola menzione anche per il clima politico dello Stato in cui si intende aprire una franchigia: quando ci si muove verso una nuova città è bene assicurarsi di essere ben visti dalle autorità politiche locali e non solo; anzi, è importante avere la certezza di essere ben voluti. Questo risulta fondamentale per garantirsi una maggior facilità nel reperimento delle fonti di finanziamento, soprattutto nei primi tempi.

VINCOLI ED IMPEDIMENTI

È chiaro, Adam Silver non può svegliarsi una mattina e decidere di aggiungere due o più squadre alla nostra Lega preferita come se nulla fosse, ci sono degli ostacoli – alcuni aggirabili, altri meno – da tenere in considerazione (si, avete indovinato, si parla di soldi…). Vediamo quali.

Per prima cosa è bene sapere che ogni squadra che si aggiunge alla famiglia delle franchigie NBA deve pagare una “commissione di benvenuto”, una sorte di tassa, che in America chiamano “expansion fee”. Questa tassa rappresenta il prezzo del biglietto da pagare per l’ingresso. A quanto ammonta questa tassa? Dipende.

L’ultima espansione è avvenuta nel 2004 e ad entrare sono stati i Charlotte Bobcats (oggi New Orleans Pelicans), che hanno avuto la possibilità di “draftare” 19 giocatori non protetti dalle restanti 29 squadre. Per loro la expansion fee è risultata essere pari a 300 milioni di dollari, cifra che simboleggiava il valore medio di una franchigia NBA in quell’anno. Il ragionamento è: vuoi una squadra NBA? La paghi. Quanto? Sborsi il valore all’incirca pari a quello di una squadra attualmente nella Lega. Insomma, è come se la NBA facesse “acquistare” al proprietario la franchigia.

Piccolo problema, i Bobcats sono entrati 18 anni fa. Se per caso oggi – nel 2022 – venisse in mente a qualcuno di portare una nuova squadra nella Lega, sulla base del ragionamento appena fatto, con 300 milioni in tasca non si potrebbe nemmeno sedere al tavolo per discuterne. Da allora infatti la NBA ha compiuto passi da gigante, è cresciuta a livello mediatico e ha una fan base di appassionati che non è minimamente paragonabile a quella di un decennio fa. Ovviamente incassi e valore delle franchigie ne hanno giovato di pari passo. Inevitabile conseguenza: è lievitata anche l’ipotetica tassa d’ingresso.

Secondo delle stime risalenti al 2019, la cifra da sborsare per poter entrare si dovrebbe aggirare intorno al miliardo (abbondante) di dollari. Sono conti che non sono precisi al centesimo, anzi, ma fatti sulla base dei due passaggi di proprietà che hanno visto coinvolti gli Atlanta Hawks e i Los Angeles Clippers; il primo è costato 900 milioni, per una squadra che non è esattamente al centro delle attenzioni mediatiche e non ai primi posti per quanto riguarda le entrate. Steve Ballmer invece, il nuovo proprietario dei Clippers, se l’è aggiudicata alla modica cifra di 2 miliardi di dollari.

Ed ecco il primo problema: non è proprio facile trovare qualcuno disposto a mettere sul tavolo tanti soldi solamente per entrare, soldi che nulla hanno a che fare con i costi operativi di gestione della franchigia.

Problema numero 2: giochi di potere e conflitti d’interesse. Come normale che sia, ognuno guarda prima di tutto al proprio giardino di casa, pensando ai propri interessi prima di schierarsi a favore o contro ad una proposta. Allora, come reagirebbero i 30 proprietari attualmente in carica alla proposta di un’eventuale espansione? Anche qui, dipende.

Bisogna tener conto di due aspetti cruciali. Punto uno: l’expansion fee sarebbe interamente girata nelle tasche delle attuali 30 franchigie NBA, in modo equamente distribuito. Non male, vero? Viste le cifre di cui si parla non sarebbe un guadagno indifferente, soprattutto per determinate franchigie che non eccellono nei ricavi. Vista così la faccenda non sembrerebbe complessa, tutti a favore di un’espansione, tutti amici e tutti ricchi. Ma ecco il punto 2: in NBA esistono una serie di voci che potremmo unire nella definizione di “ricavi della Lega”, che in base ad alcuni accordi pregressi è previsto che vengano, anche questi, divisi equamente tra le franchigie.

La voce più importante di tali ricavi sono senza dubbio i diritti televisivi. L’accordo sui diritti TV nel 2018 ha toccato la cifra record di 2.6 miliardi di dollari – cresciuta la Lega, eh? Questo significa che ad ogni squadra spettavano circa 86 milioni di dollari (come divisione della percentuale destinata alle franchigie); se si dovesse aggiungere una squadra in più – o più realisticamente due – già scenderebbero a 81 i milioni pro-squadra. Fastidioso, ma compensabile. Se però ripetiamo il giochino per altre tot voci di ricavo, la perdita che deriva dalla spartizione con due squadre in più diventa pesante. Il ragionamento comincia così ad articolarsi: meglio un super guadagno oggi e sopportare perdite negli anni successivi… oppure stiamo in 30, che così male non si sta?

Altro problema, questo di natura competitiva: la squadra e i giocatori. Due squadre in più significa circa 30 giocatori richiesti da due potenziali pretendenti in più; anche se non è un danno monetario, è un fatto che rappresenta un costo in termini di maggior concorrenza e – anche se sembra ridicolo parlarne di questi tempi – diluzione del talento.

Il discorso può essere anche ribaltato: quanto conviene davvero aggiungere due squadre che partirebbero anni luce indietro alle altre? Altri “tanking teams”, forse non ciò che la lega cerca al momento.

ESPANDERE, MA DOVE?

Abbiamo visto quali sono i precedenti storici di un’espansione e le difficoltà che, ad oggi, si presenterebbero qualora si decidesse di allargare nuovamente la Lega. Vediamo ora quali sono i candidati più “caldi” e più probabili, chi parteciperebbe ad una corsa per aggiudicarsi una nuova franchigia, e perché le candidature risultano essere plausibili (più o meno).

EUROPA, TRA SOGNO ED UTOPIA

“Tra sogno ed utopia” riassume perfettamente tutto ciò che c’è da sapere circa una possibile espansione nel vecchio continente. Per noi europei è certamente un sogno per svariati motivi: poter seguire le partite con un fuso orario più comodo, avere la possibilità di andarle a vedere dal vivo, nella peggiore delle ipotesi con poche ore di volo, e avere un “nostro” punto di riferimento in NBA.

Ma come detto, per il momento è solo utopia.

Ad oggi esiste una sola città candidata ad un’espansione europea, per la quale le trattative potrebbero aprirsi realmente: Londra. Sono ormai svariati anni che la Lega organizza una partita nella fantastica O2 Arena della capitale inglese e i risultati sono sempre stati ottimi. E allora perché no? Le problematiche, impossibili da aggirare, sono tutte di carattere logistico.

Ogni anno, le squadre indicate per giocare il match europeo hanno avuto bisogno di almeno 3 giorni extra di riposo. Problema arginabile nella costruzione del calendario finché si tratta di una sola partita, ma nel momento in cui una squadra dovesse trasferirsi stabilmente a Londra, non sarebbe più possibile schedulare il calendario della Regular Season, almeno non seguendo le modalità attualmente in vigore. Troppo lungo il viaggio – di andata e ritorno – e troppo condizionante l’adattamento ad un fuso diverso. Ecco le parole di Adam Silver a riguardo:

“Fin quando la nostra stagione sarà così lunga, giocare regolarmente in Europa richiederebbe troppi giorni di riposo. In Europa hanno una filosofia diversa: giocano una volta a settimana e quindi hanno diversi giorni tra una partita e l’altra per riposare ed allenarsi. Da noi non funziona così.”

Allora le soluzioni sono due: o aspettiamo che vengano inventati dei mezzi di trasporto più potenti degli aerei che permettano di ovviare a questo problema (mettetevi comodi); oppure, soluzione apparentemente più praticabile, accorciare il pesante calendario di 82 partite e concedere più riposo ai giocatori, rendendo fattibile anche trasferte verso il vecchio continente. Ma non aspettiamoci nulla di tutto ciò: una riduzione delle partite danneggerebbe l’intero business, comportebbe un altro vuoto nei ricavi, che sarebbe difficile da compensare. Certo, alla fine è sempre un problema di soldi.

Inoltre, abbiamo parlato solo di Regular Season. Ma se la fantomatica squadra di Londra si qualificasse ai Playoffs, cosa succederebbe? Ad oggi, si tratta di un’utopia.

MEXICO CITY

Dopo che i Golden State Warriors nel 2018 hanno declinato l’invito per la tradizionale visita alla Casa Bianca dal Presidente degli Stati Uniti, con la Lega che non ha presentato alcuna obiezione, è chiaro che non sarà un muro a fermare questa alternativa.

“Mexico City has a real chance”, ha detto Adam Silver. Ma anche in questo caso ci sono dei pro e dei contro.

Innanzitutto, Città del Messico è tra le città più grandi al mondo, il che significa grande potenzialità in termini di bacino d’utenza, e sì, in termini di guadagni.

In secondo luogo, c’è il grande vantaggio della posizione geografica: vicinanza agli States e stesso fuso orario di diverse città. Quindi rispetto alla suggestione europea, parliamo di un’idea percorribile.

Terzo, sono già stati fatti “esperimenti”, più o meno riusciti. Sono state disputate svariate partite a Mexico City, e il pubblico ha risposto alla grande, manifestando entusiasmo e portando al sold out istantaneo in entrambe le occasioni.

Infine, la città risponde al bisogno “Global”, infatti sarebbe una seconda migrazione della Lega fuori dagli USA, dopo quella in Canada. Sembra la soluzione perfetta allora, ma ci sono anche dei problemi, e uno dei primi problemi di Citta del Messico è… Città del Messico. Sono infatti le problematiche stesse della città che fanno da ostacolo alla candidatura, riassumibili in: inquinamento, delinquenza e altitudine.

Mexico City è tra le città più inquinate del mondo, sembra esser tornata agli anni ’80 quando “non era raro vedere uccellini esalare l’ultimo respiro e cadere dell’albero” (Elisabeth Malkin). Traffico, mezzi di trasporto poco moderni e le numerose industrie che circondano la città hanno fatto ripiombare la città in una situazione di emergenza totale: chi ci è stato vi può confermare che non è più possibile osservare nitidamente alcun tipo di paesaggio senza il filtro creato dallo smog, e i problemi di salute dei cittadini si sono ovviamente impennati. Non esattamente la condizione ideale per convincere un giocatore NBA, magari una superstar, a scegliere di giocare in Messico.

Ma c’è di peggio. La capitale messicana ha un ruolo tristemente rilevante anche in un’altra particolare classifica: quella della quantità di omicidi e rapimenti, che si verificano con regolarità. Anche qui, non proprio il posto ideale per andare a guadagnare milioni di dollari, dove trasferirsi a vivere con la propria famiglia.

Terzo problema, meno drammatico ma comunque significativo, è quello dell’altitudine della città, e conseguenti problemi per le performance sportive. Se pensate che giocare a Denver sia complesso, vista la sua altitudine di 1.600 metri, vi impressionerà sapere che Città del Messico è situata oltre i 2.200 metri; e l’arena – costruita di recente, un gioiellino da 300 milioni – si trova sul punto più alto della città.

Per maggiori informazioni chiedere ad Alan Crabbe, che durante le due partite giocate a quell’altezza si è dovuto “ritirare” per vomitare diverse volte; oppure a Russell Westbrook – non proprio l’ultimo degli atleti – che ha terminato la partita del 2018 con la febbre.

Soluzione affascinante, insomma, ma c’è molto da lavorare per risolvere alcune problematiche e rendere la città in grado di ospitare una squadra NBA in sicurezza.

SEATTLE

The Emerald City è considerata l’ipotesi più probabile dal momento in cui, nel 2008, è stata “derubata” della sua squadra a vantaggio di Oklahoma City. A Seattle il problema della fan base non si pone, anzi: non sono poche, anzi, le manifestazioni di nostalgia da parte della città nei confronti dei “loro” SuperSonics.

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Seattle – è un dato di fatto – è la città americana con più “mercato”, con più concentrazione di risorse tra quelle senza una squadra NBA. E se prima questo poteva essere opinabile, ora non lo è più, non da quando è anche la casa di uno dei giganti del business mondiale, ovvero Amazon. Volente o nolente, la città dello Stato di Washington è un’assoluta protagonista del panorama economico americano e la NBA questo non può di certo ignorarlo.

Ricordiamo che la franchigia fu spostata da Seattle per problemi legati all’agibilità dell’arena – c’è chi parla di cospirazione, ma non andiamo oltre – ed è appurato che sia pronto il progetto per rimettere a nuovo la storica Key Arena. L’idea è farne un capolavoro di modernità e comfort, oltre che quella di raddoppiarne le dimensioni e renderla utilizzabile per svariati avvenimenti, non solo sportivi.

Al momento non sono stati rilevati pubblicamente piani concreti o grandi candidati per riportare una franchigia a Seattle, ma le condizioni sembrano esserci tutte. In molti si sono esposti a favore di un ritorno, in primis Steve Ballmer si era detto “in prima linea” in questa battaglia, forte della sua posizione, ovvero proprietario dei Clippers, rilevati per 2 miliardi di dollari; più recentemente, è stato il turno di Paolo Banchero, come abbiamo raccontato qui.

LAS VEGAS

A questo punto una cosa dovrebbe essere chiara: al centro di tutte queste logiche ci sono i soldi. E quale città americana va più a braccetto con la figura del dollarone verde, se non Las Vegas? La capitale mondiale del gambling e dei divertimenti è una delle più grandi in America, attira ogni anno milioni di turisti e genera (direttamente e indirettamente) un enorme giro di denaro.

Il Nevada era orfano di una squadra sportiva, ma recentemente si è mossa in questo senso aggiudicandosi prima una franchigia NHL (i Golden Knights), poi una NFL (i Raiders). Las Vegas fa sul serio, insomma: vuole entrare di prepotenza all’interno dell’entertainment sportivo americano, ed ha i mezzi per farlo. Il biglietto di visita? Mercato enorme, fiumi di denaro e fanbase assicurata. Sì, Vegas è una candidata più che seria per assicurarsi in futuro una franchigia NBA.

Il problema sembrava essere, in un primo momento, legato all’immagine che porta con sé Sin City. Nessuna fonte ufficiale, ma sembra che la Lega – sempre molto attenta al rispetto delle regole e dei principi etici in generale – fosse inizialmente un po’ titubante nel voler accostare il proprio nome a quello di Las Vegas, sebbene l’introduzione dell’In-Season Tournament abbia dimostrato il contrario.

Il mercato è invitante, irrinunciabile, certo. Per questo motivo sembra che anche la Summer League, che ogni estate si svolge qui, rappresenti il “grande compromesso” che la NBA ha trovato con la città del peccato (ne abbiamo parlato QUI). Ma per ora, questo è quanto.

CONCLUSIONI

Queste elencate sono solo le principali candidate della famosa short list citata da Adam Silver per una possibile espansione. Non sono le uniche: Kansas City e Louisville sono altre candidate, ma partono leggermente dietro a quelle sopra citate, entrambe per via delle dimensioni del mercato. Rischiano di essere progetti più complessi da far decollare. 

La sensazione è che, in ogni caso, presto o tardi, la Lega si espanderà. Non sappiamo ancora né dove né quando, ma i progetti sono sempre stati ambiziosi e i passi in avanti negli ultimi anni sono stati importanti.