Il racconto – a ritmo serrato – della carriera di Carlos Delfino, uno dei giocatori più iconici che il basket argentino abbia donato ai parquet dei due mondi.

Per la testa grande, quadrata, sin da piccolo Carlos Delfino veniva chiamato “Cabeza”. Il suo soprannome preferito. Anche se nel tempo ce ne sono stati degli altri: come “Lancha” (barca) o “Quesón” (Grande formaggio). Ma la “testa”, evidentemente, era destinata a prevalere. Quella che lo ha portato all’oro olimpico, a far parte della “generazione dorata” argentina (che ha collezionato un totale di 17 medaglie d’oro, di bronzo e d’argento), a essere il primo giocatore argentino selezionato nel first round del Draft NBA.
UNA FAMIGLIA DI CESTISTI
Carlos Francisco Delfino, questo il suo nome completo, nasce a Santa Fe il 29 agosto 1982. Ha casa vicino alla sede del club per cui gioca da bambino: il Deportivo Libertad. Ma inizia a tirare a canestro molto prima, all’età di 6 anni, quando suo nonno Carlos Felipe gliene costruisce uno nel giardino di casa.
“Sono sempre stato appassionato di basket. Tanto che da ragazzo, quando mio padre mi mandava a letto la sera, aspettavo che tutti in casa si addormentassero e al buio, in camera mia, giocavo con la palla e un piccolo cerchio che avevo fatto appendere al muro.”
Carlos Delfino
Carlos rappresenta la quinta generazione dei Delfino con lo stesso nome. Il nonno Carlos Felipe è un muratore, che ripara e costruisce giocattoli di cartone e palle da calcio con calzini bucati. Ma si diverte con il nipote anche a camminare sul tetto di casa, a trovare l’equilibrio giusto. Quello che si respira nel luogo dove cresce il piccolo Carlos. In un’abitazione sempre piena di persone, di vita: una squadra.
Lo sport è molto presente in famiglia, ma chi più vuole che diventi un giocatore di basket professionista è il padre, Carlos Gustavo, che ha giocato ad alti livelli in Argentina. “Non fare i blocchi, fatteli fare”, gli dice. “Impara a palleggiare”. Così, a 15 anni, Carlos Francisco decide di diventare professionista nel basket. “Mia madre era arrabbiata – ricorderà più avanti Delfino – perché avevo lasciato la scuola”. Ma la mamma non sapeva che il figlio avrebbe cambiato anche Paese.
L’ARRIVO IN ITALIA
A portare Carlos Francisco Delfino in Italia è Geatano Gebbia. All’epoca, l’allora allenatore della Viola Reggio Calabria – poi anche vice della Nazionale maggiore italiana nel 2001 – rimane colpito da Carlos D’Aquila: un ottimo giocatore argentino che ha giocato a Cantù e a Napoli, poi ritornato in Argentina, e che faceva parte della prima ondata di naturalizzati in Italia. Così contatta chi lo ha allenato, Tonino Zorzi, e punta gli occhi sugli stranieri.
“Avevo molta attenzione per il mondo cestistico sudamericano. Sono andato a vedere il campionato juniores panamericano in Colombia. Fra l’altro, con un certo livello di incoscienza, perché Cali non era tranquilla: infatti mi si raccomandava di non uscire la sera perché pericoloso. Io ero andato per vedere l’Argentina, non sapevo di Carlos. Mentre nel Brasile giocava Thiago Splitter (lo Splitter dell’incredibile stoppata in Gara 2 delle Finals a Lebron James). Per essere una guardia, aveva una forza atletica non indifferente. Aveva una tecnica più pulita degli altri argentini. È arrivato senza avere la naturalizzazione in Italia. Si è iniziato ad allenare in attesa. Era il giocatore straniero più giovane ad aver giocato in Italia, prima di lui Bodiroga.
Gaetano Gebbia
Gebbia non sa di essere riuscito a trovare un accordo con Delfino per puro caso: egli, infatti, sarebbe dovuto andare a giocare negli States, in una High School. Ma non gli è mai arrivato il visto.
Quando “Cabeza” debutta in Italia con Reggio Calabria segna subito 18 punti. Prestazione che Gebbia non dimenticherà mai: soprattutto per una giocata.
“Contro la Scavolini Pesaro, alla prima partita, prende la linea di fondo e fa una schiacciata rovesciata di potenza che mi ha lasciato impressionato. Senza alcun tipo di intimidazione.”
PALADOZZA: IL TITANIC
Con la Viola resta due anni. Poi passa alla Fortitudo Bologna, dov’è subito amore. Per lui rimane “il periodo più bello fuori dall’NBA”. Sensazione? “Ogni volta che entro lì è come il Titanic. E senitre quella canzone che mette i brividi”. I tifosi lo accolgono, lo tifano, lo amano. Prima che arrivino le sirene oltreoceano, segna 598 punti in 58 partite. E disputa due finali scudetto, oltre a una di Eurolega. Però, tutte e tre, perse.
L’ORO AD ATENE
Il riscatto arriva ad Atene 2004. L’Argentina di Ginobili, Scola e Delfino batte il Dream Team degli USA alle Olimpiadi, in semifinale. “Preparando la partita, per quanto sia difficile farlo con meno di 24 ore di tempo“, ricorda Delfino all’Ultimo Uomo, “abbiamo fatto una scommessa: scommettere contro il loro tiro da fuori e chiuderci in area, puntando su Manu che in quel torneo era come baciato dalle stelle, visto che tutto quello che toccava diventava oro”. Risultato? 89-81. È finale olimpica. Qui Carlos trova l’Italia e molti compagni di squadra, tra cui Basile e Pozzecco. “Quel periodo guardavamo la talpa (ndr, reality show in cui era prevista l’eliminazione dei concorrenti). Prima della finale ci siamo messi in mezzo al campo io, Gianmarco e Gianluca Basile, dicendoci ‘Chi perde questa finale è la talpa della squadra’, visto che quell’anno avevamo già perso finale di Eurolega e campionato, e tra di noi qualcuno avrebbe perso anche la finale olimpica“. Delfino non è la talpa. Si prende la sua rivincita e conquista l’oro.
NBA: SUBITO LE FINALS
Scelto nel 2003 con la numero 25 al primo giro del draft dai Detroit Pistons, si trova in una squadra da Titolo: con Ben Wallace, Rip Hamilton e Chauncey Billups. In stagione regolare riesce a tenere 4 punti di media, mentre ai playoff il rookie Delfino non mette piede in campo. Vive però Gara 7 delle Finals, persa contro gli Spurs. Ma resta ancora la Nazionale argentina, tuttavia, a dargli le maggiori soddisfazioni.
IL BRONZO DI PECHINO
Per arrivare a lottarsi il terzo posto alle Olimpiadi di Pechino 2008, prima l’Argentina deve arrivare alle semifinali. Contro la Grecia, quando mancano meno di due minuti alla fine del terzo quarto, i biancocelesti sono in difficoltà. Tutta l’inerzia è dalla parte degli ellenici. Delfino segna una tripla con 1’50” alla fine del terzo quarto, con l’assist di Manu Ginobili. Poi, i compagni, continuano a servirlo. Lo vedono in ritmo. Delfino segna 18 punti consecutivi. L’Argentina si porta a casa la vittoria per 80-78. Con gli Stati Uniti esce sconfitta in semifinale, ma è bronzo contro la Lituania.
L’ASCESA CON I MILWAUKEE BUCKS
Al ritorno da Pechino, Delfino trova negli States la casacca dei Milwaukee Bucks: dove riesce a esprimersi al meglio. Nella stagione 2009/2010 veste la maglia da titolare e registra una media di 10 punti, 4 rimbalzi e 2,6 assist a partita. È inoltre tra i protagonisti del primo turno dei playoff che i Bucks giocano contro gli Atlanta Hawks.
LA COMMOZIONE CEREBRALE
Nel novembre 2010, all’inizio della stagione, subisce una commozione cerebrale da un colpo ricevuto in una partita contro i Minnesota Timberwolves.
“È come se a un certo punto ti levassero il sogno. Questo è quello che mi ha fatto più paura. Ero pessimista, non sapevo se sarei uscito dal tunnel. Poi, alla fine, ce l’ho fatta. Mi sono spaventato molto. Non potevo guardare la tv, leggere o fare altro. Stavo solo con il cane” .
Carlos Delfino
Dopo aver trascorso più di due mesi e mezzo senza giocare, torna rapidamente nel quintetto titolare. E nel marzo 2011 batte il suo record di punti in una partita NBA: ne segna 30 sia contro i New York Knicks che contro i Sacramento Kings.
IL LITIGIO CON JAMES HARDEN
Nell’estate del 2012 sceglie di andare agli Houston Rockets con James Harden. Qui realizza una delle sue migliori stagioni giocando come sesto uomo, raggiungendo anche i Playoff. Carlos finisce come il miglior tiratore da 3 punti per minuti giocati dell’intero campionato NBA. In questa stagione c’è anche un aneddoto.
“Era la partita di Natale – racconta Delfino in un’intervista – Nel primo tempo James Harden non la passava mai. Allora all’intervallo, mentre eravamo nel corridoio che conduce agli spogliatoi, l’ho preso per la barba per dirgliene quattro. Ma poi l’ho lasciato perché si è mossa la telecamera”.
LA FRATTURA
La stagione con gli Houston Rockets, però, non si conclude bene. Mentre “posterizza” con una schiacciata Kevin Durant in Gara 4 dei Playoff contro gli Oklahoma City Thunder, cade male, e si frattura l’osso scafoide del piede destro. Un infortunio che lo costringe a stare lontano dai campi per più di tre anni. 1000 giorni in cui si sottopone a sette operazioni. Pensa anche a mollare.
“Mi sono arrivate tantissime offerte: da allenatore, dirigente, manager. Ma volevo continuare a giocare.”
IL RITORNO IN ITALIA
Non ci poteva essere ritorno più romantico che in Italia. Larry Brown lo sceglie a Torino 15 anni dopo averlo preso per il draft a Detroit. L’avventura nel capoluogo piemontese non finisce bene. Pugno in faccia al presidente della squadra dopo un diverbio tra i due nello spogliatoio. Delfino, allora, torna al Paladozza, dove vince il campionato italiano dilettanti.
E ora, all’età di 39 anni, continua a stupire con la maglia della Victoria Libertas Pesaro.
Tutta questione di testa.