Il controverso rapporto tra stelle della NBA e Sesso. Dal Rookie Transition Program al fenomeno Tinderization. Ma che succede quando qualcosa va storto?

L’espressione di Myles Brown dopo aver posto la domanda è a metà tra il divertimento e la genuina curiosità. Trattando il mondo NBA dalle colonne di GQ America, poteva a priori dirsi abituato ad intervistare campioni ed All-Star. Con le loro risposte scontate a domande banali o personali a questioni più profonde. Quindi nulla di nuovo sotto il sole. Perché colei che gli si para davanti era ed è considerata dall’opinione pubblica una “star” a tutti gli effetti: del Porno. Lisa Ann Corpora, meglio nota come Lisa Ann – regina delle “Mamme hot” da oltre 600’000’000 di visualizzazioni sul web e protagonista di un altro articolo su NBA e sesso – aveva inarcato le lucide e carnose labbra in un sorriso. Gli occhi avevano scrutato il soffitto con malizia, calati sì perfettamente nella parte ma anche per raggruppare i pensieri. Sentirsi chiedere quale fosse il suo rapporto con i giocatori NBA prefigurava una serie di trappole e percorsi acrobatici da affrontare con cognizione di causa, onde evitare di lanciarsi a rotta di collo su strade (mediatiche) che fosse preferibile non percorrere. Per non pestare i piedi a nessuno. La quarantatreenne diva a luci rosse schiarisce la voce. E inizia:
“Questo genere di relazioni sono iniziate già quando ero giovane. Nei primi anni ’90 capitava che dei giocatori venissero negli strip club. Tutto, però, è cambiato quando Mike Tyson finì in carcere. Penso che questo sia stato l’inizio dell’era di agenti e PR che contattano le ragazze, mettendo in piedi interazioni super riservate con i propri clienti. Addirittura alcune firmavano una sorta di patto di riservatezza, una garanzia volta ad assicurarsi che non potessero denunciarli o menzionarli.
Una cosa abbastanza comune, è vero. Ma non per me. Io provengo da un ambiente differente. Sono un’eccezione.
Io utilizzo SMS, direct messages ed E-Mail.
[…] Attualmente, parlo ad ogni ora del giorno con un centinaio di giocatori in attività. Ma di questi cento, mi vedo solo con 25. La cosa più figa di essere Lisa Ann è che, quando seguo su Twitter un giocatore, lui contraccambia mandandomi in privato il suo numero, perché non può seguirmi. È una questione di facciata. Qualche anno fa Kevin Durant mi seguiva, e pensa: io manco lo sapevo. Quando è venuta fuori la cosa, ha immediatamente smesso di farlo.

Solitamente inizio io la conversazione. Cerco di essere ragionevole: dico loro che non sono una prostituta, che i loro portafogli sono al sicuro e possono rimanere chiusi. Mi piace andare alle partite, quindi magari chiedo dei biglietti. Seguo le loro carriere, insomma, e se si infortunano sto loro vicino (vedasi, pare, Paul George, ndr.)… li tengo su di morale. In fondo sono soli in mezzo ad una strada.
Sono comunque onesta con loro. Non sono qui per farmi dire “Hey, ti scopo qui e adesso”. Non funziona così, tant’è che alcuni mollano subito il colpo perché sono terrorizzati che io voglia una relazione seria.
Trovo loro pure delle ragazze: le presento come mie amiche, ma li metto anche in guardia per quelle che ronzano attorno. Perché potrebbero essere pericolose: attenzione a telefoni, oggetti di valore e portafogli se hanno intenzione di invitarle a casa.
Non vado comunque con tutti. Alcuni di questi sono dei “ragazzini”, sono giovanissimi… potrei essere loro madre. Chiedo sempre loro: “Vorresti che questo accadesse alla tua mamma?”. Si sentono in colpa. Così insegno loro come essere degli uomini migliori”.
C’è un po’ di delusione nell’aria. In fondo la curiosità è peccaminosa, e insieme alla lezione di galateo sui costumi da adottare in quei frangenti, Brown aveva proposto la domanda sperando di ottenere qualche “scoop” piccante per stuzzicare i lettori. Detto ciò, un po’ c’era da aspettarselo. I segreti sono tali perché sono conservati nell’oblio del silenzio. E alla domanda quasi retorica sul “Perché Lisa Ann preferisce fare sesso con i Giocatori NBA?” non aveva potuto che ottenere una insipida risposta sul filo di lana come quella.
Essere baciati dal talento. Guadagnare migliaia di dollari. Giocare nella NBA. Tre ingredienti che, se mischiati insieme da un grande chef, possono essere plasmati in un capolavoro; ma che se finiscono nelle mani sbagliate possono, altrettanto, trasformarsi in un mix esplosivo, capace di detonare rovinosamente sul palato. Pur non volendo trascendere nelle famigerate “chiacchiere da parrucchiere”, bisogna essere onesti: è innegabile che la privilegiata vita dell’atleta di successo porti in dote dolci piaceri e peccaminose tentazioni, amplificati ulteriormente dal far parte di una delle leghe sportive più cool al mondo. Tuttavia, rispolverando un vecchio proverbio tanto caro ai nostri nonni, non è tutto oro quello che luccica.
Nella storia della National Basketball Association diversi sono i casi legati al Sesso che hanno visto come protagonisti – in positivo o in negativo, dipende dai punti di vista… e dalla legge – giocatori o addetti ai lavori. Certezza granitica è che, col passare degli anni, le franchigie e i vertici di uno dei brand più globali che esistano si siano mossi con fare risoluto verso una maggiore tutela dei propri tesserati. Fornendo loro una preparazione professionale nelle prime battute della propria carriera, onde evitare clamorosi autogol, oppure “soddisfacendo” le loro richieste. Non sempre con successo. Perché esiste pur sempre la rinomata eccezione pronta a confermare la regola.
ROOKIE TRANSITION PROGRAM
All’alba dell’estate del 1986 vide la luce per la prima volta un progetto destinato a divenire consuetudine negli anni successivi: il Rookie Transition Program. David Stern – allora al secondo anno del suo pluriennale mandato da commissioner – e i rappresentanti delle 23 franchigie si riunirono per raggiungere un punto comune su di una annosa questione: preparare i ragazzi del college al passaggio nel mondo “dei grandi”. Transizione fatta di responsabilità sia dentro che fuori dal campo.
L’idea su cui basare quello che ad oggi è considerato come un vero e proprio Programma Formativo doveva essere quella di insegnare alle reclute la gestione della propria carriera, a partire dalla professionalità, dallo stile di vita e dalla gestione del successo e della fama; oltre a quella del denaro e, soprattutto, delle donne.
Il decennio tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 aveva visto montagne di cocaina e una gestione totalmente insana di numerosi vizi da parte di alcuni giocatori: da Marvin Barnes, celebre per questioni di droga (non sempre fuori dal campo), alle 500 donne circa con le quali – dichiarò egli stesso – Magic Johnson dormì in un solo anno; per annunciare a tutti soltanto cinque anni più tardi di aver contratto il virus dell’HIV.
Non occorreva certo una laurea in psicologia ad Harvard per comprendere come dei semplici ragazzi, spesso provenienti da ambienti complicati, non fossero in grado di gestire sin da subito le ingenti risorse che piovevano letteralmente loro addosso. Era dunque necessario fornire ai novellini degli strumenti didattici per imparare a comportarsi correttamente in campo e fuori.

A maggior ragione nella NBA di oggi, dove salario medio e riflettori sono vertiginosamente aumentati rispetto al passato, l’RTP ha assunto un’importanza capitale. A rafforzare il tentativo di trasmettere “morigeratezza”, la classe di reclute è accolta nel New Jersey – in un luogo ai confini del mondo – per una quattro giorni di seminari e dibattiti. I corsi vedono come argomenti trattati “Rispetto ed inclusione”, “Leadership”, “Cura del Corpo” ed “Educazione sessuale”. In giornate strutturate su 12 ore.
Gli insegnanti sono ex-giocatori NBA – come Kareem Abdul-Jabbar o MR Fairplay Shane Battier – e professionisti ancora in attività – uno su tutti CJ McCollum. Ma si annoverano anche coach, giornalisti e figure professionali per il sostegno psicologico. Inevitabilmente, Sesso e gestione di avventrici o pseudo tali è argomento portante. Lo stesso Danilo Gallinari ammise che, sostenendo l’RTP, molta dell’attenzione fu focalizzata proprio sul riconoscimento e le metodologie tramite le quali allontanare eventuali “scalatrici sociali” pericolose per se stessi e la propria carriera.
Capita infatti spesso che “baldi giovani sulla piazza” si ritrovino avvicinati da ragazze particolarmente interessate, ben preparate a sedurli mettendo nel mirino i molti zeri dei loro conti in banca. Caso eclatante è quello di Shawn Kemp, All-Star mandato in rovina, tra le altre cose, dal sanguinoso mantenimento economico dei suoi dieci figli; avuti ognuno da una madre differente.
Certo, resistere alle insistenti avances di una fanciulla dal viso divino e dal corpo mozzafiato potrebbe essere – per chiunque – annoverata tra le dodici fatiche di Ercole; tuttavia prerogativa del Programma è calare i rookie nell’ottica delle conseguenze. Nella recente giurisprudenza americana ha fatto molto scalpore il processo per stupro intentato a Kobe Bryant da parte di una receptionist di un hotel in Colorado. Caso per il quale Kobe è stato pienamente assolto, alla luce di un castello di accuse più che traballante – per quanto il complottistico dubbio dell’insabbiamento voluto dai piani alti possa accarezzare la mente – ma che ben interpreta i pericoli che certe condotte possono portare in dote.
Terminato il corso, i neo professionisti potranno contare su qualche strumento in più per salvaguardare la propria carica. E per distinguere il vero amore dal mero interesse; senza però eccedere all’opposto e farsi influenzare da pregiudizi esageratamente negativi. Perché il vero amore esiste, e non gli si comanda: citofonare “Thompson Tristan” per sentirsi tessere le lodi della controversa Khloe Kardashian, tra le altre cose ex-moglie di Lamar Odom…
TINDERIZATION
Il 22 marzo del 2017 ESPN uscì online con un articolo che analizzava nei minimi dettagli uno strano trend, riguardante il fattore campo. Pareva infatti che, per la stagione 2016-2017, la percentuale di vittorie casalinghe non fosse stata mai così bassa: 57,4%; dato stridente, se confrontato al 67,9 % di vittorie delle squadre di casa per la stagione ’86-’87.
Quali i motivi dietro un calo di 10 punti percentuali, in una statistica cui le organizzazioni prestano attenzione per valutare la propria annata? Soprattutto al netto di continui miglioramenti di metodologie di recupero, tutele mediche e studi circa rotazioni o turni di riposo.
Ma non è tutto, perché ad accompagnare questa tendenza singolare si presentava uno strano trend opposto per quanto riguardava gli scontri on the road. Quasi a dire: si vince più facilmente in trasferta che non in casa. Mistero degno del terzo segreto di Fatima. Interpellando sull’argomento giocatori, coach, preparatori e dirigenti, la risposta ricevuta esulò totalmente dall’aspettato.
“Il motivo è strettamente extra-campo”.
Soprattutto in un campionato professionistico ove tutto – campi, canestri e palloni – è tendenzialmente standardizzato da fornitori comuni; e il pubblico, per quanto caldo, sbiadisce inesorabilmente se paragonato ad alcuni palazzetti europei. Per quanto sia un grande spettacolo coreografico, anche una gara di Finals è difficilmente paragonabile per tifo ad un pirotecnico derby tra Olympiakos Pireo e Panathinaikos, giusto per citare “a caso” un match in cui educazione e bon ton rimangono chiusi fuori dai cancelli…

Fu in quel momento che fu coniato il termine “Tinderization”. Da Tinder, rinomata applicazione per dolci incontri. Strumento particolarmente amato dai giocatori, perché permette di poter soddisfare il piacere di un incontro senza esporsi in lunghi e faticosi flirt in locali affollati, sotto gli occhi di tutti e col rischio di finire abbagliati dal flash di qualche paparazzo.
Perché lanciarsi in lunghe nottate alla ricerca di un’avventura quando, tramite una semplice app, si può organizzare il tutto direttamente nel proprio albergo? Preservando così una sana routine prepartita, che di norma parte da un buon riposo. Nulla a che vedere, insomma, con le “corti spietate” che Wilt Chamberlain riservava alle sue spasimanti…
Il fenomeno ha ricevuto la benedizione di allenatori e dirigenti, ben felici di un comportamento coscienzioso da parte dei propri giocatori. Come ogni meccanismo ben oliato, si è evoluto per poter essere ancor più efficace. In molti infatti sostengono che negli ultimi periodi non sia più Tinder lo strumento preferito per cantare serenate telematiche, ma Instagram. Più rapido e più semplice: basta un semplice follow o un messaggio privato per incominciare la conversazione; senza attendere l’agognato “Match” che tanto fa sospirare gli utenti della rinomata app di incontri.
Persino mostri sacri come George Karl hanno speso indirettamente opinioni positive al riguardo, celebrando l’ondata di coscienza e serietà che pervade la NBA di oggi, se paragonata a soli trent’anni fa. La discrezione. Punto non sempre fissato in cima alla lista dei buoni propositi di alcuni; soprattutto di coloro che vengono eletti dai propri tifosi “Re della città”. Ma assumono piuttosto i connotati di elefanti a spasso nelle strette corsie di una cristalleria.
QUANDO QUALCOSA VA STORTO
Era la mattina dell’8 febbraio 2009 quando Richard Von Houtman ricevette una chiamata dall’addetto alle pulizie di un suo appartamento. Nella descrizione dello scocciato impiegato venne consegnata alla sua immaginazione una scena a metà tra il catastrofico e il vero e proprio irreparabile; e sì che gli avevo detto “Dwyane, per favore. Almeno ‘sta volta non combinare casini”.
Aperta la porta della camera di Dwyane Wade, la scena che si offrì agli occhi di Von Houtman fu pressochè indescrivibile: ovunque, bottiglie di super alcolici e champagne vuote, accompagnate da mozziconi di spinelli gettati tra lenzuola rivoltate sul pavimento. Ma soprattutto, un singolare red carpet di preservativi usati, ad impreziosire distinguibili manate sui muri: segno che la situazione, la sera prima, si era fatta piuttosto caliente. Ah, se quelle mura avessero potuto parlare…
Nemmeno un tale motto di spirito fermò l’ira funesta dell’uomo, che pensò bene di chiamare i tabloid e rilasciare un’intervista, nella quale raccontò per filo e per segno l’accaduto. Festini di quel genere si ripetevano con cadenza settimanale. Wade e il suo entourage iniziavano le proprie serate in discoteca, per poi spostarsi con champagne e cubiste direttamente in quella casa, probabilmente poco soddisfatti del privé.
Ma non solo: un loro ristorante aveva dovuto chiudere nel giro di qualche settimana, perché utilizzato da D-Wade come teatro delle sue coinvolgenti interpretazioni a luci rosse. Insomma: erano più i rapporti sessuali consumati dalla stella degli Heat nei bagni che i pasti a tavola ai clienti. Lo scarso tatto di Wade – che ora pare abbia messo, e da qualche anno, la testa a posto, complice anche la bella attrice Gabrielle Union – ben si accompagna all’entusiasmo col quale la pornostar Mary Carey descrisse le focose avances che le furono fatte da Dwight Howard:
“E’ davvero un bravo ragazzo. Prima di frequentarci mi ha telefonato per un mese, e cercava sempre di farmi lasciare il mondo del porno, leggendomi dei versi della Bibbia. Poi, mentre ero da un amico ad Orlando, mi ha mandato un messaggio dicendomi che si trovava davanti alla casa dove ero ospite, cosi l’ho lasciato entrare.
Gli ho detto che sarei dovuta andare via a breve. Che ero dispiaciuta, ma quello non era né il momento né il luogo adatto. Allora lui, improvvisamente, si è abbassato i pantaloni. Ho pensato “Wow”, e poi ho cominciato a correre e a gridare…”.
Con gli occhi scintillanti avrebbe poi aggiunto che Dwight non era a caso soprannominato Superman – con la disapprovazione dell’unico detentore di tale nomignolo, ovverosia Shaquille O’Neal.
Eccessi e clamorosi autogol. Come quello di D’Angelo Russell. Paparazzo improvvisato, l’allora rookie dei Lakers filmò il compagno di squadra Nick Young mentre gli stava confessando una scappatella alle spalle della sua futura moglie, l’avvenente rapper australiana Iggy Azalea. Questo portò Nick Young ad una rottura immediata con la propria dolce metà, e per D’Angelo il titolo di “appestato” nello spogliatoio giallo-viola. Lo stesso Young qualche tempo prima aveva sostenuto ad un giornalista che “Ciò che faccio con quello (indicando il notevole lato B della propria consorte ndr.) non dovrebbe essere legale”. Sguardo malizioso e via, di corsa in macchina. Ignaro di quello che il futuro gli avrebbe riservato.

Giudizio ed imprudenza. Riservatezza ed eccessi. Giocare nella NBA presuppone grande talento sia dentro che fuori dal rettangolo di gioco. Per costruirsi un’immagine professionalmente forte, e contribuire a preservarla.
Ai Westbrook e Curry, sposati con i rispettivi amori del college, si frappongono i Delonte West, protagonista di una scappatella con la madre di LeBron James; e i recenti commenti di Joel Embiid a dirette Instagram di un’angelica fanciulla – nel quale chiedeva, con galanteria, se apprezzasse le doti dei ragazzi neri; o ancora il clamoroso scivolone di Draymond Green, che postò su Snapchat una foto del suo pene, probabilmente destinata a far colpo su di una estimatrice.
Fino al caso – ai limiti dell’eroismo – di Lou Williams, più volte visto in giro con le sue DUE fidanzate ufficiali. Ashley Henderson, madre delle sue due figlie, e Rece Mitchell. Blonde & Brown. Entrambe accolte sotto un unico tetto, nella più totale armonia familiare. Il tutto con la benedizione di un tweet di JR Smith:
“Se è tutto vero, sei un figo!”.
Già, caro Lou: lo saresti già, a prescindere, soltanto per avere a che fare con ben due suocere…