Il documentario ESPN ci ha fatto sentire come se l’NBA fosse tornata in onda. Ci ha anche mostrato come i tempi cambiano meno di quanto pensiamo.

Questo articolo, scritto da Bobby Manning per Celtics Blog e tradotto in italiano da Davide Corna per Around the Game, è stato pubblicato in data 20 aprile 2020.
Quando sono arrivate le 9 di sera, sembrava quasi che le partite NBA fossero tornate a giocarsi. L’ansia, la noia e la futilità sono stati rimpiazzati da un’esperienza collettiva.
ESPN ha portato l’hype per The Last Dance fino ai confini di questo pianeta, annunciando le sue cinque settimane di programmazione. Non si può nemmeno prendersela con loro più di tanto per aver trasmesso un post-game show condotto da Scott Van Pelt come se fosse una Gara 7 di finale o il Super Bowl.Avevamo bisogno di The Last Dance, e il documentario ha mantenuto le aspettative.
In qualche modo, l’atleta più chiacchierato e raccontato della storia aveva ancora qualcosa di inedito, come la storia di Common che da ragazzino ha tentato di guadagnare 5 dollari portando a un bambino l’autografo di Jordan, che MJ gli ha lasciato falsificare; solo che Common ha poi scritto male “Michael”… Ancora meglio, J.A. Adande che ha visto Scottie Pippen cantare “Regulate”.I dettagli delle prime due puntate – molti di essi nuovi per me, nato nel marzo del 1998 – hanno mostrato quanto le cose sembrino cambiare ma rimangano in realtà le stesse. Su Twitter, gli utenti sono stati tempestivi nel far notare i punti in cui la carriera di Michael Jordan ha toccato argomenti che molti pensavano essere problemi che hanno afflitto la Lega solo di recente, come i giocatori avversari che passano del tempo assieme, le dispute sui contratti, il load management e il tanking.Danny Ainge e Jordan hanno giocato a golf fra Gara 1 e Gara 2 della loro sfida al primo turno di Playoffs del 1986. Che si tratti di amicizie, di allenamenti estivi passati insieme, o anche di abbracci nel dopopartita, gli opinionisti odierni hanno sempre criticato questi comportamenti fra rivali. Riguardo a oggi non riesco però a pensare a nulla di paragonabile a due avversari che giocano a golf assieme fra una gara di Playoffs e l’altra.
In perfetto stile MJ, prima di andarsene Jordan ha chiesto a Ainge di dire a Dennis Johnson che l’indomani aveva qualcosa in serbo per lui. Era vero: 63 punti, un record ancora imbattuto ai Playoffs. Nonostante una prestazione per cui Bird lo definì “Dio travestito da Michal Jordan”, è arrivata una sconfitta all’overtime. Gli sarebbero serviti altri 4 punti e un putter più lungo.