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FOTO: NBA.com

Questo articolo, scritto da Mike Miller per Double Clutch UK e tradotto in italiano da Emilio Trombini per Around the Game, è stato pubblicato in data 29 aprile 2020.


Il mondo ha bisogno di Michael Jordan. Sì, l’ho detto: ne ha BISOGNO.


MJ è una figura mitologica. Un’icona. 22 anni dopo il suo ultimo titolo e 17 anni dal suo terzo e ultimo (?) ritiro, fa ancora presa sulla gente come nessun altro atleta nella storia. Certo, non è privo di difetti (ma non era così anche per le divinità greche?), però per la seconda volta Jordan è riuscito a regalare al mondo un po’ di distrazione in un momento tanto difficile.

La prima volta è stata nel 2001, quando New York e l’America sono rimaste impietrite di fronte agli orrori dell’11 settembre. Un mese dopo la tragedia, un Jordan 38enne ha aperto la stagione NBA contro i Knicks al Madison Square Garden. Un evento di tale importanza che la BBC ha trasmesso la partita e il giornale Nazionale gli ha dedicato una colonna (ho ancora il ritaglio di giornale che lo dimostra). Ovviamente la versione di Jordan ai Wizards non è quasi mai stata all’altezza delle aspettative e Washington perse la prima partita stagionale 93-91, con Jordan che tirò con un misero 7/21 dal campo (restando comunque il top scorer della sua squadra in quella partita con 19 punti). Ma ciò non era importante, perché ci aveva dato speranza.

Ci aveva fatti distrarre.

19 anni dopo, His Airness è tornato. Con la normalità della vita quotidiana temporaneamente interrotta a causa del Covid-19, è il documentario di ESPN su Jordan a ridare luce al mondo. Anticipato di due mesi (anche se, tecnicamente, in ritardo di due anni), The Last Dance si addentra a fondo nell’ultima turbolente stagione dei Chicago Bulls 1997/98, quando vinsero il loro ultimo titolo.