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© Double Clutch

 

 

 

Un tempo, la NBA era un luogo completamente diverso da quello che è adessoI giocatori non avevano pressoché alcun controllo sulle proprie carriere una volta firmato un contratto con una squadra, e la free agency non esisteva affatto.

 

A volte, intere squadre venivano semplicemente sciolte, cancellate dalla mappa dai rispettivi proprietari, e i giocatori non avevano voce in capitolo riguardo ai soldi a loro dovuti. La Lega poteva organizzare oltre 20 partite di “esibizione” ogni stagione senza che i giocatori vedessero un singolo centesimo, poteva costringere i giocatori a partecipare a incontri con la stampa senza alcuna compensazione, e poteva perfino lasciar pagare a loro le spese relative agli spostamenti successivi ad una trade – il tutto guadagnando la relativamente esigua somma di $8.000 a stagione a cavallo degli anni ’50 e ’60.

 

Poi, Bob Cousy dei Boston Celtics mise in piedi un’organizzazione che potesse rappresentare gli interessi dei giocatori, e grazie anche al lavoro del compagno di squadra Tommy Heinsoh e dell’allora Cincinnati Royals (oggi Sacramento Kings) Oscar Robertson, diede il via al graduale processo della creazione di una Lega che fosse più favorevole per i giocatori, mettendo in moto il seppur lento pendolo che ancora oggi sta oscillando in direzione degli interessi degli atleti.

 

Tale organizzazione pose fine ai torti citati precedentemente, incrementò i salari, migliorò la condivisione dei profitti, garantì le pensioni (seppur non prima di una minaccia di sciopero alla vigilia dell’All-Star Game del 1964) e, infine, concesse ai giocatori il diritto di avere una free agency di qualsiasi natura nel 1988.

 

Quest’ultima modifica cambiò il volto della NBA come nessun’altra (precedente o successiva), e nonostante le lamentele secondo cui ormai la Lega sia diventata una “Lega dei giocatori (assolutamente falso, benché lo stia diventando), e secondo cui questo abbia “rovinato” lo sport, la pallacanestro NBA per qualche motivo risulta più popolare che mai, sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo. Come può uno sport “rovinato” essere così popolare, così in rapida crescita e, francamente, così maledettamente entusiasmante?

 

Ciò non significa, ovviamente, che esista una correlazione diretta fra tale popolarità e la free agency (con tutto quello che le orbita attorno). Tuttavia, la connessione è forte, e proverò a chiarire il perché, sbugiardando in primo luogo tutti coloro che sostengono la teoria della Lega rovinata, e dimostrando come le fatiche di poveri miliardari nel tentativo di costruire squadre attraverso il Draft stiano in realtà creando un prodotto inferiore tanto per i tifosi quanto per i proprietari, troppo persi nella saggezza popolare per vedere la gallina dalle uova d’oro seduta proprio sulle loro gambe.

 

La NBA ha creato un fenomeno culturale che nessun altro sport – o almeno nessun altro sport americano – è riuscito ad eguagliare. Si tratta di un fenomeno che deriva dallo sport, ma che allo stesso tempo ne è separato. I giocatori della Lega sono personalità ben più influenti dei giocatori di baseball, football o hockey. Il grado di celebrità potrà anche essere lo stesso, ma la natura e la profondità delle questioni che circondano le squadre e i giocatori NBA sono ben maggiori rispetto a quelle legate alle principali franchigie e ai principali atleti degli altri sport.

 

Questo aspetto, ovviamente, non è privo di controversie, ma perfino tali controversie sembrano poter rientrare nel profilo della Lega in maniera positiva. Laddove altre leghe sportive hanno fatto fatica a creare lo spazio per dichiarazioni politiche su numerose problematiche sociali contemporanee (a volte perfino generando opinioni negative all’esterno), la NBA ha trovato modi per abbracciare le controversie in maniere che potessero generare la stessa attenzione mediatica senza la negatività aggiuntiva, sostenendo le posizioni dei giocatori laddove altre leghe hanno tentato di soffocarle.

 

Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante, in quanto l’empowerment che la NBA fin dagli inizi ha garantito ai suoi giocatori caratterizza da sempre l’identità della Lega e il suo rapporto con i fan, piazzandola in prima linea per diversi movimenti sociali fondamentali (dall’era dei Civil Rights fino ad oggi). Eppure, la NBA non ha pressoché mai conosciuto crisi, crescendo costantemente in popolarità negli ultimi tre decenni fino a diventare il più esportabile fra i quattro major sports americani.

 

La NBA sta perfino esportando campioni: i Toronto Raptors, infatti, sono da poco diventati la prima squadra fuori dai confini degli USA ad aver vinto un titolo nella storia della Lega. Ci sono più giocatori stranieri che mai e la Lega sta anche prendendo in considerazione la possibilità di espandersi a sud del confine, approdando a Città del Messico, continuando nel frattempo a incrementare il numero di partite di stagione regolare giocate oltreoceano.

 

Ma, tornando a quelli che affermano che la free agency stia “rovinando” la Lega… è abbastanza chiaro il contrario. Con sette accademie in tutto il mondo volte alla ricerca e alla crescita di nuovi talenti, la trasmissione delle partite in più di 200 Paesi e molto altro ancora, la Lega è sulla giusta strada per diventare il secondo sport di squadra più diffuso del mondo dopo il calcio.

 

Se questa è una rovina, ne vorrei di più, per favore.

 

Scherzi a parte, se è vero che non c’è modo di dimostrare che la popolarità dello sport sia portata dall’empowerment dei giocatori (dalle narrative che circondano il loro arrivo, il loro sviluppo e il loro trasferimento, ma anche dal loro utilizzo dei media), è anche vero che esso crea per la Lega opportunità sinergiche di tutti i tipi in termini di marketing e presenza sociale.

 

Alla gente piace seguire il “drama” della Lega, restando sempre collegati da località sempre più lontane grazie a diverse tipologie di media, seguendo non solo le statistiche dei loro giocatori preferiti (e più detestati), ma anche la musica che ascoltano, i vestiti che indossano e il cibo che mangiano. L’esistenza stessa di una realtà del genere si basa sulla libertà dei giocatori: libertà di esprimersi, agire e cambiare datore di lavoro proprio come noi, ma all’interno di una complessa e vibrante piattaforma che celebra le loro individualità laddove altre leghe tentano invece di confinarle in ruoli e posizioni precise, sopprimendo quelle che esulano da modelli determinati.

 

A parer mio è proprio questa filosofia che sta soffocando gli altri major sports, specialmente la NFL: saldamente ancorati all’antiquata visione del mondo per cui gli atleti vanno solo guardati, non ascoltati, tali sport si lasciano sfuggire un potentissimo strumento di coinvolgimento dei fan.

 

Prima ho accennato al fatto che se è vero che non mi trovo d’accordo con i proprietari e quei fan della NBA che ritengono che la dimensione del fenomeno (dubito fortemente che si possa criticare il fenomeno in sé) del movimento dei giocatori stia rovinando la Lega, è anche vero che comprendo quanto ciò renda difficile costruire una squadra.

 

Sia chiaro: non mi importa granché se questo rende difficile il lavoro di proprietari schifosamente ricchi. Tuttavia, da fan fedelissimo dei Celtics, capisco benissimo la frustrazione di una fanbase nel vedere anni e anni di attenta costruzione mandati in fumo nel giro di qualche settimana di free agency…

 

Ci sono molti piccoli accorgimenti che potrebbero migliorare la situazione; ad esempio espandere la free agency (ma non delle firme) a tutto il periodo che va dal fischio finale di una stagione a quello iniziale della stagione successiva, o delle penalità per chiare azioni di tampering effettuate mentre la stagione è ancora in corso. Tuttavia, sono molto restio all’accettare qualsiasi proposta che possa restringere il movimento dei giocatori, considerando tutto l’interesse nei confronti della Lega che ha stimolato nel mondo negli ultimi anni.

 

Al contrario, proporrei di abbracciare tale movimento.

 

Quanto sarebbe più interessante questa Lega, se i rischi finanziari dei giocatori fossero coperti da un’assicurazione, e se non dovessimo più vedere lunghi contratti pesanti paralizzare intere squadre per anni e anni con giocatori ingiocabili? Se le squadre avessero regolarmente un maggiore accesso a giocatori di prima fascia tramite contratti più corti e altri approcci più radicali?

 

Beh, un giorno il futuro della Lega potrebbe essere proprio questo. Una Lega davvero orientata ai giocatori, in grado di migliorare ancora il prodotto che noi tutti amiamo – senza rendere la costruzione di una squadra un processo impossibile. Restate sintonizzati: ne vedremo delle belle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Questo articolo, scritto da Justin Quinn per Double Clutch e tradotto in italiano da Marco Cavalletti per Around the Game, è stato pubblicato in data 11 luglio 2019.