Ancora non s’intravede una luce in fondo al tunnel per i Chicago Bulls, a tutt’oggi una delle franchigie più amate al mondo. Uno sguardo agli ultimi vent’anni, quelli del dopo Jordan, tra sfortuna e mala gestione.
 


 

Un celebre proverbio cinese ci ricorda come per costruire un impero siano necessari più di cento anni, ma che per distruggerlo possa bastare un solo giorno.

 

Nel caso in questione, il giorno è il 14 giugno 1998, il momento esatto in cui inizia la caduta dell’ultimo grande impero della pallacanestro statunitense, che ha cambiato volto alla NBA e al basket mondiale: la dinastia dei Chicago Bulls

L’impatto della franchigia di Windy City nell’immaginario collettivo è incalcolabile e va di pari passo con l’ascesa della figura extra terrestre del lider maximo, Michael Jordan.

È inutile girarci attorno: MJ ha portato il marketing nel basket, trasformando la NBA nello spettacolo scintillante di cui vediamo i frutti ancora oggi. La sua immagine ha trasceso i confini del rettangolo di gioco, fungendo da definitivo boost per la globalizzazione della Lega, rendendo i Bulls un marchio globale, che vive ancora di rendita per il suo glorioso passato: nel 2018 sono ancora nella top 10 del merchandising tra le squadre, nonché il secondo pubblico della NBA – nel momento in cui si scrive, oltre 20mila spettatori a partita, a fronte del terzultimo record della Lega.
 

Da allora si attende ancora la definitiva rinascita di questa franchigia, i cui motivi dell’insuccesso sono vari e da ricercare sia in scelte maldestre e inefficaci dei propri front office, nonché a direzioni tecniche poco lucide e, ovviamente, una buona dose di sfortuna.  

Ci sono stati momenti, negli ultimi due decenni, in cui sembrava che il sole potesse finalmente tornare a splendere nell’Illinois: ma sono rimasti nient’altro che lampi, che hanno reso ancor più cocenti le insoddisfazioni seguenti.
 

 
Il tutto, come detto, parte dalla sirena di Gara 6 delle Finals del 1998, anche se in realtà il processo è già partito nella testa di Michael Jordan durante la stagione regolare.

Se è vero che il potere logora chi non ce l’ha, è altrettanto vero il contrario e il Jordan di fine millennio ne è la dimostrazione: la pressione per restare al massimo livello, contro tutto e tutti, l’obbligo di autoalimentare quel senso di sfida continuo non può non estenuare, persino un entità semi-mitologica come His Airness.

Molte persone vicino a lui sanno che non ha nessuna intenzione di tornare a giocare: ecco perché quella posa plastica, statuaria, dopo The Shot al Delta Center di Salt Lake City.

 

La stagione che incombe è quella del lockout, il freeze della stagione regolare che sembra quasi un segno del destino, di come la Lega abbia bisogno di tempo per acclimatarsi a un cambio epocale come il nuovo addio di Michael.

La rifondazione dei Bulls parte in modo piuttosto brusco con l’addio di MJ alle competizioni, la pausa di riflessione di Phil Jackson, le trade di Scottie Pippen, Longley e Steve Kerr e l’addio del Verme nella free agency.

I nuovi Chicago targati Tim Floyd hanno nel solo Toni Kukoc l’unico legame col proprio passato.  

È un anno interlocutorio, quello del lockout, dove tutti devono prendere confidenza con una nuova realtà, e nonostante i risultati poco soddisfacenti – record 13/37 – una cosa che non cambia e fa ben sperare è l’aspetto ambientale: il pubblico continua a gremire lo United Center e anche questa stagione ridotta si chiude con un completo sold out.
 

 Sold out che continua anche la stagione successiva, chiusa con un pessimo record di 17/65, nonostante i due rookie scelti al draft 1999 – Elton Brand alla numero 1, Ron Artest alla numero 16 – abbiano mostrato segnali incoraggianti per il futuro.

Soprattutto Brand fa alzare più di un sopracciglio con la sua stagione da oltre 20 punti e 10 rimbalzi di media – 19° rookie nella storia NBA a farlo – chiusa col titolo di ROTY, condiviso con Steve Francis.

 

L’offseason del 2000 è un primo snodo cruciale nel destino dei Bulls.
Ogni ricostruzione deve necessariamente passare dalla firma di un grande nome, da attrarre durante la free agency e attorno al quale ricostruire una reputazione di squadra e, possibilmente, un nucleo vincente.

Quell’estate sono diversi i big destinati alla scadenza di contratto: Tim Duncan, l’emergente McGrady, l’ottimo Eddie Jones e il sogno bagnato del GM Jerry Krause, Grant Hill.

Il piano della dirigenza sarebbe assicurarsi almeno due di questi top player, purtroppo per i Bulls non succederà mai.

La storia la conosciamo: Duncan resta in Texas, Jones sceglie Miami e agli Orlando Magic riesce il colpo sperato dai Bulls, con la doppia firma di McGrady e Hill.

 

A quel punto Chicago non ha molta scelta: non resta che affidarsi al Draft, processo ben più lungo e rischioso, che sommato alla fretta di una ricostruzione rapida porta a una serie di scelte piuttosto azzardate, che il tempo ha condannato senza pietà.

 

Il nuovo Draft porta in squadra Marcus Fizer, fortemente voluto da Tim Floyd che l’ha reclutato nel suo ultimo anno in Iowa, e Jamal Crawford. A loro si aggiungono, dalla free agency, Ron Mercer e Brad Miller, consegnando a Floyd il roster più giovane di tutta la NBA.

Il risultato è sportivamente drammatico: record stagionale di 15/67, peggior record e peggior attacco della Lega con meno di 88 punti segnati a partita. Le uniche note liete sono le conferme di Brand e Artest e il buon apporto dato da Mercer, che viaggia  a quasi 20 di media a uscita.

 

L’estate successiva la dirigenza decide di cambiare tutto: i tre migliori giocatori della squadra vengono sacrificati – Brand ai Clippers, Artest e Mercer a Indiana – per reinvestire su due 18enni usciti dall’high school – Tyson Chandler e Eddy Curry – consegnando le chiavi della squadra a Jalen Rose, in arrivo dai Pacers.
 

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La mancanza di esperienza degli anni precedenti resta il principale problema. La domanda che sorge spontanea è: perché rinunciare a giocatori in visibile crescita, ancora giovani, per ripartire da zero con due appena maggiorenni?

Nell’idea di Krause, perché Rose è il top player che serve ai Bulls per fare il salto di qualità.

 

“Siamo convinti che Jalen sia un all-around player, in grado di coprire 3 ruoli in attacco e in difesa. È un grande passatore, altruista, ha tanti punti nelle mani ed è al picco della carriera. La sua versatilità e la sua leadership cambieranno volto alla squadra”. 

 

Parole al miele che spingono Rose a rispondere con grande sicurezza.

 

“Sono davvero entusiasta, questa è una grande opportunità. Chiunque sognerebbe di essere al mio posto: avere l’opportunità di essere il leader di una squadra, aiutarla a tornare a livelli da titolo”.

Qualche anno prima, durante la campagna d’oro degli uomini di Phil Jackson, Krause si era lasciato andare a un’affermazione che poco era piaciuta a MJ: “Sono le organizzazioni che vincono i titoli, non i giocatori”. 

In effetti in questi nuovi Bulls sembrano mancare entrambe le cose.

A natale il record dice 4/21, Floyd saluta tutti e a fine stagione Chicago è ancora la peggior squadra della NBA, ex aequo con i Golden State Warriors. Anche la stagione seguente è un fallimento colossale, con Rose che dimostra di non poter essere il leader in grado di cambiare le sorti della franchigia.

 

Ecco un altro snodo fondamentale: in aprile Jerry Krause si dimette dal suo ruolo di GM, ufficialmente per motivi di salute legati alla sua obesità, un cambio di rotta arrivato fin troppo tardi, che porta nel ruolo di GM un eroe locale, decisivo nelle Finals di dieci anni prima: John Paxson.

 

“Questa franchigia significa molto per me, sono davvero orgoglioso di questo incarico e voglio fare di tutto per aiutare i Bulls a tornare ai livelli che meritano”.

 

Dopo il licenziamento di Cartwritght, subentrato a Floyd, Paxson affida la guida della squadra a Scott Skiles che da subito imprime un impronta forte sul gioco del suo limitatissimo roster.

È anche la stagione in cui gli infortuni, particolarmente devastanti e occorsi nei momenti meno indicati, cominciano a diventare una sfortunata costante nelle vicende dei Bulls del dopo Jordan. 

Nel 2002, subito dopo la scelta di Yao Ming, dal Draft arriva Jay Williams, che si presenta in Illinois col curriculum del possibile nuovo Messia: campione NCAA, giocatore dell’anno, maglia ritirata dall’università di Duke.

Dopo una prima stagione incoraggiante, in una notte d’estate del 2003, Williams è vittima di un incidente motociclistico. L’esito è devastante: lesione a un nervo della gamba, frattura del bacino e tre diverse lesioni ai legamenti del ginocchio sinistro, incluso il tanto temuto ACL.
La sua carriera professionistica finisce quel giorno esatto.

Nonostante questa ed altre avversità, la cura Skiles funziona e la stagione 2004-2005 è la prima vincente dal 1998 e i Bulls tornano ai Playoffs. Liberatisi di J-Rose e del pesante contratto di Donyell Marshall, la squadra ruota attorno al giovane Kirk Hinrich, responsabilizzato dall’addio di Jay Williams, e con lui, finalmente, un’interessante batteria di rookie affidabili: Ben Gordon – primo giocatore di sempre a vincere il Sixth Man Award al primo anno – la coppia da Duke Luol Deng/Chris Duhon e Andrés Nocioni, fresco di vittoria alle Olimpiadi con la sua Argentina.

 

L’idea di cultura che Paxson e Skiles speravano di creare ha fatto breccia: gioco di squadra, difesa e aggressività sono entrate nel DNA dei nuovi Bulls, che quantomeno hanno di nuovo un’identità precisa.

 

Purtroppo la sfortuna non gli abbandona: Eddy Curry, che ha appena concluso la sua miglior stagione, da capocannoniere della squadra e leader della Lega per percentuale dal campo, viene fermato dai medici per un problema cardiaco, proprio prima della palla a due del primo turno di Playoffs contro i Wizards.

La guida di Skiles porta a tre partecipazioni consecutive ai Playoffs, ma la stagione 2007-2008 parte male e alla vigilia di Natale Paxson lo solleva dall’incarico, con la squadra che procede mestamente fino a fine stagione, senza partecipare alla offseason.

Il destino sembra finalmente avere un occhio di riguardo nei confronti dei Bulls nell’estate del 2008.

 

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Contro ogni probabilità, i Bulls strappano la prima scelta alla lottery per il Draft di giugno.

Il che significa poter portare allo United Center Derrick Rose, il ragazzo nato e cresciuto a Englewood, nel South Side di Chicago, un figliol prodigo che sembra avere i numeri per essere la superstar attorno al quale costruire una squadra in grado di tornare a competere per il titolo.

 

L’entusiasmo generato dalla sua scelta è prorompente ed entusiasmante, proprio come la sua clamorosa ascesa nella Lega: Rookie of The Year al primo anno (esordio ai Playoffs da 36 punti, come lui solo Abdul-Jabbar), All Star Game al secondo anno, titolo di MVP al terzo anno, il più giovane nella storia della NBA.

Il 2011 è l’anno in cui i Bulls tornano in finale di Conference per la prima volta dopo più di 10 anni, salvo venire sconfitti dall’armata dei Miami Heat dei Big Three; è anche l’anno in cui coach Tom Thibodeau – sbarcato in Illinois dopo il titolo vinto ai Celtics come specialista difensivo – vince il premio di allenatore dell’anno.

Prima di Natale, il contratto di Rose viene esteso per 5 anni al massimo consentito ai Bulls – quasi 100 milioni di dollari – e Chicago si affaccia ai Playoffs con grande fiducia.

 

Gara 1 contro i Sixers. 

A un minuto dalla fine, i Bulls hanno la vittoria in pugno ma Rose è ancora in campo. Tenta la penetrazione, con il suo solito arresto di potenza, ma questa volta qualcosa non va: si accascia a terra, si tiene il ginocchio sinistro, si contorce per il dolore.
 

 
ACL: ancora quella maledetta sigla, che mina per sempre la carriera di un campione semplicemente devastante, che da quell’infortunio ha inanellato problemi su problemi, non tornando mai neanche lontanamente il giocatore che fu nei primi tre anni nella Lega.

Non mancano le critiche a Thibodeau, noto per spremere particolarmente i suoi titolari, accusato di aver fatto giocare molto più del necessario Rose e aver portato il suo fisico troppo vicino al limite – critiche che onestamente lasciano il tempo che trovano.
La questione Rose è una tragedia sportiva, che come tutte le tragedie spacca un ambiente in cui tutto sembrava filare liscio: Thibodeau, alla fine della stagione 2015, viene licenziato.

In estate, la squadra viene affidata all’esordiente Fred Hoiberg – qualche annata non indimenticabile da giocatore proprio nei Bulls dal 1999 al 2003 – che viene dall’esperienza sulla panchina di Iowa State, proprio come fu per il successore di Phil Jackson, Tim Floyd.
Purtroppo per lui, i loro destini saranno molto simili.

Nonostante una buona annata 2016/2017, in cui i Bulls guidati da Rondo e Jimmy Butler mettono paura ai Celtics, il 3 dicembre scorso l’esperienza a Windy City di Hoiberg è finita; la squadra è stata momentaneamente affidata al burrascoso assistente Jim Boylen, che non sembra aver cominciato col piede giusto, tra ammutinamento dei giocatori, allenamenti punitivi, e la più pesante sconfitta della storia della franchigia in quel di Boston.

 

“Quello che abbiamo fatto oggi è attuare un cambiamento e ricostruire il nostro roster. Lo faremo partendo da questi giocatori giovani, che crediamo essere perfetti per il sistema caro al nostro coach Fred Hoiberg”.
 

 
Queste erano state le parole di Paxson dopo la trade che aveva portato Jimmy Butler in Minnesota, in cambio del nucleo attualmente in forza sulle rive del lago Michigan – Zach LaVine, Kris Dunn e Lauri Markkanen.
Sembrano le tanto, tristemente note parole di Krause: il sistema prima dei giocatori.

Ancora una volta i Bulls sono senza una guida, non sembrano avere le idee chiare su come usciranno da questo periodo difficile e i pochi asset a loro disposizione non garantiscono un futuro roseo.
 

“So che tutti vogliono risultati a breve termine, ma noi stiamo cercando di costruire le basi per dei successi futuri, crediamo molto in questi giovani ragazzi.”

Sostiene il GM Gar Forman, che come Paxson sembra brancolare nella confusione più totale.

 

Tornare a sperare nel Draft è molto pericoloso, la storia recente della squadra insegna. Nonostante il potenziale spazio salariale, sarà molto difficile per i Bulls attrarre free agent rilevanti negli anni a venire, data l’incertezza che regna sovrana.

Quello su cui questa franchigia può ancora sperare, senza tirare troppo la corda, è il blasone – come una grande squadra del calcio europeo – e il fattore ambientale, come detto uno dei più favorevoli dell’intera NBA.

Ma anche la pazienza dei tifosi dei Bulls avrà un limite. 

Perché guardare nostalgicamente vecchie VHS o clip su YouTube non può più bastare