La diatriba tra Ibrahimovic e LeBron James ha riacceso un dibattito fondamentale: quanto è importante la voce degli atleti nelle tematiche sociali e politiche? Una riflessione su due mondi diametralmente opposti.

In questi giorni ha fatto molto rumore la querelle tra Zlatan Ibrahimovic e LeBron James sul ruolo dell’atleta professionista nelle questioni politiche e sociali.

Botta e risposta del quale, con nazionalissimo senso del dramma, stampa e canali tematici italiani si sono impossessati rappresentandolo per lo più come uno scontro tra titani, raramente approfondendo gli spunti di riflessione sollevati dalla questione.


In primis perché uno dei due protagonisti coinvolti è un idolo nostrano: gioca nel Milan, squadra tifata da quasi 4 milioni di persone in Italia e le questioni di tifo contano spesso oltre i limiti del garantismo.

In secundis, per il momento e il contesto nel quale arrivano: Ibrahimovic, infatti, ha toccato l’argomento fresco ancora dalle ferite riportate a seguito dello scontro con Lukaku nel corso del derby di Coppa Italia del gennaio scorso.

Episodio che ha aperto un accesissima diatriba sul confine tra una tematica sociale molto spinosa come il Razzismo ed una puramente di campo come il Trash Talking.

Dibattito al quale, però, l’opinione pubblica italiana è arrivata forse troppo acciecata dalle varie fedi calcistiche e poco focalizzata su riflessioni serie e costruttive in materia. Si sa, i derby sono anche questo.

E forse l’occhio che ha avuto il resto del mondo a riguardo – tra “furious” e “brutal”, mai una volta è stata citata la parola “razzismo” – avrebbe potuto insegnarci qualcosa.

Questo anche perché Ibrahimovic è andato molto vicino al punto di rottura, mettendosi colpevolmente in una situazione equivoca. Per quanto il suo intento – tutt’altro che nobile – fosse esclusivamente quello di insultare Lukaku sul piano personale, non umiliarlo per il colore della sua pelle.

In un contesto così delicato, la prima scelta è stata sollevare di default una questione “Razzismo” senza approfondire il trascorso di entrambi a Manchester – per altro di dominio pubblico – decontestualizzando così il riferimento usato dallo svedese per entrare sottopelle al numero 9 neroazzurro.

E spesso, misconoscere un fatto produce una sorta di banalizzazione della questione stessa, finendo quasi per screditarla.

Tant’è che, complici anche le dichiarazioni scagionanti di Lukaku di fronte alla procura federale, l’intera questione s’è chiusa in una bolla di sapone.


Foto: repubblica.it

È tuttavia innegabile, però, che l’immagine di Ibrahimovic sia stata intaccata in maniera pesante da tutto questo: primo perché un ragazzo di origini slave, cresciuto in un “ghetto” svedese, che viene accusato di Razzismo fa piuttosto rumore; secondo perché Zlatan rappresenta uno dei massimi esponenti del calcio moderno, e un episodio del genere accreditato ad una personalità di tale portata sa di cortocircuito di un movimento intero. Come fu in passato il caso Suarez-Evra, tanto per citarne uno.

Ed è soprattutto in questo secondo ambito che si inseriscono le recenti dichiarazioni dello svedese durante un’intervista rilasciata a Discovery Plus.

“Quello che fa lui (LeBron James, ndr) è fenomenale, però non mi piace quando le persone con qualche tipo di ‘status’ parlano di politica. Fai quello in cui sei bravo.

Io gioco a calcio perché sono il migliore nel giocare a calcio. Non faccio politica. Se fossi stato un politico, avrei fatto politica. Questo è il primo grande errore che le persone fanno quando diventano famose e raggiungono, appunto, uno status. Stanne fuori, fai quello che ti viene meglio. ”

Con il freschissimo divampare di un movimento sociale e politico molto forte come il BLM, nel quale LeBron e la Lega intera hanno avuto un ruolo importantissimo e molto attivo, la risposta del 23 non si è fatta attendere:

“Non c’è modo che io stia zitto di fronte alle ingiustizie e mi limiti allo sport.

Io sono parte della mia comunità e ho oltre 300 ragazzi nelle mie scuole che hanno bisogno di una voce, e io sono la loro voce. Sono la persona sbagliata da criticare su questo campo perché ho una mente ‘molto educata’ e ho fatto i compiti… Mi occuperò sempre di temi come l’uguaglianza, la giustizia sociale, il razzismo, l’assistenza medica e il diritto al voto. So quanto è potente la mia voce e la ‘piattaforma’ da cui parlo e la userò sempre per occuparmi di certe cose, nella mia comunità, nel mio paese e in tutto il mondo.

È buffo che lui dica queste cose, perché è lo stesso ragazzo che nel 2018 ha parlato di razzismo in Svezia legato alle sue origini e al suo cognome.”

Avevamo trattato in precedenza su queste colonne la portata dell’intervento degli atleti NBA nel movimento Black Lives Matter, sostenendone le motivazioni ed evidenziando il valore radicato nel concetto “More Than Athletes”.

La risonanza mediatica prodotta dallo schieramento dei giocatori a favore delle proteste, dallo sciopero in occasione del turno di Playoffs del 26 agosto 2020 e dai diversi gesti simbolici e slogan portati avanti di lì in poi ha rappresentato un precedente storico di enorme valore nella cultura sportiva, politica e sociale americana.

In particolare, fonte di profonda riflessione era stato il fatto che fossero state proprio le Superstar della Lega ad intervenire in prima persona, e che la perfetta incarnazione del “giocatore più forte al mondo” come LeBron ne fosse portavoce ben riconoscibile.

Tutto ciò aveva aperto anche nel nostro Paese a numerose vedute in merito, e in molti si erano trovati in linea con una forma mentis molto simile a quella di Ibrahimovic.

Se fai l’atleta, fai l’atleta. Se fai il politico, fai politico.

Una visione del mondo, della società e di noi stessi – che di fatto siamo poi le individualità che compongono i due insiemi precedenti – a compartimenti stagni, forse troppo riduttiva ed anacronistica rispetto a questo periodo storico.

Ciò non significa che vi sia alcun obbligo di militanze o impegni trasversali.

Non sta scritto da nessuna parte che un grande atleta debba essere il proverbiale “esempio”: nonostante la patina mitologica che si portano appresso, LeBron come Ibra sono prima di tutto esseri umani, con debolezze e imperfezioni che spesso si tendono a dimenticare.

E se è ovvio che una vita esposta a causa del proprio talento comporti essere dati in pasto all’opinione pubblica, è altrettanto importante tenere presente che chi abbiamo di fronte non sia fatto solo di imprese e bagliori, ma anche di fallimenti, contraddizioni ed errori. E in questo ambito grande spunto di riflessione fu dato da Diego Armando Maradona nel corso di un’intervista a Fabio Fazio, quando affermò che non fu lui a scegliere per se stesso lo status di “Esempio” da seguire.

D’altro canto, screditare in maniera quasi banalizzante il valore di coloro che scelgono di utilizzare il peso del proprio status in ambiti differenti è un esercizio fin troppo riduttivo. Se non errato.

La vera collisione tra Zlatan Ibrahimovic e LeBron James è prima di tutto quella tra due mondi agli antipodi per substrato culturale e contesto di contorno.

Di certo entrambi posseggono dei punti in comune importanti: un’infanzia difficile ai margini della società, discriminati per la propria etnia, con un successivo grandissimo riscatto grazie ad un cristallino talento – e questo rende per certi versi ancora più incredibile l’incapacità di empatia di Ibra nei confronti dell’impegno di LBJ.

E’ altrettanto vero, però, che gli universi di cui sono entrati a far parte rappresentano il primo grande punto di divisione.

E lo si afferra anche dal diverso impegno delle reciproche Leghe nelle tematiche sociali.

La NBA, per esempio, ha sposato totalmente la causa del Black Lives Matter, ha un impegno sociale che dura da anni contro povertà, disuguaglianze e discriminazioni, con iniziative come NBA Cares a favore di una società più equa e solidale, e tiene che i suoi tesserati trasmettano questi messaggi condivisi; secondo alcuni, visto il ritorno di immagine – e di introiti – portentoso, in maniera tutt’altro che disinteressata.

Supporta sensibilmente la libertà di espressione dei suoi rappresentati – cosa per esempio non avvenuta nella NFL col caso Kaepernick – dimostrando a suo modo una forma di avanguardismo culturale.

È una Lega che si inserisce in un contesto nel quale lo sport è una colonna culturale portante nella vita dei ragazzi, un fatto educativo e formativo; non un hobby praticato al di fuori delle ore scolastiche.

Ed è composta in larghissima parte da atleti afroamericani.

Atleti storicamente legati a cause sociali quali integrazione e lotta alle discriminazioni.

Basti pensare a Jesse Owens, Muhammad Alì, Bill Russell, Tommie Smith e John Carlos, solo per citarne alcuni.

La comunità afroamericana, spesso ai margini della società negli USA, ha costantemente intravisto la meritocrazia dello sport come un mezzo di riscatto; e il fatto che diversi grandi atleti siano divenuti anche simboli nell’impegno politico e sociale parrebbe essere il prosieguo naturale di una lotta intesa più come “comunitaria” che non strettamente personale.

In questo contesto, non possiamo tralasciare il valore che le nuove generazioni di atleti conferiscono a quelle precedenti: personalità come Chris Paul, D-Wade e LeBron hanno da sempre manifestato profondo rispetto nei confronti dei loro predecessori, dimostrando quasi di voler raccogliere il testimone della causa dalle loro mani.


Foto: vanityfair.com

Da canto loro, le nuove leve della Lega si sono dimostrate consapevoli e pronte a dare continuità alle voci dei propri veterani.

Nel corso del BLM abbiamo così visto scendere in strada e prender parola giovani stelle come Jaylen Brown, Malcom Brogdon e Karl Anthony Town, e addirittura rookie come Mathisse Thybulle. Ragazzi della generazione Millenial che hanno accolto la propria esposizione mediatica con grande consapevolezza, andando oltre la figura di semplici atleti per amplificare al massimo possibile, proprio grazie al loro status, la voce di tematiche che appartengono a molti.

“Voglio che quando le persone vedono il mio nome non pensino soltanto ‘è un giocatore NBA’.

Sto cercando di abbattere le barriere che la gente ha creato riguardo agli atleti. Non sono d’accordo con quelli che dicono che un atleta non possa essere intelligente; con coloro che pensano che siamo un gruppo di adulti virili che non sanno controllarsi.

Io sono un’eccezione del quartiere da cui provengo, ma perché dovrei dimenticarmi delle persone che non hanno avuto le mie stesse opportunità? È per questo che mi identifico come attivista almeno tanto quanto mi identifico nell’essere un giocatore NBA.”

(Jaylen Brown)

Tutto questo fervore trova anche radici in una società nella quale contraddizioni, discriminazioni e diversità sono maggiormente sottolineate nella quotidianità. E in cui un profondo spirito patriottico gioca un ruolo di grande rilievo nel forgiare nei cittadini quasi un’esigenza di impegno politico.

Impegno che sembra esulare dallo status delle personalità in gioco, mettendo così sullo stesso lembo di asfalto cittadini comuni e Superstar conosciute a livello planetario.

A questo quadro si contrappone quello europeo, per certi versi più mite e decisamente più frammentato in popoli e nazioni che non hanno culture, lingue, usi e costumi in comune da spartire.

Per quanto sia logico che la condanna, per esempio, al Razzismo debba essere universale, pare essere uso squisitamente europeo – e molto anche “italiano” – proteggersi dietro la facciata dell’ “è implicito”.

Come se tutto fosse implicitamente ovvio, o schierarsi competesse soltanto a chi è afflitto da una particolare problematica, con gli altri ridotti a semplici spettatori nella propria bolla.

Perciò, restando in tema, ecco che sostenere la causa contro il Razzismo è affare delle minoranze etniche discriminate. E questa visione a compartimenti stagni è applicata in maniera trasversale su varie altre questioni, sia tra persone comuni che tra personaggi pubblici. Divenendo a suo modo una forma di linguaggio politico.

Alla luce di questa “mentalità”, forse è possibile contestualizzare più facilmente l’ulteriore risposta di Ibrahimovic alle parole di James.

“Noi atleti uniamo il mondo, la politica lo divide.

Nel mio sport ci sono atleti da tutto il mondo e tutti sono benvenuti. Esiste una sola religione e facciamo quello che facciamo per unire.

Gli atleti facciano gli atleti, i politici la politica.”

Il primo punto da chiarire sarebbe forse il significato di “Politica” secondo Ibra, e i paletti che egli stesso pone a questo ambito.

Se lo svedese attribuisse al termine “Politica” una visione squisitamente istituzionale, legislativa e amministrativa, la sua opinione sarebbe ineccepibile e condivisibile. Perché rientrerebbe nei più classici degli “ad ognuno il suo”, inteso come divisione delle competenze nei diversi ambiti.

Il problema è che tale opinione stona forse troppo coi tempi attuali, in cui la democrazia e le libertà di opinione e di espressione vorrebbero che tutti noi contribuissimo di più alla creatura da noi stessi chiamata a governare il mondo in cui viviamo.

Nel senso più ampio ed elevato del termine, fare politica non può significare soltanto un leader di partito applaudito ad un comizio o varare una legge: in un mondo libero, fare politica significa anche interessarsi alle innumerevoli questioni sociali che interessano la nostra quotidianità cercando, nel limite del possibile, di portare il nostro mattoncino alla causa.

Facciamo politica esprimendo un voto, partecipando ad una manifestazione, firmando una petizione o anche discutendo con qualcuno di tematiche sociali. Il che non presuppone che tutti siano tagliati per essere Ministri, ma nemmeno soggetti avulsi dalla democrazia.

È forse proprio questo problema semantico che porta agli antipodi due personalità così forti. Problema che è radicato, specie nel nostro Paese, in una qualità sempre più scadente della politica stessa.

Fatta di divisione distruttiva – qui sì che Ibrahimovic ha ragione – demagogia e una dialettica aggressiva e mai realmente inclusiva.


Foto: twitter.com

Sulla questione è intervenuto tra gli altri anche Enes Kanter – uno dei più attivi dissidenti del regime turco – che ha difeso a spada tratta l’intervento degli atleti nelle questioni politiche e sociali:

Non è la politica a dividere, ma ciò che lacera l’umanità sono le dittature e gli autoritarismi.

Quando gli atleti decidono di esporsi, non lo fanno per divertimento o per attirare attenzione. È un modo per ritenere questi regimi responsabili delle loro azioni.

Quando sei un arrogante che non prova empatia, un uomo che pensa solo a sé stesso, solo in quel caso puoi dire alla persone di non protestare in favore della giustizia.

La chiosa finale del centro dei Blazers denuncia anche una profonda insofferenza in merito alle parole di Ibra, figlia tra le altre cose di anni di persecuzione nei confronti suoi e della sua famiglia da parte di Erdogan.

Nel caso specifico di Kanter, è comprensibile come quella che ai suoi occhi rappresenta un’autentica banalizzazione possa essere fonte di grande rabbia. Quasi una mancanza di rispetto nei confronti di chi, seppur privilegiato, sceglie invece la lotta. Anche se questo significa dover rinunciare alla propria libertà e a quella dei propri cari.

Altro argomento interessante è comprendere come mai lo Sport professionistico europeo – e italiano – fatichi così tanto ad avere un ruolo che non sia squisitamente ludico.

Nella sua riflessione, Ibra cita almeno due punti attraverso i quali lo sport potrebbe essere di grande aiuto nelle cause sociali. E sono punti cavalcati, restando nel suo ambito, anche da federazioni come la UEFA o Lega Calcio con campagne a favore dell’inclusione e contro le discriminazioni.

Comunicazioni spesso eccessivamente di facciata, alle quali di rado seguono prese di posizione in grado di creare dei precedenti importanti.

Se il calcio è uno solo, com’è possibile che di fronte ai cori razzisti indirizzati a Koulibaly – per restare in attualità – non vi sia stata una presa di posizione realmente sensibile e netta da parte delle stelle della Serie A o del calcio europeo? Col giocatore, invece, addirittura ammonito dall’arbitro per aver cercato di far sospendere la gara.

Com’è possibile che una società come l’Inter accetti che i propri Ultras scrivano un comunicato a Lukaku nella quale lo pregano di capire che, in Italia, i tifosi del Cagliari ululano al suo indirizzo perché lo temono e per distrarlo?

E’ possibile prendere sul serio slogan e campagne contro le discriminazioni, quando il fatto che un giocatore della Nazionale italiana ironizzi in maniera piuttosto pesante sui giocatori omosessuali in conferenza stampa viene preso come una goliardata?

O quando il presidente della FIGC, Carlo Tavecchio, non più di 6 anni fa parlava di “opti poba che prima mangiava banane e ora gioca titolare nella Lazio” e definiva come “handicappate” le esponenti del calcio femminile?

Sembra quasi che abusando della minimizzazione l’evento scompaia. Salvo poi ripresentarsi puntualmente, con l’aggravante di farlo in un contesto che non ha fatto mezzo passo avanti rispetto all’ultima volta. Ripetendo in loop questo metaforico gatto che si morde la coda.

Senza una presa di posizione netta da parte dell’intero movimento a nulla servono momentanee chiusure delle curve, o squalifiche di qualche giornata a fuoriclasse come Suarez. E tali prese di posizione non possono essere frammentate e spesso operate dagli stessi compagni di squadra della parte lesa, venendo così destinate in un nulla di fatto. Se non al dimenticatoio.

Ad onor del vero, la Champions League è stata di recente interessata da un gesto di forte rottura nel corso del match tra PSG e Basaksehir, in cui le due squadre hanno spinto per la sospensione della gara a causa di un epiteto – “negru”, che in romeno vuol dire “nero” – da parte del quarto uomo Coltescu all’indirizzo di Demba Ba. Con grande esposizione in merito da parte di due superstar come Neymar e Mbappè.

Episodio a metà strada tra l’equivoco e l’imbarazzo di un ufficiale di gara con scarsa dimestichezza con l’inglese. Risoltosi poi con l’assoluzione del quarto uomo dalla pesante accusa, il quale è emerso come totalmente inadeguato ad un contesto di così alto livello.

Un’ulteriore ventata di novità è stata portata anche da Lautaro Martinez in un’intervista molto interessante rilasciata al Corriere della Sera. Nella stessa, il numero 10 dell’Inter ha affrontato diverse tematiche tra cui l’omosessualità nel calcio, dimostrandosi molto favorevole ad eventuali coming out da parte di colleghi.

Argomento tabù – come il precedente intervento di Cassano dimostrava – sfatato oltreoceano da Elena Delle Donne, leggenda della WNBA che ha deciso di rivelare la propria omosessualità con un gesto forte destinato anche a dare l’esempio. Di coraggio, accettazione e libertà.

Ciò non significa che società e campioni non intervengano in cause sociali in maniera attiva: numerosi sono gli esempi di calciatori impegnati nel sociale con donazioni o iniziative. Mbappè, per esempio, devolvette alla sua comunità gli oltre 400’000 euro di premio per il Mondiale del 2018. E numerose squadre europee hanno lanciato iniziative benefiche negli ultimi tempi piagati dalla pandemia.

Quello che però salta all’occhio è che in tali frangenti, a differenza di un movimento come la NBA, si parli di casi molto slegati e indipendenti tra loro.

Mancano un sistema e una sovrastruttura ben riconoscibili alla base del movimento, frutto anche della fisiologica frammentazione delle varie federazioni nazionali che rendono inapplicabile un modello calcistico unitario.

È così che i pensieri espressi da Ibra e LeBron, forse, incarnano i reciproci movimenti: se nel mondo del calcio esporsi significa rischiare di muoversi da soli, è quasi comprensibile come la maggioranza dei calciatori preferisca mantenere un basso profilo su tematiche spinose che potrebbero comportare anche contraccolpi alla propria immagine. Trincerandosi, come dice lo stesso Zlatan, dietro ciò in cui eccellono in modo inequivocabile.

Ma se il calcio è lo sport popolare per eccellenza, perché l’esempio offerto da atleti come LeBron e colleghi non può aiutare a farlo evolvere anche su un piano più elevato di quello ludico?

E ancora accettabile, nel 2021, una visione così compartimentalizzata delle cose? O, girando la questione, è giusto che venga mal tollerato il contrario?

Forse il problema è il fatto che il movimento calcistico non abbia mai davvero avuto in sé quei pionieri di grande forza di cui ha invece goduto il mondo cestistico americano.

La grande narrazione del Football è spesso stata legata a doppia mandata ai fatti esclusivamente di campo, e anche nella ribellione al sistema di grandi personalità come Maradona – forse il campione “politico” per eccellenza – si è sempre inseguita una retorica più romanticamente metaforica che non pragmatica come in un Bill Russell.

La questione legata alla politicizzazione trasversale di ogni aspetto delle nostre vite è ampia e spinosa. Tocca anche l’arte, e nei tempi in cui gli sport hanno connotati pop la campana di chi sostiene che “in fondo danno solo due calci ad un pallone” racchiude in sé un desiderio di leggerezza che a tratti risulta incontestabile. Pur essendoci di fondo una forma di religiosità laica molto evidente.

Se però il tutto viene ridotto al famoso “shut up and dribble” diventa un fatto per certi versi inaccettabile. Cosa alla quale gli atleti NBA si sono ragionevolmente ribellati.

Per questo il problema non sono i diversi errori concettuali insiti nell’opinione di Ibrahimovic, ma il fatto che la stessa reincarni il pensiero basico di un movimento fin troppo impantanato in posizioni ormai desuete.

Una predisposizione mentale non al passo coi tempi e le possibilità che un mondo sempre più globale offre a chi lo popola; che ha lasciato una sensazione più di “alienazione” che di normalità nei confronti di coloro che hanno sostenuto, inginocchiandosi sui vari campi europei, la causa del BLM. Come se fosse un qualcosa di poco comprensibile, o comunque non appartenente al nostro mondo.

Ma se non è necessario politicizzare per forza una Lega Sportiva professionistica, non lo è nemmeno stigmatizzare atleti che esprimono sostegno o partecipazione a cause che di fatto ci coinvolgono tutti, solo perché “non di loro competenza”.

Il caso di Ibrahimovic, poi, ha in sé un’eccezionalità tutta sua per vissuto e personalità. Nonostante i punti in comune con la storia di LeBron James e l’oggettivo riscatto sociale ottenuto tramite lo sport, vien naturale chiedersi come i due intendano il proprio successo.


Foto: open.online

E se per LeBron è probabile che essere uno dei primi 5 giocatori della storia del Gioco rappresenti come detto un riscatto anche della sua comunità – considerato il suo fortissimo senso di appartenenza – la storia individualistica di Ibra può far pensare che il suo successo sia una vittoria di Zlatan contro il mondo.

Per James l’impegno politico e sociale non può essere un errore, quanto più un atto quasi dovuto in virtù del suo “status”: è naturale farsi carico delle voci di persone altrimenti disperse nell’indifferenza.

La personalità egocentrica e auto-mitizzante di Ibra, invece, può forse aiutarci a capire il suo punto: per lui essere un grande atleta è una rivalsa contro una società avversa che da sempre ha puntato a mettergli il bastone tra le ruote. Bastone puntualmente sbriciolato da uno strapotere fisico e mentale capace di rullare qualsiasi avversità. Per questo il fallimento non solo è intollerabile, ma nemmeno considerabile.

Forse il punto, però, è che Ibra vs World non può essere applicato a 360 gradi in un universo non ibracentrico, e questo può essere un limite per un uomo sovrannaturale per durezza mentale e fame ma che rischia di scadere in tinte caricaturali del tutto ingenerose per il suo valore. Che resta inestimabile.

L’errore nostro è stato forse sperare che Ibra potesse essere, a suo modo, un po’ LeBron; quello di Ibra è aver criticato LeBron James per essere… LeBron James.