Richard Nixon, i ‘negri’, ‘legge e ordine’ – e le elezioni presidenziali del 1968 che fecero sentire Wilt Chamberlain un conservatore di colore…

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Questo contenuto è tratto da un articolo di Justin Tinsley per Andscape, tradotto in italiano da Luca Rusnighi per Around the Game.


Vedere Martin Luther King Jr in una bara il 9 aprile 1968 – ecco cosa cambiò Wilt Chamberlain.


Il leader del movimento per i diritti civili era stato assassinato cinque giorni prima sul balcone del Lorraine Motel a Memphis, nel Tennessee. Avrebbe dovuto guidare un corteo e uno sciopero generale cittadino, in concomitanza con la prolungata astensione dal lavoro organizzata dagli operatori di colore della nettezza urbana locale.

Chamberlain, assieme all’amico ed eterno rivale Bill Russell, chiese a gran voce di posticipare Gara 1 delle finali di Eastern Conference tra le rispettive squadre, ma invano. Lui e il compagno di squadra Wali Jones votarono per non entrare in campo – gli obblighi contrattuali rendevano praticamente impossibile annullare il match – ma il giorno dopo l’assassinio di King (e un giorno prima che scoppiassero i disordini di Baltimora), lo scontro tra titani per eccellenza della pallacanestro riprese allo Spectrum di Philadelphia tra dolore, rabbia e costernazione.

Wilt, ancora profondamente scosso per l’accaduto, chiuse gli occhi e cercò di ricomporsi prima d’imboccare il tunnel del palazzetto. Sapeva che il Paese era sull’orlo del caos. I diritti civili erano l’argomento scottante del decennio, e la rabbia crescente legata al conflitto in Vietnam continuava a spaccare in due la nazione.

I Philadelphia 76ers di Chamberlain avrebbero buttato al vento un vantaggio di 3-1 in quella serie contro i Celtics di Russell, e con esso l’occasione di riconfermarsi campioni NBA. Qualche settimana dopo, Chamberlain sarebbe passato ai Los Angeles Lakers, formando uno storico triumvirato con Jerry West ed Elgin Baylor.

Prima della morte di King, Chamberlain non era solito esprimersi pubblicamente su tematiche politiche, sociali o culturali del tempo. La sua vita – nato e cresciuto a Philadelphia, star di livello nazionale alla University of Kansas, destinato all’NBA a 23 anni dopo un anno con gli Harlem Globetrotters – era un film che lo teneva occupato già di suo. Alto 2.13, eccezionalmente atletico, era l’incarnazione del gigante Golia. Impossibile non notarlo.

“Mi avvicinai in silenzio all’ex vicepresidente Richard Nixon e gli dissi che mi piaceva il suo programma e volevo unirmi al suo team.”

Durante le trasferte, Wilt veniva fischiato senza pietà. Era diventato in breve il bersaglio preferito dei tifosi avversari, nonostante spadroneggiasse contro la maggior parte dei giocatori della NBA. Molti volevano vederlo segnare decine di punti e conquistare rimbalzi a grappoli. Ma per tanti altri – che fossero tifosi bianchi, neri o i media – un Chamberlain perdente e da incolpare era diventato un afrodisiaco sportivo.

Gli avversari ne ridicolizzavano i punti deboli. Dolph Schayes, poi entrato nella Hall of Fame, lo prendeva in giro per la scarsa efficacia alla lunetta: “Un qualunque liceale potrebbe fare meglio”. Paul Seymour, coach dei St. Louis Hawks, lo definì “alto ma senza talento”. E dopo la rissa del primo aprile 1962, durante un match tra Boston Celtics e Philadelphia Warriors che si concluse con cinque giocatori espulsi e due fan arrestati, fu Chamberlain a essere dipinto sui giornali come il nemico pubblico numero uno. Certo, il battibecco tra lui e Sam Jones di Boston e il suo gioco molto fisico avevano dato fuoco alle polveri; ma Chamberlain non aveva alzato le mani neanche una volta e non era stato espulso. “Sarebbe bello non fare sempre la figura del cattivo”, aveva dichiarato. “E vorrei tanto che almeno una volta, qualcuno facesse il tifo per me.”

Nessun giocatore nella storia dell’NBA ha dominato il campo come Wilt “The Big Dipper” Chamberlain. Era implacabile come un carrarmato, elegante come un assolo di Louis Armstrong e agile come una star dell’atletica (suo primo amore, e probabilmente lo sport in cui eccelleva davvero). Alcuni dei suoi record non verranno mai infranti.

È stato il precursore di fenomeni come Shaquille O’Neal e LeBron James. E tuttavia, dei 142 confronti con Russell, l’uomo e compagno di confraternita a cui viene immancabilmente associato, Chamberlain ne vinse solo 57. E in uno sport ossessionato dal misurare l’immortalità in titoli vinti, gli undici anelli di Russell contro i due di The Big Dipper vengono spesso usati come metro per criticare il posto di Chamberlain nell’Olimpo dei grandi del basket.

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Il cocktail letale di sport e attivismo esiste da prima di Wilt ed è un argomento di scottante attualità. Sin dai tempi del pugile Jack Johnson e in seguito della leggenda dell’atletica Jesse Owens, la battaglia per i diritti e l’uguaglianza nella società si è manifestata storicamente dentro e fuori i campi di gioco e gli stadi. Gli atleti che si esponevano mettevano spesso a repentaglio la propria carriera. Il primato di Chamberlain sulla NBA lo metteva sullo stesso livello di Jim Brown nel football, di Muhammad Ali nella boxe o dello stesso Russell. Ma i paragoni si fermavano qui. I tre, assieme agli sprinter John Carlos e Tommie Smith alle Olimpiadi del 1968, divennero i volti pubblici dell’attivismo tra gli sportivi di colore negli anni ’60, ossia in un decennio segnato da omicidi politici, chiese incendiate, rivolte e un’ondata crescente di mobilitazione per l’emancipazione degli afroamericani.

Chamberlain una volta dichiarò: “Il modo migliore per favorire l’integrazione è vivere bene e in modo sano.” Wilt faceva donazioni alla NAACP (l’associazione americana per lo sviluppo delle persone di colore, ndr) e alla National Urban League, ma si tratteneva dall’alzare pubblicamente la voce o dal chiedere un cambiamento nei modi che trasformarono Russell, Brown e Ali in figure mitiche – ovverosia, lontano dal campo.

Nella sua seconda stagione NBA, Chamberlain declinò l’invito di John F. Kennedy ad aiutarlo nella campagna presidenziale del 1960. E quando giocatori del calibro di Baylor, Oscar Robertson e Tommy Heinsohn minacciarono di boicottare l’All-Star Game 1964 per la supposta mancanza di tutela sul lavoro da parte dei proprietari, Wilt fu il solo che votò per giocare. Temeva che la NAACP, ancora agli albori e assai lontana dall’enorme entità culturale di oggi, non si sarebbe mai risollevata. Si racconta che quando l’allora proprietario dei Lakers gli ordinò di giocare, Baylor rispose: “Dite a Bob Short di andare a farsi fottere.”

Ma la processione dopo il funerale di King ad Atlanta e la dura realtà del corpo esanime del leader pacifista spinsero Chamberlain a farsi avanti.

“In tutta la sua carriera politica l’hanno sempre chiamato ‘perdente’, uno che non sapeva vincere quando contava. Ed è successo anche a me.”

“Continuavo a chiedermi cosa potessi fare per aiutare l’America – e soprattutto la mia gente – a raggiungere la cima della montagna e vedere la terra promessa di cui il reverendo King parlava così spesso”, dichiarò nel luglio del ‘68 il campione di Philadelphia al Los Angeles Sentinel, settimanale con proprietari di colore.

“In quel preciso istante, qualcosa s’impossessò di me. E mentre camminavo con migliaia di persone dalla Ebenezer Baptist Church al cimitero, mi avvicinai in silenzio all’ex vicepresidente Richard Nixon e gli dissi che mi piaceva il suo programma, e che volevo unirmi al suo team.”

Il cestista e il politico si erano conosciuti anni prima su un volo da New York a Los Angeles, ed era subito nata un’intesa. Oltre a rimanere colpito dalle sue opinioni di politica estera, Chamberlain aveva trovato in Nixon il suo animale guida.

Entrambi, Wilt riteneva, venivano percepiti come stupidi dall’opinione pubblica. “E perché? Perché non era molto loquace, non parlava in modo brillante o eloquente”, scrisse nella sua autobiografia del 1973 “Just Like Any Other 7-Foot Black Millionaire Who Lives Next Door” (Un qualunque altro milionario nero di 2.13 della porta accanto, ndr). “Lo stesso accade nello sport… Ad esempio, tutti dicono che Muhammad Ali è un tipo intelligente perché parla tanto e bene. Beh, considero Muhammad un buon amico, ma a parte due argomenti – religione e pugilato – non ne sa abbastanza da mettere insieme tre frasi sensate.”

Chamberlain si rivedeva in parte nei fallimenti politici di Nixon. “Credo che la mia decisione di supportare Richard sia stata influenzata… inconsciamente da tante cose che avevamo in comune”, scrisse nel suo libro. “In tutta la sua carriera politica l’hanno sempre chiamato ‘perdente’, uno che non sapeva vincere quando contava. Ed è successo anche a me.”

Wilt non era solo nella sua decisione di sostenere la campagna di Nixon. Convinse altri atleti ad unirsi a lui: l’ex campione dei pesi massimi Joe Louis, Bennie McRae dei Chicago Bears di football e l’ex UCLA e All-American Walt Hazzard dei Seattle Supersonics.

Era il 1968, noto nella storia americana come ‘the unraveling’, l’anno dello sfascio. Omicidi politici; chiese incendiate; rivolte a Detroit, Baltimora e Watts (California); crescenti proteste anti-Vietnam; l’offensiva per i dritti civili e l’uguaglianza tra gli uomini. Fu l’anno che racchiuse la rabbia di un decennio.

Dopo aver supportato il partito negli anni successivi alla Ricostruzione, la comunità nera aveva disertato i repubblicani negli anni ’60. Nel ’68, i democratici erano ormai diventati il partito dei liberali e si erano guadagnati una larga fetta di preferenze tra i neri, in parte grazie al loro presunto impegno per i diritti civili.

“La lezione più importante che ho imparato è che la politica non è molto diversa da tutto il resto che facciamo. Non è un’arte sacra o mistica. È semplicemente la vita.”

“Si poteva ancora essere liberali e repubblicani nel ’68”, ride Aram Goudsouzian, presidente della facoltà di storia alla University of Memphis e autore di “King of the Court: Bill Russell and the Basketball Revolution” (Il Re del Campo: Bill Russell e la Rivoluzione del Basket, ndr). “Ma stava diventando sempre più difficile. Il partito era sicuramente mosso da quanto accaduto con la candidatura di Barry Goldwater nel ’64. La nuova destra… stava iniziando a emergere. L’odio razziale era uno dei fattori in quel tipo di neoconservatorismo. I neri votavano democratico, per la stragrande maggioranza. Prima nel ’64 a supporto di Lyndon B. Johnson, ma soprattutto perché erano terrorizzati da Goldwater. Nel ’68, però, i democratici divennero il partito della riforma liberale.” Dopotutto, Goldwater è considerato il grande vecchio del Tea Party, l’ala ultraconservatrice del partito che fece da precursore alla candidatura di Donald Trump alle presidenziali del 2016.

Nixon voleva disperatamente conquistare il voto dell’America nera. Nelle elezioni del 1964, del 1960 e del 1956, i candidati repubblicani non riuscirono ad accaparrarsi il 40% dei voti della comunità di colore. “Spero di fare tra la mia gente e per Nixon la metà dei punti che sono stato capace di segnare in campo”, dichiarò Chamberlain al Sentinel nel luglio del 1968.

Molti neri snobbarono Nixon, convinti che le sue politiche di “legge e ordine” fossero razziste. E nonostante la popolazione afroamericana si fosse creata le sue imprese e una sua economia sin dalla fine della schiavitù, venendo terrorizzata a causa del proprio successo, Chamberlain si espresse apertamente a favore del concetto nixoniano di capitalismo nero.

Visitò comunità di colore in tutti gli Stati Uniti, cercando di diffondere il verbo di Nixon. Wilt ricorda che nel ’68, mentre si trovava con Nixon in un quartiere nero di Philadelphia, sua città natale, un “leader militante” di colore disse al candidato presidente: “Sei una banderuola, bello. Peccato che la mia gente non se ne accorge. Meglio che ti porti quel bestione appresso dovunque vai.”

Nell’agosto del 1968, il giornalista del Los Angeles Sentinel Brad Pye Jr preparò per l’atleta un copione a 360 gradi mirato a vendere il messaggio che “Nixon è quello giusto” alla popolazione nera in tutto il Paese, tra cui storie inserite ad arte nelle riviste Ebony e Sepia e spot radio preparati a tavolino.

“Sarebbe bello non fare sempre la figura del cattivo. E vorrei tanto che almeno una volta, qualcuno facesse il tifo per me.”

“Sono Wilt Chamberlain… Mi sono offerto di unirmi al team di Richard M. Nixon perché credo fortemente che sia l’unico a poter lavorare con onestà e sincerità per l’uguaglianza delle persone di colore, qualunque colore”, diceva il copione. “E Nixon crede nel potere nero quanto me… Ascoltate il prossimo presidente degli Stati Uniti… Richard Nixon… che ci dirà perché crede nel Potere Nero e come spera di contribuire ad aumentarlo. Sono sempre Wilt Chamberlain… Nero è bello… Un voto per Richard Nixon è un voto per aiutare la gente di colore a diventare padrona del proprio destino.”

Facendo questo grande favore al suo amico Nixon, Chamberlain sperava di portare alla Casa Bianca altri argomenti che gli stavano a cuore. “Tutti i miei amici di colore rimasero sorpresi – e si arrabbiarono parecchio”, scrisse in Just Like. Ma Wilt non si definì mai un repubblicano – piuttosto, un sostenitore di un candidato repubblicano. Nello sport, diceva, faceva il tifo per i singoli atleti. E in politica, secondo lui, l’uomo era più importante del partito.

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Chamberlain voleva dare alla futura amministrazione il suo contributo in termini di affari esteri, lavorando allo stesso tempo per l’uguaglianza degli afroamericani negli USA. Wilt, inoltre, era un fervido sostenitore dell’eutanasia, tra le altre cose. “Ci servono nuove leggi per questi ‘crimini senza vittime’ – come il gioco d’azzardo, la prostituzione, la marijuana e la pornografia – che in realtà non fanno male a nessuno”, dichiarò nella sua autobiografia. “Devono essere tutti controllati, ma non illegali.”

Molti afroamericani vedevano Nixon come un nemico. Nixon si oppose pubblicamente al ‘busing’, ossia al trasporto e all’inserimento di studenti in scuole lontane da casa per favorire l’integrazione razziale. In seguito lanciò la “guerra alla droga”: una guerra che prendeva apertamente di mira la gente di colore.

“La campagna di Nixon nel ’68 prima e il suo mandato alla Casa Bianca poi avevano due avversari: la sinistra antimilitarista e i neri”, dichiarò ad Harper’s Ferry l’ex responsabile della politica interna di Nixon John Ehrlichman. Sapevamo che non potevamo rendere illegale l’essere contro la guerra o contro i neri. Ma convincendo l’opinione pubblica ad associare gli hippy alla marijuana e i neri all’eroina e criminalizzando entrambe, fummo in grado di spaccare queste due comunità. Riuscimmo ad arrestare i loro leader, a fare retate nelle loro case, a interrompere le loro assemblee e infangarne la reputazione sera dopo sera nei telegiornali. Sapevamo di mentire sulla droga? Ma certo.”

Le critiche dirette a Chamberlain (e più in generale al trattamento politico della gente di colore da parte dei repubblicani) furono durissime.

Harry Edwards, leader del movimento per il boicottaggio contro i Giochi Olimpici (Los Angeles Times, 1968):

“Wilt si sta distruggendo l’immagine. Si è fatto il suo gruzzolo. E adesso si dimentica di chi non ha fatto altrettanto.”

James Baldwin, romanziere e critico di costume (Esquire, 1968):

“Ma stiamo scherzando… Di sicuro non voterò mai per un repubblicano fintanto che Nixon è in quel partito. C’è bisogno di qualcuno che crede – di nuovo – in questo Paese per cominciare a cambiarlo.”

Bill Russell (Los Angeles Times, 1968):

Avrete notato che Chamberlain sorride pochissimo. Non è perché è arrabbiato tutto il tempo. È perché è solo. Un emarginato.”

Milton Gross, opinionista del New York Post (Los Angeles Times, 1968):

“La sua scelta di supportare Nixon sembra incredibile. Con il suo nuovo contratto, sarà così ricco che si potrà permettere di essere un repubblicano.”

Jackie Robinson, membro della Baseball Hall of Fame, che aveva anche lui preso parte alla campagna per Nixon nel 1960 (New Pittsburgh Courier, 1968):

“A proposito di neri che promuovono Nixon – qualcuno sa che è successo a Wilt Chamberlain? L’ultima volta che ne abbiamo sentito parlare, Wilt si era lamentato dalla West Coast che c’erano delle ‘divergenze’ tra lui e il candidato repubblicano. È successo dopo che Sua Arroganza Nixon ha abbandonato una riunione con gente di colore organizzata da Wilt e da alcuni collaboratori di colore. Ecco su cos’altro conto per sconfiggere Nixon: sulla sua arroganza. Ma non ci scommetto troppo. Lavorerò al massimo per aiutarlo a mantenere il suo titolo di perdente – uno dei più grandi di sempre.”

Shirley Chisholm, prima donna afroamericana eletta al Congresso (rivolta agli altri membri della Camera, 1969):

“…Credo sia difficile immaginare un incarico più distante dalla mia storia o dalle esigenze del mio elettorato (in maggioranza nero e portoricano, in molti casi senza lavoro, affamato e costretto a vivere in alloggi fatiscenti) di quello assegnatomi.”

Bill Russell (JET, 1969):

“Il capitalismo nero è come la storia della bella addormentata che aspetta il principe azzurro. È una favoletta. Per avere un capitalismo nero bisogna avere un qualche controllo dell’economia, e i bianchi non rinunceranno mai a questo controllo in favore dei neri. È una brutta presa in giro. Prima che un nero diventi capitalista, dev’essere in grado di darsi da mangiare. L’uomo di colore viene da sempre analizzato, incasellato ed esaminato, e solo ora sta iniziando a prosperare. E adesso che i bianchi hanno fatto ai neri tutto quello che gli veniva in mente, hanno deciso di farne dei capitalisti. È come avere uno che ti picchia in testa e si chiede perché strilli.”

Chamberlain non era sordo alle accuse secondo le quali non si curava dei neri poveri e sosteneva Nixon solo per fare soldi. Ma il suo supporto era autentico. Credeva davvero che Nixon fosse il candidato migliore per la comunità di colore e per l’America.

Nella stagione 1967/68, Wilt fu il miglior passatore dell’NBA. Ma meno di un mese dopo aver rivelato il suo sostegno a Nixon, la nuova passione politica portò il 31enne a South Beach, Florida. La Convention Nazionale dei repubblicani si stava svolgendo a Miami e Chamberlain era pronto a quello che credeva sarebbe stato uno degli assist più importanti della sua vita.

Il campione fu la star di quella kermesse di quattro giorni nella città più pittoresca della Florida. La sua fama sorpassava quella del Reverendo Billy Graham e di Ronald Reagan, ex divo del cinema e al tempo Governatore della California. I delegati fecero a gara per farsi fotografare con lui.

Molti rimasero scioccati dalla competenza del cestista su “praticamente qualunque argomento volessero discutere,” come scrisse Brad Pye Jr – che aveva accompagnato la stella dei canestri durante la campagna – sul Sentinel nell’agosto del ’68. Wilt intrattenne i partecipanti alla convention nella sua suite di tre stanze in hotel e durante le uscite in barca nella Biscayne Bay, accattivandosi i delegati e tessendo le lodi del suo amico Nixon senza sosta. Ma il compito principale dell’atleta era convincere i 78 delegati di colore e i loro sostituti a votare per Nixon.

L’impresa si rivelò più ardua che sconfiggere i Celtics di Russell. Wilt doveva convincere i delegati del Maryland (Stato di appartenenza del candidato alla vicepresidenza Spiro Agnew) a desistere da un esodo di massa, evitando a Nixon e al partito una figuraccia televisiva a livello nazionale. Chamberlain credeva in Nixon, ma non s’intendeva con Agnew (che dovette dimettersi dalla vicepresidenza nel 1973 dopo essere stato radiato dall’avvocatura e accusato di cospirazione e frode fiscale).

Il rapporto tra Agnew e i neri del Maryland si era parecchio inasprito. Nel 1968, gli studenti del Bowie State College, un istituto a maggioranza nera che sarebbe diventato università nel 1988, occuparono l’edificio dell’amministrazione per protestare contro le condizioni in cui versava il campus. Nel ’68, i college del Maryland erano legalmente segregati su base razziale. Agnew non solo mandò la polizia nell’edificio, ma fece anche arrestare gli studenti che portarono la protesta alla capitale Annapolis e chiuse temporaneamente il college.

In seguito all’assassinio di Martin Luther King, Agnew indisse una riunione con alcuni dei leader della comunità nera del Maryland e li definì provocatori razziali. “Ci ha trattato come bambini,” dichiarò un senatore presente al meeting.

Chamberlain, al corrente di tutto, svolse comunque il suo compito a Miami, ma quando si trattò del Maryland, lo fece controvoglia. E dopo la convention, Wilt continuò a sostenere Nixon, ma smise di fare campagna attiva. Disprezzava l’uso che Agnew aveva fatto della parola “negro” e la frase “legge e ordine”, così come il tono di Agnew nei confronti della comunità di colore.

“Vi chiedo di rinnegare, condannare e rifiutare pubblicamente tutti i razzisti neri. Questo non avete ancora voluto farlo”, dichiarò Agnew l’11 aprile 1968, una settimana dopo l’assassinio di King e con Baltimora in piena rivolta. “Vi chiedo, da americani, di pronunciarvi contro l’odio di Stokely Carmichael e Rap Brown, due traditori. Se vogliamo che la nostra nazione non si evolva in due società separate – una bianca e una nera – anche voi avete un obbligo.”

Le parole di Agnew fecero rabbrividire Chamberlain. Sapeva che molti tra gli afroamericani erano furiosi. Qualche giorno dopo la Convention di Miami, i due tennero una riunione a San Diego con un gruppo di esponenti di rilievo della comunità di colore. Wilt scrisse dell’evento nella sua autobiografia.

“Ma lo sapete che quel cogl… avrà detto ‘negro’ e ‘legge e ordine’ almeno diecimila volte? Sono seduto di fianco a lui, lo sto fissando e continuo a sprofondare nella sedia ogni minuto che passa. Alla fine me ne sono dovuto andare. Non ho fatto molta campagna dopo la convention. Agnew mi aveva deluso.”

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L’improvvisa escursione di Chamberlain in politica a livello nazionale sembrò terminare velocemente. Si concentrò sulla sua prima stagione ai Lakers e a quanto si dice, lavorò dietro le quinte con il compagno Baylor per aiutare Ali a “sistemare le cose,” secondo il Philadelphia Tribune del 21 settembre 1968.

Quelle elezioni del ’68 ricordano molto il clima politico attuale. Grazie in parte a una convention dei democratici a Chicago più dirompente di quella dei sui avversari, Nixon sconfisse il candidato dei democratici Humbert Humphrey in novembre – una vittoria che, vista oltre quarant’anni più tardi, fece più danni che benefici, come scrisse Richard Cohen sul Washington Post nel 2014. Ce la fece senza praticamente alcun sostegno da parte della comunità di colore: solo il 12% lo votò. E nelle ultime settimane di campagna, anche il supporto di Chamberlain si ridusse al minimo.

La star NBA continuò a ricevere biglietti di congratulazioni dal presidente in occasione di anelli vinti o di partite memorabili, ma Wilt ammise nella sua autobiografia che “aveva la stessa possibilità di influenzarlo di quanto avrei potuto influenzare il Papa.”

Secondo il giornalista Bomani Jones, uno dei volti di Highly Questionable su ESPN e conduttore del podcast The Right Time, Chamberlain si fece coinvolgere nella convinzione che il suo impegno potesse cambiare un processo che non dava molta importanza a lui e alle persone del suo stesso colore. “Quello che Wilt si era scordato”, dice Jones, “è che ai politici conviene politicamente prendere voti dalla popolazione di colore. Ma venire percepito come attento agli interessi della popolazione di colore non ha mai giovato a una carriera politica. Non ci è riuscito neanche un presidente di colore. È la politica, come al solito.”

Chamberlain si era convinto di poter contribuire su temi sociali e politici del governo Nixon. Ammise di essere stato un ingenuo, anche se non serbò mai troppo rancore. Wilt scoprì che la politica era, è e sarà sempre un ambiente sporco. Disse che gli ricordava molto i fan troppo entusiastici e i parassiti che circolavano attorno alle arene.

“La lezione più importante che ho imparato è che la politica non è molto diversa da tutto il resto che facciamo. Non è un’arte sacra o mistica. È semplicemente la vita.”