L’ala dei Nuggets ha parlato del suo lungo percorso in NBA e del suo ruolo di veterano a Denver.

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Questo articolo, scritto da Marc J. Spears per The Undefeated e tradotto in italiano da Pietro Campagna per Around the Game, è stato pubblicato in data 11 settembre 2020.


In un anno di elezioni, i tifosi di Denver ormai conoscono bene la campagna “Vote 4 Millsap”.


Paul Millsap, veterano dei Nuggets, ha scelto “Vote” come messaggio di giustizia sociale da mettere stampato sulla divisa che ha usato dalla ripresa della stagione. La sua intenzione era quella di invitare gli americani a votare, ma non si è reso conto che, con il nome spostato sotto il numero, si sarebbe letto “Vote 4 Millsap”…

“Non potevo saperlo, non ci avevano detto che il nome sarebbe stato sotto”, ha detto il #4 dei Nuggets a The Undefeated.

“Ho anche pensato di cambiarlo. Non volevo che venisse male interpretato. Ci tenevo a sfruttare l’occasione per invitare la gente a votare. Quando l’ho visto dopo la prima partita, ero scioccato. Ho scelto VOTO perché ci tengo tantissimo a creare consapevolezza nella comunità su quanto sia importante votare. Non solo a livello nazionale, ma anche in contesti più piccoli. Anche nelle piccole città è importante scegliere le persone giuste e far sentire la propria voce.”

Al termine della sua 14esima stagione, il veterano ha parlato a The Undefeated di alcuni momenti della sua carriera, del suo futuro nella NBA e delle recenti proteste all’interno della bolla di Orlando.

Cosa ti ricordi del Draft 2006, in cui sei stato alla 47esima scelta?

Mi ricordo che ero a casa di uno dei miei zii a Ruston, in Louisiana. Alla fine del primo giro, in cui non ero stato chiamato, avevo già pensato di andare oltre oceano, per poi tornare indietro. Poi è successo che una squadra, con cui poi non ha funzionato, gli Utah Jazz, mi ha scelto. È stato un grande momento per me.

L’ex coach dei Jazz, Jerry Sloan, credeva in te. Ti ha aiutato questa cosa?

Sloan è stato una delle mie più grandi fonti di ispirazione. Il modo in cui approcciava il gioco e in cui studiava le altre squadre. Una delle cose che ho imparato da lui è essere sempre pronto a lavorare duro. Ce lo ripeteva sempre e mi è rimasto impresso.

Cos’hai pensato quando hai saputo, il 22 maggio, che ci ha lasciato?

Tristezza. Tutto il mio cuore va alla sua famiglia. Per me è stato come un nonno, mi ha preso sotto la sua ala quando non avevo idea di come fosse la Lega e come fosse vivere fuori dal Louisiana. Mi ha insegnato l’etica del lavoro. Ed è così che la mia carriera è cominciata, con tanto lavoro e tanta voglia di migliorare.

Quando hai saputo che avresti fatto parte della squadra?

Durante la Summer League alle Rocky Mountains. Ho giocato bene, non stavo pensando a nient’altro che non fosse giocare bene, prendere rimbalzi, fare quelo che so fare.

Dopo le prime due stagioni in cui uscivi dalla panchina, puoi considerare la tua terza stagione come un punto di svolta?

Quando si è fatto male Carlos Boozer ho giocato tanto. Non saprei dire quante partite, ma durante quel periodo ho avuto degli ottimi numeri, e allora ho capito che in questa Lega potevo starci anche io.


FOTO: NBA.com

Cosa ti ricordi della tua prima esperienza come All-Star nel 2014, quando giocavi negli Hawks?

Mi ricordo che eravamo in trasferta e coach Budenholzer mi ha chiamato, io non ne avevo idea. Mi stavo organizzando per la pausa, in verità. Quando mi ha chiamato era commosso, è stato un momento molto emozionante. Era orgoglioso di me, era il mio primo anno lì, e anche il suo, ed eravamo riusciti a fare qualcosa di grande.

Quando entri nella Lega ti poni degli obbiettivi. Io ci ho messo 7 anni ad entrare nella squadra All-Star. E ce l’ho fatta, è stato pazzesco per me.

Che consiglio daresti ai giovani che non hanno avuto la strada facile nella Lega?

Testa bassa e lavorare. Posso garantire che prima o poi l’opportunità arriverà. E quando arriverà, dovrete essere pronti.

Ora hai 35 anni e sei l’unico Nugget nato negli anni ’80. I tuoi compagni ti prendono in giro per la tua età?

Ci provano, sì. Provano a chiamarmi “Old Man”, ma io sono ancora un bambino nel cuore, ci scherzo sempre. Mi tengo giovane, con loro. E stare con loro mi aiuta a sentirmi giovane sia fisicamente che mentalmente.

Cosa ti fa pensare che questa squadra abbia ancora tanto da dimostrare?

Credo che la squadra sia molto completa. Abbiamo i veterani e abbiamo dei giovani affamati, che provano a dimostrare quanto valgono. I nostri allenatori hanno la giusta passione per il gioco, continuiamo a crescere e a migliorare. In più, abbiamo una solida organizzazione dietro di noi. Se riusciamo a mettere insieme bene tutte queste cose abbiamo le nostre possibilità.

Hai pensato alla tua imminente free agency e alla possibilità di restare a Denver?

Vedremo, vedremo. Il mio obbiettivo qui era aiutare la squadra a fare un salto di qualità e alcuni giovani a diventare le superstar che sono. Credo di essere riuscito nei miei intenti, vediamo cosa succederà in estate.

A me piace molto stare qua, ma alla fine della fiera è business. Devo prendere una decisione sia per me che per la mia famiglia. Non sarà facile di sicuro, ma spero che mi vogliano trattenere ancora qua.

Per quanto vuoi giocare ancora?

Il mio corpo mi dice ancora un po’. Mi sento benissimo, sono in perfetta salute a questo punto della mia carriera. A volte devo ricordarmi che ho 35 anni, perché non me li sento.

È vero anche che ho una famiglia, ho dei figli con cui voglio passare del tempo. A mio figlio piace molto il basket, e voglio essere lì per lui. Ma anche io amo il Gioco, e lo rispetto perché ha fatto tanto per me e la mia famiglia. Voglio fare il possibile per continuare a rispettarlo finché riesco, cercando di bilanciare il tempo che gli dedico e quello che dedico alla famiglia.

Ti mancano 4 partite di Regular Season per arrivare a quota 1.000 in carriera.

Non lo sapevo neanche. Cerco di non guardare troppo indietro, e neanche troppo avanti. Fin qua è stato incredibile, ma non è ancora finita.

Le proteste dei Bucks, che hanno deciso di non giocare in segno di protesta per quanto successo a Jacob Blake, si sono tradotte in tre giorni senza partite di Palyoffs. Come veterano, qualche giovane si è rivolto a te per qualche consiglio prima che si riprendesse a giocare?

Ho provato a spiegare, soprattutto ai più giovani, cosa sarebbe successo se fossimo rimasti o se fossimo andati a casa. Era una decisione che andava presa con il cuore. Ma considerando la crisi che stiamo attraversando, dobbiamo guardare al quadro generale delle cose, e cercare di prendere la decisione migliore per tutti.

Perché avete deciso di continuare a giocare?

Penso che fosse il modo migliore per noi di continuare a trasportare il nostro messaggio, e continuare a far sentire la nostra voce a tutti quelli che la devono sentire.

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FOTO: NBA.com

Hai avuto a che fare con episodi di razzismo a Denver?

Se non ne avessi fatto esperienza probabilmente non ne sarei consapevole. Penso che uno dei grandi problemi di questa faccenda è che molte persone sono, o sono state, vittime di razzismo e non se ne rendono conto. Dobbiamo essere consapevoli, e insegnare alle persone cos’è il razzismo e continuare a insistere per un cambiamento.

Hai deciso di non portare la tua famiglia nella bolla, perché?

Ho quattro figli, e una settimana di quarantena in una stanza avrebbero litigato troppo…

A parte gli scherzi, non volevo mettere la mia famiglia in queste condizioni. Volevo che si potessero rilassare. I miei figli avevano ripreso la scuola, e anche se mi mi sono mancati tantissimo penso che la cosa migliore per loro fosse rimanere a casa.

Hai parlato coi tuoi figli di quello che sta succedendo nel mondo oggi?

C’è sempre il dubbio se dire alcune cose in modo molto schietto e diretto oppure provare a proteggere un po’ la loro innocenza. Sì, abbiamo avuto conversazioni del genere e, anche con la loro madre ne hanno parlato. Credo che loro capiscano bene la situazione in cui si trova ora tutto il mondo.

Come afroamericano, ci parli di quello che è successo quest’anno?

Come uomo di colore, vedo queste cose che vengono fuori… Non è che non lo sapessi, ma vederlo direttamente mi ha spezzato il cuore. È stato un anno difficile sotto tutti i punti di vista.

In molti non si rendono conto delle cose finché non le vivono in prima persona. Io non voglio che per me sia così. Vedere il dolore delle famiglie delle vittime di questa situazione mi fa malissimo. Voglio sfruttare questa occasione per far sentire la mia voce.