Dall’ombra dell’università al titolo NBA, passando per la G League. La storia di Alex Caruso, “uno qualunque” diventato l’idolo di migliaia di appassionati.


FOTO: NBA.com

Questa è una storia sorprendente, diversa da tutte le altre.

Nessuno, di primo acchito, penserebbe che Alex Caruso possa essere il protagonista di una saga letteraria o di un set hollywoodiano. Eppure potrebbe esserlo benissimo, perché a fare leggenda non ci sono solo i Superman e i Michael Jordan, dai poteri sovrannaturali. Esistono anche personaggi più normali, come i Robin o, appunto, gli Alex Caruso. Degli “uno qualunque”.


Già, perché Alex vive a Los Angeles, nella città del cinema, però nessun riflettore si accende su di lui.

«I’m not Hollywood».

Ecco, Alex non è uno da Hollywood. Colpito dalla calvizie fin dagli anni del liceo, non è proprio “un Apollo”. Poi, diciamocelo, se non fosse per i suoi 196 centimetri – che comunque non spiccano tra i giganti della pallacanestro – non diremmo mai che gioca nella miglior lega di basket al mondo e, ancor di più, nella squadra campione NBA in carica, insieme a LeBron James ed Anthony Davis. Troppo smilzo.

Ma lì Caruso ci è arrivato, contro tutto e tutti. Contro i pregiudizi e gli ostacoli della vita.

Alex è da sempre uno di tanti, mai l’eroe o il protagonista assoluto. Viene da College Station, una città da circa 100mila abitanti nel deserto del Texas, tra Dallas, Austin e Houston. È una città universitaria e quindi di ragazzi come lui ce ne sono tanti, di cestisti sognatori pure.

Gioca fin da quando è piccolo e ama la pallacanestro come nulla al mondo, probabilmente influenzato da papà Mike, ex guardia a livello collegiale nella Creighton University. Alex, però, non è mai stato niente di più che un buon giocatore.

Ma a 17 anni accade qualcosa d’improvviso: cresce incredibilmente in altezza di 12 centimetri e comincia la sua scalata verso la vetta del basket americano. Nel suo ultimo anno all’A&M High School, il liceo di College Station, migliora non poco e diverse università si cominciano a interessare di Alex Caruso, una guardia veloce, dalla gran visione, con una capacità devastante di volare al ferro e feroce in difesa come pochi.

Declina tutte le offerte da fuori e sceglie di rimanere a casa, alla Texas A&M University, l’università dove lavorano mamma Jackie, nelle Risorse Umane, e il papà, come dirigente sportivo da più di 30 anni.

Caruso, però, dopo l’ultimo grande anno all’high school, torna nel limbo degli sconosciuti. Torna a essere uno qualunque per colpa di J-Mychal Reese e Johnny Manziel.

Se i loro nomi non vi dicono nulla, tranquilli, è normale. Ma nel 2012 a College Station erano loro le star pronte a dominare l’NBA, il primo, e il football americano, il secondo.

Manziel verrà scelto per 22esimo al Draft NFL del 2014. Oggi free agent senza aver lasciato il segno nel grande football. Mentre Reese, oltre aver recitato in una pubblicità con Steve Nash, non ha mai combinato nulla nel palcoscenico cestistico.

Eppure quando s’iscrive all’A&M Alex sa già che deve fare i conti con la celebrità di questi due. Ma non è un problema: Alex Caruso non cerca il successo e la fama, vuole solo divertirsi giocando a basket.

Lo fa dando tutto in campo. Non segna? Non è un problema: è pronto a correre in difesa e non far tirare nessuno. Alex è questo. Il talento c’è, ma non troppo. La sua forza è correre, difendere e, soprattutto, non mollare mai. Così passano 4 stagioni senza mai andare oltre i 9.1 punti e 4.5 assist di media, certamente non grandi numeri.

«Control what you can control» è il motto di Caruso: deve giocare semplice, senza forzare mai un tiro o un passaggio, rendendosi efficace per la squadra.

Ma il giorno in cui Alex si presenta al mondo è il 26 marzo 2016. Northern Iowa-Texas A&M, mancano 44 secondi e il tabellone segna 69-57, +12 per Iowa State. Quella è la March Madness, quindi win or go home. Potrebbe essere l’ultima partita al college per Caruso, che si è dichiarato eleggibile al NBA Draft 2016.

Ormai diversi tifosi della squadra texana hanno già abbandonato il palazzo: mai errore fu più grave. Tra gli Aggies – la squadra della Texas A&M University – il numero 21 Alex non conosce la parola “mollare” nel suo vocabolario. Così ribalta completamente la partita: 71-71. Si va agli overtime. Il primo, di nuovo, finisce in parità, ma nel secondo vincono i texani 92-88 con una partita straordinaria di Caruso, terminata con 25 punti, 9 rimbalzi e 3 assist.

Nella rimonta più incredibile della storia dell’NCAA, e forse non solo, il protagonista è il nostro eroe che diventa per la prima volta una star. «Ciò che ci ha dato una vera chance – racconta Billy Kennedy, il coach degli Aggies – è aver dato la palla in mano ad Alex».

L’università del Texas perde la partita successiva contro Oklahoma, è fuori dalla March Madness e così si chiude la parentesi al college di Caruso. Che vince, però, il premio di Difensore dell’Anno della Southeastern Conference.

Ora è pronto a fare il grande salto, ad andare in NBA. Spera in una chiamata tardiva al secondo turno.

Alex, però, la sera del 23 giugno 2016 non viene scelto da nessuno. Lo passano tutti e, naturalmente, si demoralizza. Il suo sogno è svanito. Non sa più dove andare.

Viene chiamato da Philadelphia per giocare la Summer League. Ci va, ma il risultato non è dei migliori: non viene confermato. Poi arriva la chiamata in G League da parte degli Oklahoma Blue, la squadra satellite dei Thunder.

Oklahoma City non è proprio una bella città e i giocatori che passano dalla G League alla NBA sono veramente pochi. Le chance di Caruso sono molto basse. Andare in una lega in cui contano quasi solo ed esclusivamente le statistiche non è certo il massimo per un giocatore di sistema come Alex. Eppure, lui è un guerriero: non ha paura di nulla. Vuole l’NBA a tutti costi.

Vola quindi verso OKC. Rimane ottimista, lavora fino allo sfinimento e continua a “controllare ciò che può controllare”, come recita il suo motto. Così gioca, si batte, difende e segna (poco, a dire la verità: è solo il nono miglior realizzatore del roster). Però l’estate successiva riesce a guadagnarsi un’altra occasione alla Summer League di Las Vegas, questa volta con i Los Angeles Lakers: deve fare il sostituto del neo-arrivato Lonzo Ball.

La partita che fa innamorare Nick Mazzella, uno dei responsabili dei Lakers, è quella contro i Sacramento Kings, in cui Alex deve difendere su De’Aaron Fox e segna 18 punti, 9 assist e 4 rubate. Così, per la prima volta, i social impazziscono per Caruso. The Bald Mamba.

«Abbiamo visto del potenziale in lui», dice Mazzella.

Al Mandarin Oriental Hotel di Las Vegas firma nell’estate del 2017 un two-way contract, che consiste in 45 giorni a Los Angeles in NBA, il restante in G League con i South Bay Lakers.

«È stato difficile. Avevo due famiglie, due case, due coach e due ruoli completamente diversi».

Viene letteralmente messo alla prova psicologicamente dai Lakers, ma Alex risponde positivamente. A fine stagione, con ogni sogno Playoffs svanito, Caruso comincia a correre sul parquet dello Staples Center. Scende addirittura in campo come titolare in 7 partite e il pubblico comincia a conoscerlo. Ha inizio il CaruShow: tutti amano quel ragazzo un po’ stempiato, che però in campo non molla mai.

L’anno successivo gioca di nuovo tra South Bay e Los Angeles, ma dopo l’infortunio di LeBron nella seconda metà di stagione ha molti più minuti a disposizione. È la sua occasione. È il momento di strappare un contratto NBA. E questo Alex lo sa, dà ancora di più sul parquet.

E l’immagine perfetta di quell’Alex Caruso è la memorabile schiacciata in putback contro i Golden State Warriors nell’aprile 2019, con una reazione esaltata della panchina, e anche – se non soprattutto – del Re; oppure, i 32 punti, 10 rimbalzi e 5 assist contro i Clippers.

È un mix di intelligenza cestistica e cattiveria agonistica. Impressiona tutti e a fine stagione firma un biennale da 5,5 milioni di dollari con i Lakers, dopo essere stato cercato fortemente in Free Agency da Grizzlies e Warriors. «È stata incredibile la sensazione nel momento di firmare il primo contratto NBA», dice.

Così, i social media parlano solo di lui. Inizia il festival dei soprannomi: The Insurance Salesman, The Accountant, The Bald Eagle, The Bald Mamba, The CaruShow e, ovviamente, The GOAT.

Finalmente il popolo ha nell’olimpo del basket “uno qualunque”.

Già, perché è proprio questo che rende Caruso speciale, sia un eroe che una star. È la sua umiltà. Il suo vivere in fondo a chissà quale strada sconosciuta di Los Angeles. Il suo riuscire a marcare giocatori più alti, più forti e con mezzi atletici migliori solo grazie alla sua cattiveria agonistica. Il suo essere, semplicemente, “uno qualunque”, che però gioca al fianco di LeBron James, è campione NBA e incassa, proprio dal Re, infiniti attestati di stima e fiducia in ogni partita.

Anche negli scorsi Playoffs ha fatto la sua figura, giocando oltre 24 minuti a partita, dando il suo aiuto a James e Davis con 6.5 punti e più di 1 rubata a gara, e facendosi trovare pronto quando le difese collassavano in area sulle due stelle dei giallo-viola. Ma anche con giocate difensive decisive, come la chasedown “lebroniana” in Gara 5 ai danni di James Harden:

D’altronde, la sua vita potrebbe essere raccontata in un film. Il titolo? L’ha già trovato lui, parlando al suo trainig camp a College Station:

«Se ce l’ho fatta io, allora ce la potete fare anche voi».